Gli scambi commerciali globali e i ritmi di crescita
E’ interessante osservare che a dispetto di qualsiasi congiuntura, anche la più imprevedibile e negativa, quale quella pandemica, i numeri ci mostrino inequivocabilmente che, il volume dei commerci mondiali possa subire una battuta d’arresto ma, non appena si ricreano le condizioni minime, ricominci immancabilmente a salire. Ragione per cui, per quanto gli scenari previsionali possano essere discordanti e talvolta tetri, e la contingenza appesantita da un quadro di emergenza straordinaria, è ragionevole pensare che per le imprese internazionalizzate e dinamiche, le prospettive possano essere incoraggianti già a breve-medio termine.
All’interno di questo scenario globale, è possibile poi fare molti distinguo, nelle diverse velocità con le quali i singoli paesi, riprendendosi, contribuiscono al dato, e ancora più puntualmente, per quali settori, in funzione delle aree geografiche emergano prospettive più invitanti e propulsive.
Guardando poi oltre l’orizzonte del momento, i vantaggi molteplici che porta l’internazionalizzazione di un’impresa sono oramai molto noti, e riguardano sia l’aspettativa di aumento del fatturato che la diversificazione del rischio, ma anche la crescita culturale e tecnologica, l’incremento di competitività, e i riverberi virtuosi che tutti questi assets generano sulla salute dell’azienda.
In ogni caso, rimane il fatto che l’eventuale scelta di asserragliarsi nella propria sfera abituale, evitando il confronto con gli altri mercati, per certo, precluda l’interazione con il restante 99% di possibili clienti non residenti nel nostro Paese (l’Italia conta infatti poco meno dell’1% della popolazione mondiale).
La fotografia nazionale
Assodato quanto sopra, verrebbe da chiedersi perché in Italia, su oltre 6 milioni di imprese attive, se ne contino solamente circa 140.000 esportatrici, il 90% delle quali con meno di 15 dipendenti, e di queste solo 20/25.000 si possano definire a pieno titolo esportatrici abituali.
Perché tanto potenziale inespresso, quando vi sono brillanti e oggettive capacità di produzione, di know-how e di inventiva, nel tessuto nazionale?
Una risposta dettagliata sarebbe molto complessa ma, per semplicità, si potrebbe riassumere nel concetto che esportare sia certamente possibile e molto benefico, ma non banale, quindi occorrono una serie di requisiti, valutazioni, adattamenti, che non si improvvisano, ma di cui viene spesso ampiamente sottostimata l’importanza da parte degli imprenditori, il che, nel caso, li indirizza verso un più che probabile insuccesso.
Veniamo dunque all’elenco dei 13 errori da evitare nella strategia d’internazionalizzazione.
1. Sottovalutare i tempi e i costi
Cominciamo con il ricordare che l’affermazione in uno o più mercati esteri comporti quasi sempre qualche sforzo economico, che non solo va pianificato, ma anche mantenuto per un certo tempo, prima di poter raccogliere risultati strutturati e duraturi. Molti imprenditori dimenticano l’impegno, i sacrifici, le risorse immesse, le attese e i cambiamenti, che hanno dovuto applicare, prima di riuscire ad realizzarsi nel mercato domestico e si creano parametri e aspettative inappropriate verso l’internazionalizzazione.
Non si vede, in effetti, perché dovrebbe essere più facile o rapida la conquista di un mercato estero ove, in aggiunta agli ostacoli nazionali, dobbiamo confrontarci con importanti differenze di varia natura rispetto alla realtà italiana e, normalmente, non possiamo presidiare il territorio quotidianamente. Ha quindi senso darsi obiettivi realistici e misurabili, ma soprattutto di medio-lungo termine, piuttosto che immediati o quasi.
2. Presumere che l’esportazione possa risolvere i problemi finanziari in breve tempo
Correlato al punto precedente, non va dimenticato un diffuso malinteso. E’ senza dubbio vero che l’esportazione possa dare un grosso impulso alle entrate di un’azienda, fino a cambiarne radicalmente i destini, ma questo, quando accade, è il coronamento di un percorso tipicamente abbastanza lungo e talvolta purtroppo, a tratti, accidentato. Quindi non è esattamente come andare a riscuotere una vincita.
Avventurarsi in un progetto di internazionalizzazione in un momento di seria difficoltà economica, tendenzialmente non solo non risolleva l’attività, ma può addirittura rischiare di affossarla. Non si escludono naturalmente, sporadici casi fortunati, in particolari categorie merceologiche, nei quali, con un approccio molto aggressivo in termini di prezzo, si riesca talvolta ad ottenere un risultato rapido, una sorta di “mordi e fuggi”, che tuttavia si rivela fatalmente labile e vincolato a condizioni raramente riproducibili.
3. Non studiare i mercati
L’analisi dei mercati è un aspetto determinante. Ciò che funziona in Italia o anche in un altro Paese può non funzionare in un terzo mercato. Internazionalizzare non significa cioè fare copia/incolla di un modello, magari anche di successo, nemmeno significa dirigersi verso chimere esotiche, perché si è “sentito dire” che qualcuno vi abbia fatto grandi affari, o ancora seguire l’istinto per convinzioni effimere. Significa viceversa, avere un approccio assolutamente razionale e raccogliere la maggior quantità di dati possibile, veritieri e oggettivi, prima di agire.
Una ricerca di mercato approfondita, deve tenere conto di una enorme quantità di fattori, non a caso quelle svolte da istituti specializzati possono raggiungere costi veramente rilevanti, tuttavia, grazie al web e ad alcuni accorgimenti strategici, l’impresa avveduta, oggi è nelle condizioni di ottenere comunque un quadro sufficientemente indicativo per potersi orientare, senza spendere un capitale e comunque di ridurre sensibilmente le probabilità di naufragio. In sintesi: studiare, studiare sempre.
4. Non predisporre un piano operativo o business-plan
Al fine di non sprecare sforzi e denari, è necessario pianificare le azioni da intraprendere in modo accurato e lungimirante, con un piano di impresa specifico per ogni mercato. Un’impostazione organizzativa integrata e globale, che comprenda evidentemente lo sviluppo di un budget per i costi stimati e i tempi presunti, ma anche i processi di vendita identificati e i flussi attesi, il posizionamento del brand, una proposta di valore chiara, i costi di logistica, l’integrazione con una campagna di marketing e comunicazione adeguate, ed ogni altro aspetto che impatti sul progetto. E’ fondamentale poi predisporre dei modelli di analisi e verifica misurabili e non limitarsi a sensazioni percettive.
Bisogna inoltre essere flessibili e coraggiosi nell’apportare correttivi, o addirittura cambiare rotta, se si evidenziano errori, inefficienze e omissioni, ma al tempo stesso conservare la tenacia per non fermarsi alle prime difficoltà e sviluppare la capacità di reagire per non vanificare gli sforzi fatti fino a quel momento. E’ un equilibrio fluido e sottile, demandato ad esperienza e sensibilità, ed è pertanto auspicabile, evidentemente, incaricare persone dedicate realmente competenti, informate e motivate, in grado di attuare tattiche logiche e credibili e disposte a perseverare nel tempo, ma senza celebrare presuntuosamente le proprie scelte.
Infine si raccomanda di non escludere eventuali aggregazioni o collaborazioni con altre aziende italiane o estere, che possano portarci sinergie sotto vari punti di vista.
5. Non considerare adattamenti di prodotto e di servizio
Con l’eccezione di pochi articoli fortemente standardizzati o di alcune categorie di beni strumentali, che hanno una consolidata diffusione transnazionale, la regola è che occorra qualche adattamento di prodotto, talvolta di carattere prevalentemente formale, ovvero di confezionamento, colore, documentazione accompagnatoria, ecc.. molto più spesso invece con un impatto decisamente sostanziale. Solo per fare qualche esempio, possono riguardare alcune caratteristiche tecniche e funzionali peculiari del prodotto, gli accessori e i servizi correlati, i vincoli tecnologici, fino talvolta alla destinazione d’uso.
In altre parole, quando l’imprenditore orgoglioso del proprio prodotto, in perfetta buona fede, si determini ad imporlo tout court, senza tenere conto dei connotati del mercato di destinazione, quindi del peculiare incontro fra domanda e offerta, può pagare caro l’inevitabile disinganno. In molti casi è consigliabile operare una selezione dal catalogo, per quel mercato, e in particolari frangenti potrebbe anche risultare vantaggioso rinunciare al proprio marchio ed entrare, propedeuticamente, o persino definitivamente, in modalità “private label”.
Sono molte le potenziali dissonanze rispetto al mercato domestico; possono essere diversi i clienti, il processo di acquisto, i vantaggi competitivi premianti, il posizionamento, il ciclo di vita, le necessità di customizzazione, i canali distributivi, ma anche le normative e le certificazioni richieste. Tutto ciò, in qualche caso, richiede non solo flessibilità, ma investimenti significativi in R&D, riprogettazione e riconsiderazione dei caratteri distintivi. Si rende evidente come una adeguata indagine di mercato preliminare, fra gli altri basilari benefici, generalmente renda anche in grado di prevenire una sanguinosa presa di coscienza successiva..
6. Non focalizzarsi su un giusto numero di mercati
Quando si scelga di essere proattivi e di tentare di determinare il proprio destino di espansione internazionale, sulla scorta di quanto rappresentato nei precedenti capoversi, emerge chiaramente quanto occorra organizzarsi, attrezzarsi e impiegare risorse, per affrontare consapevolmente ed efficacemente anche un singolo mercato.
E’ pertanto intuibile che, per una PMI, sia preferibile concentrare la propria attenzione su uno o pochi Paesi ovvero area omogenee, alla volta, con un ovvio criterio di priorità attrattiva, accessibilità e potenziale di successo. Una volta raggiunti gli obiettivi principali, ci si può poi dedicare a nuovi mercati target, forti anche delle abilità verosimilmente acquisite durante la precedente esperienza.
A mio avviso, non esiste un numero ideale di mercati, in senso assoluto, sebbene sappia che circolino anche teorie più schematiche su questo tema, piuttosto vi è un numero ideale per ciascuna azienda, e le caratteristiche che presenta. In senso generale, nel medio periodo, è preferibile non dipendere da un solo mercato, per i rischi assortiti di instabilità economica, politica, normativa, o magari legata a perturbazioni commerciali. Per altro verso, anche eccedere nel numero di Paesi target, almeno fino ad un’eventuale consolidata crescita dimensionale dell’azienda, può essere controproducente per l’impossibilità di applicare adeguate strategie di pianificazione, presenza e gestione, e come conseguenza produrre una verosimile dispersione di denaro ed energie.
7. Sottovalutare la concorrenza
Nel mondo globalizzato contemporaneo, non esiste sostanzialmente più alcun mercato privo di concorrenza. Tale concorrenza può ovviamente essere sia locale che internazionale. Qualora il nostro prodotto e/o servizio non abbia specifiche caratteristiche di unicità, valorizzabili anche nel contesto in oggetto, e adeguatamente tutelate in termini di proprietà intellettuale, dobbiamo sempre considerare con attenzione e rispetto le proposte della concorrenza, a maggior ragione se sono arrivate sul mercato prima della nostra.
Per altro è consigliabile destituire la convinzione che basti l’appeal del “made in Italy” per farsi preferire, poiché se è vero che, in alcuni settori e mercati, questo ingrediente continui a rappresentare un vantaggio di partenza oggettivo, normalmente, nel ventunesimo secolo, occorre persuadere il cliente con argomenti più puntuali e tangibili, quando non vincere resistenze, coi fatti, in relazione ai presunti pressapochismo e inaffidabilità italiani.
Solo con la conoscenza delle offerte esistenti e dell’accoglienza delle stesse, disponiamo delle credenziali per enfatizzare il nostro valore aggiunto e predisporre prodotti, servizi e condizioni attraenti. Oltre al web, e alla raccolta di informazioni da tutte le fonti attendibili possibili, un ottimo catalizzatore di indicazioni è la frequentazione delle fiere, ove si raccoglie un’importante concentrazione di operatori, e gli espositori sono portati, per ruolo, a mostrare prodotti, pubblicizzare servizi e fornire informazioni apertamente.
8. Non conoscere i clienti e/o non ascoltarli e non fornire servizi
Una pietra miliare dell’internazionalizzazione razionale consiste nell’adeguarsi agli usi e costumi, alle culture differenti e alle diverse abitudini di acquisto, nonché alle specifiche mentalità e prassi nel fare business. Come già accennato, scegliere il canale sbagliato, il segmento sbagliato o un posizionamento improprio, anche quando tutte le altre valutazioni siano corrette, possono fare tutta la differenza fra l’ottenere o meno un risultato. La WTA sostiene che, il 50% delle trattative in tutto il mondo, fallisca per incomprensioni culturali a prescindere dalle differenze linguistiche. Io azzarderei anche una quota superiore.
Un altro degli errori più diffusi, che non risparmia nemmeno alcune grandi società, è quello di porre al centro dell’attenzione il proprio prestigio aziendale, e “l’irresistibile potere seduttivo” dei propri prodotti invece dei bisogni del cliente, mentre è proprio la comprensione di questi ultimi a rappresentare la chiave del successo in una trattativa, ed è la percezione di trarre qualche vantaggio per sé, quale che esso sia, l’unica vera ragione a spingere il cliente all’acquisto, mai l’ammirazione verso il prodotto o il produttore.
Nell’ambito B2B poi, che è ampiamente il più diffuso nell’export delle PMI italiane, nell’ansia di trovare uno sbocco commerciale che giustifichi gli sforzi, non è raro legarsi al partner sbagliato, i cui interessi non siano realmente convergenti con i nostri, e tenda magari a “sequestrare” il nostro marchio, con rapporti di esclusiva sterili. Un po’ di esperienza e capacità di analisi, possono aiutare molto a cercare nelle direzione giusta, evitare fraintendimenti e proteggersi da vere e proprie “trappole”.
Altra questione nodale, consiste nell’identificare i servizi (che non di rado determinano le preferenze del cliente) più apprezzati, ad esempio, in alcuni mercati e settori, possono focalizzarsi maggiormente sulla formazione di prodotto, mentre, in altri, sulle garanzie o il sostegno tecnico. In tutti i casi, indistintamente, fornire il prodotto tout court e non associarvi alcun servizio, nel ventunesimo secolo, è perdente!
Un’ulteriore modalità di facilitazione, si sostanzia nel proporre forme di pagamento che certamente ci salvaguardino, ma nel contempo non scoraggino il cliente (quindi non solo ed esclusivamente pagamento anticipato) e agevolare i primi ordini, proponendo condizioni complessivamente favorevoli e minimi d’ordine accessibili.
9. Omettere l’assistenza post-vendita
E’ indubbio che il cliente, soprattutto nelle prime fasi della collaborazione, debba essere aiutato perché, a sua volta, possa ricavare un utile dal business, e vada sostenuto con un’appropriata assistenza post-vendita. Non è semplice costruire un rapporto solido e soddisfacente con un cliente affidabile, e quasi sempre tale rapporto è il distillato di una lunga ricerca, di scarti, delusioni e inceppi e conseguentemente di tempi e costi. Sarebbe molto ingenuo perderlo per trascuratezza, frenesia o calcoli poco lungimiranti.
Una volta avviata la relazione, è fondamentale creare un rapporto personale con il cliente, possibilmente programmando anche incontri, di tanto in tanto. In tal modo si gettano le basi per il più efficace “customer care” esistente, quello della fiducia, che permette, in molti casi, di prevenire o risolvere agevolmente frizioni e criticità. In aggiunta, frequentare l’azienda del cliente, consente di monitorarne lo stato di salute del suo business, rendersi conto di possibili opportunità aggiuntive, e magari scoprire precocemente l’ingresso di un concorrente.
Al contrario, adottare un atteggiamento predatorio e magari sovraccaricare il cliente che abbiamo temporaneamente convinto, quando questi poi non riesca a rivendere, o almeno a farlo in tempi ragionevoli, è doppiamente negativo, poiché da un lato il cliente stesso non ricomprerà, e dall’altro, ai nostri prodotti si potrà associare la reputazione di incommerciabilità, che ci precluderà anche futuri rapporti con altri soggetti.
10. Non curarsi della comunicazione e del marketing
E’ acclarato come nel ventunesimo secolo, la comunicazione aziendale non sia più semplicemente un “valore aggiunto”, ma una componente imprescindibile del piano commerciale. Potremmo anche avere il migliore e più originale prodotto al mondo, ma se non siamo in grado di comunicarlo appropriatamente, difficilmente andremo lontano. In un ecosistema, nel quale la presenza articolata sul web, la riconoscibilità di un marchio, e la fiducia che si genera sulla continuità, orientano le scelte del consumatore più delle virtù oggettive del prodotto, sottovalutare questo aspetto può costituire un errore esiziale.
Nell’era del digitale poi, se non esistiamo sul web, ai fini dell’internazionalizzazione non esistiamo affatto. Un sito vecchio, statico, tradotto male o solo in italiano, comunicano comunque, ma comunicano disvalori e mediocrità. Anche per una piccola azienda, è quindi vitale mostrare “una vetrina” seducente e possibilmente strutturare, a latere, un piano editoriale sostenibile, che preveda un’alimentazione regolare e interessante dei social network, le newsletter, campagne pubblicitarie mirate e attenzione agli accorgimenti SEO. Le spese sono oramai realmente accessibili, e il rapporto fra costi e benefici è enormemente superiore a quello offerto da qualsiasi altro strumento, si tratta soprattutto di organizzazione e buona volontà.
Nella stessa ottica di trasferimento di un’immagine professionale e rassicurante, si inquadra anche la produzione di adeguati strumenti commerciali fisici, quali cataloghi, company profile, listini, documentazione commerciale e tecnica, anch’essi tradotti correttamente e impostati in modo chiaro, preciso e accattivante.
11. Disinteressarsi del quadro legislativo e di eventuali barriere strutturali
Capita a molte aziende, comprese alcune grandi e ben strutturate, di dimenticare l’approfondimento della legislazione vigente. Qualunque avvocato ci racconterebbe che, anche in campo giurisprudenziale, in tutto il mondo, sia infinitamente meglio prevenire che curare, e quindi arrivare in un nuovo mercato ben preparati sulle regole del gioco operanti.
E’ pertanto altamente raccomandabile, redigere contratti congrui, che tengano conto delle legislazioni nazionali e transnazionali, delle eventuali convenzioni sussistenti, dei riconoscimenti delle sentenze, delle clausole inapplicabili, dei vincoli sulle esclusive e penali, delle responsabilità del produttore, delle certificazioni e permessi, delle normative di settore, della protezione della proprietà intellettuale, etc.
Evidentemente, allargando la visuale, si esorta caldamente a raccogliere informazioni fondate, anche sulla struttura fiscale vigente, sulle regole connesse al rimpatrio di capitali, la presenza di eventuali vincoli finanziari, di dazi o barriere particolari, nonché sui possibili limiti connessi al trasporto, alla logistica e alla conservazione delle merci.
12. Scaricare le responsabilità all’ufficio estero
Un altro malinteso piuttosto comune, è la supposizione miope che le attività di export siano di esclusiva pertinenza dell’ufficio estero, sia dal punto di vista squisitamente operativo che da quello del coinvolgimento motivazionale. In realtà, senza la collaborazione dell’intera azienda, e la convergenza verso un comune obiettivo, che significa responsabilizzazione e consapevolezza dell’importanza del risultato, è improbabile farcela. Sarebbe pertanto lungimirante illustrare appropriatamente ai collaboratori la portata dell’iniziativa intrapresa, e valorizzare il contributo di ciascuno.
Per altro, ci si trova molto spesso a dover immettere un impegno supplementare nel progetto internazionale, ed uscire dalla propria zona di comfort, per rispettare, per esempio, una consegna tassativa, adattare un prodotto, organizzare un evento, e molte altre evenienze, ed è quindi auspicabile che le varie funzioni aziendali vengano non solo informate e coinvolte fin dall’inizio, ma invitate a contribuire anche dal punto di vista delle idee e delle strategie praticabili.
13. Confondere la raccolta di ordini con l’internazionalizzazione
Capita di ascoltare imprenditori che evadendo qualche richiesta, nata da occasioni fortuite ed episodiche, da uno o più paesi oltre confine, dichiarino di “vendere all’estero”, quasi si trattasse di un’unica entità omogenea e indistinta. Il più delle volte non hanno alcuna cognizione del mercato di destinazione, né hanno mai visitato l’azienda cliente, o conoscono le ragioni per le quali questa acquisti. Il risultato è che potrebbero perdere da un giorno all’altro detto cliente, senza avere la più pallida idea del perché.
Evidentemente, sono relazioni generatesi più o meno incidentalmente, che hanno poco o niente a che vedere con l’internazionalizzazione, e non nascono da una scelta strategica. Nessuna impresa, giustamente, disdegnerebbe un cliente (solvibile) che si proponga da qualsiasi angolo del mondo ma, salvo che non divenga l’innesco per un approccio organizzato a quel mercato, generalmente tale rapporto non si trasforma in una dote, sulla quale si possa fare affidamento, per un piano di crescita aziendale di lungo periodo.
Quindi, quando si abbia la fortuna di arruolare un cliente con poco sforzo, non solo è auspicabile andare a conoscerlo sul posto e curarlo con premura, ma magari, indagando sulle ragioni della sua predilezione verso di noi, farne una “rampa di lancio” per un progetto organizzato in quel mercato, se sussistano i presupposti.
Conclusioni
Al termine di questa lettura, immagino che, a prima vista, l’internazionalizzazione razionale potrebbe sembrare un’impresa insormontabile, in realtà resta l’arma più potente e stimolante in mano alle aziende per una crescita solida e robusta. Le chiavi del successo sono chiare e relativamente accessibili, e si riassumono nella conoscenza, nelle attitudini professionali e in una certa capacità di comprensione del mondo, dopodiché le operazioni opportune diventano una conseguenza naturale del metodo di lavoro e quasi un automatismo.
Voglio aggiungere che questo sintetico e, inevitabilmente inesausto, elenco di “errori” caratteristici, non ha chiaramente la pretesa di rappresentare un salvacondotto, con il quale, l’aspirante esportatore supererà ogni ostacolo, potrebbe però costituire un modesto promemoria di riferimento per approfondire, rivolto a tutti coloro che, senza troppa esperienza, si approccino alle attività di internazionalizzazione, con la disposizione di farlo con metodo, mentalità aperta e attraverso le dovute attenzioni e dotazioni.
Saverio Pittureri
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