Definizione di internazionalizzazione e motivazioni
Da diversi anni a questa parte il termine internazionalizzazione è diventato molto popolare. In parte perché le altre classiche leve di espansione macroeconomica, nel nostro Paese, sono strutturalmente ingessate da decenni, e in parte perché la globalizzazione, che non riguarda più le singole imprese ma l’intero sistema economico, dalla quale quindi, volente o nolente, nessuno è escluso, ha obbligato anche le aziende più refrattarie a fare i conti con i mercati o quantomeno con i concorrenti internazionali. Lo scenario vede, infatti, molti players di altri Paesi, anche di dimensioni medio-piccole, muoversi ubiquitariamente con organizzazione e determinazione, senza inibizioni riguardo ai confini nazionali, includendo ovviamente nel proprio raggio d’azione anche il nostro Paese.
In risposta a quanto sopra, per mantenere competitività e assicurarsi un futuro sano e prospero, una parte sempre crescente (ma tutt’ora limitata) di aziende italiane lungimiranti, si sta attrezzando per raccogliere la sfida, secondo il principio incontrovertibile che, non sarà mai il mercato ad adattarsi all’offerta dell’azienda, ma sempre viceversa. E’ facile prevedere che nei prossimi anni la prima discriminante di successo fra le impese, depositerà non tanto nella dimensione, ma proprio nella capacità di internazionalizzare e garantirsi un vantaggio competitivo chiave per lo sviluppo, ma anche per la resistenza alle future crisi, alle mode e a qualsivoglia avversità socio-politica.
Per internazionalizzazione, tuttavia, si deve intendere qualcosa di molto più esteso e ramificato del semplice commercio. Le definizioni “scolastiche” disponibili sono molte e tutte quante, in qualche modo, insufficienti a tracciarne in modo esauriente i confini. A mio giudizio , una delle più indovinate è la seguente: “…definire quel complesso di scelte e di operazioni da attivare affinché si instaurino e successivamente sviluppino rapporti complessi e duraturi con partner di uno o più Paesi nel mondo, al fine di favorire una presenza stabile ed efficace dell’impresa sui mercati esteri.”
Le imprese che hanno avviato i suddetto percorso, sono anche quelle che, statistiche alla mano, hanno spostato maggiormente i propri investimenti dai puri beni strumentali, all’organizzazione, alla formazione, all’applicazione strategica e al know-how, ovvero puntando sul capitale umano e sul servizio in tutte le possibili accezioni, ferme restando le qualità competitive del bene prodotto. Alla luce di quanto sopra, risulta peraltro ineluttabile un costante innalzamento dell’asticella, ovvero il fabbisogno di un aumento progressivo del numero di informazioni da acquisire e di capacità da mettere in campo, per avere buone probabilità di riuscita sui mercati.
Le modalità
Non viene mai ripetuto a sufficienza come, nella nostra epoca, internazionalizzare non coincida esclusivamente e nemmeno necessariamente con esportare, viceversa le modalità operative sono molte e diverse. In futuro probabilmente tratterò la materia in modo più dettagliato, ma in questa sede, solo per limitarsi alle attività più praticate, a grandi linee si possono richiamare quelle rappresentate qui di seguito.
E’ indubbio, tuttavia, che la maggior parte delle imprese italiane ritengano l’esportazione la più interessante delle opzioni di internazionalizzazione, quando non l’unica meritevole della loro attenzione, ignorando o comunque sottovalutando quanto la stessa esportazione sia, ora, molto più ardua, quando non sia accompagnata da una convincente presenza sul territorio. Presenza che può essere diretta o indiretta, a seconda delle scelte strategiche e della cornice finanziaria sostenibile, ma comunque governata o attentamente supervisionata dall’azienda stessa. Nel medio-lungo periodo vi è una elevata e chiara correlazione, facilmente dimostrabile dai numeri, fra operazioni di consolidamento della presenza locale e affermazione nelle esportazioni.
Per lunga consuetudine, un buon numero di PMI nostre antagoniste insediate in altri Paesi, si avvantaggiano rispetto alla gran parte delle realtà italiane, per la dotazione di prodotti finiti, semilavorati, materie prime ed anche forza lavoro di provenienza extranazionale. Le imprese autoctone invece restano tipicamente ancorate alla convinzione che si tratti di una politica oscura e genericamente pericolosa, oppure al di fuori della loro portata, o semplicemente psicologicamente disagevole per disabitudine, e sopportano così costi talvolta spropositati rispetto a quelli proposti dal palcoscenico globale. Niente di più irrazionalmente pregiudizievole e fallace, evidentemente e con friabili giustificazioni di presunta qualità superiore, spesso puramente soggettive.
Per fortuna, pur lentamente, qualche segnale in controtendenza si rileva, e un crescente numero di piccole imprese italiane avvedute, cominciano a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento o addirittura si organizzano con accordi di produzione delocalizzata, divenendo tendenzialmente molto più concorrenziali.
L’impresa nel processo di internazionalizzazione
Una delle fasi preliminari più importanti è quella di identificare le risorse disponibili, i vantaggi competitivi dell’impresa, e la possibilità di valorizzarli in un determinato contesto, nonché mettere a fuoco i rischi e le ricadute che ciascuna azione intrapresa potrebbe comportare. Questa disamina che, per ovvie ragioni, dovrebbe essere la più obiettiva possibile, è auspicabile possa beneficiare di un soggetto esperto, esterno all’azienda, meno influenzato dal vissuto e dai giudizi di parte, e in grado possibilmente di dare anche un’indicazione preventiva sul mercato più idoneo.
Stabilito che al termine della valutazione propedeutica venga confermata la sussistenza di presupposti confacenti, e che il check-up preventivo delle risorse tangibili e intangibili, necessarie al progetto, le identifichi come presenti o reperibili, e sostenibili nel tempo, (comprese le competenze delle risorse umane dedicate), si può fare un passo avanti, avviando un’indagine più accurata del mercato obiettivo.
Definito poi, che i fattori esogeni, insiti in un determinato mercato (contesto socio-economico, attrattiva rispetto al mio prodotto/servizio, accoglienza culturale, assenza di barriere doganali o giuridiche, possibili commercializzazione e redditività, concorrenza superabile, ecc), risultino compatibili con il progetto, si può finalmente procedere nel definire un plausibile percorso da intraprendere più in dettaglio, prevedendo una strategia di ingresso e un’ipotesi graduale di implementazione della presenza, con eventuale radicamento nel tempo, e investimenti progressivi in ragione dei risultati ottenuti. In altre parole, si redige un business plan.
Il business plan internazionale
Anche questo argomento, come la più parte dei capoversi di questo articolo, meriterebbe (e verosimilmente otterrà) una disamina a parte, per la vastità e poliedricità delle declinazioni che può assumere. In breve però, il business plan è un documento che raccoglie le caratteristiche di un piano imprenditoriale articolato, e coinvolge numerosi risvolti: economico-finanziari, strategici, commerciali, operativi, etc. legati l’uno all’altro e nessuno dei quali superfluo (se il piano è ben fatto).
Non è un mero esercizio convenzionale, per seguire i dettami dei manuali, tanto che non hanno alcuna importanza la struttura, la forma espressiva o la lunghezza del documento ma evidentemente solo la sostanza. Invito caldamente a prenderlo in considerazione perché serve, prima ancora che come spartito operativo, per autocoscienza, costringendoci a pensare ed agire secondo logica e a fare valutazioni strategiche realistiche e non istintive.
Un buon piano dovrebbe, in definitiva, contenere tutti gli elementi necessari allo sviluppo e gestione del progetto internazionale, i mezzi necessari, le professionalità richieste e le modalità applicative, e dovrebbe metterne in luce i benefici attesi e consentire di limitare gli errori, non nascondendo i potenziali problemi ma, al contrario, facendoli emergere associati, se possibile, a soluzioni percorribili. Dovrebbe essere uno strumento flessibile e non dogmatico, soggetto ad adeguamenti e variazioni in funzione delle mutate circostanze o di possibili errori di giudizio.
E’ importante mettere in risalto il fatto che il responso strategico, al termine della redazione di un business plan sviluppato correttamente, che comprenda quindi anche l’analisi oggettiva dei rischi, possa talora essere negativo, ovvero capita di evincere che nonostante si abbia già svolto un certo lavoro e alcuni assunti apparissero favorevoli, sia consigliabile desistere, in quanto non sussistono le condizioni essenziali, in un determinato momento, e stanti determinati approfondimenti analitici, per ottenere un certo risultato. Al solito, meglio prevenire che curare.
Creatività, metodo e coraggio
Dopo la rivoluzione agricola e quella industriale, la rivoluzione delle comunicazioni, tuttora in corso, è l’evento più impattante sull’economia che la storia abbia conosciuto. Sono proprio la rapidità, la facilità e la diffusività delle comunicazioni (e dei trasporti) che rendono possibili l’esplorazione e la scelta dei prodotti e dei servizi ovunque nel mondo, sulla base di regole dettate in gran parte dal libero mercato. In altre parole la nostra impresa, anche piccola, se abbiamo sufficienti abilità di marketing può essere vista ai quattro angoli del globo.
Sul piano commerciale ciò apre possibilità inimmaginabili alle PMI che sappiano diversificare e innovare o che magari sappiano scovare, fra gli spazi aperti dalle grandi aziende, quegli “interstizi” che non sono percorribili dalle stesse, per motivi dimensionali e rigidità strutturale. La parola chiave è distinguersi, ricavare una nicchia nella quale vi sia meno concorrenza, ed essere nel contempo efficaci nel trasmettere il valore aggiunto e originale della propria proposta, attraverso un piano di comunicazione ben articolato.
Vitalità, inventiva, idee, flessibilità, sono peculiarità che fanno parte storicamente del nostro patrimonio imprenditoriale nazionale e sono armi potenti che possiamo e dobbiamo valorizzare nel panorama internazionale. Detto questo, le virtù succitate non vanno confuse con inaffidabilità e approssimazione.
Nell’affrontare un progetto di internazionalizzazione, infatti, non è pensabile procedere in modo improvvisato, pena il fallimento. E’ richiesto invece che, l’intera impresa si configuri e determini, affinché un certo disegno possa riuscire. Le persone che se ne occupano devono essere preparate e impegnate costantemente, devono perseguire l’obiettivo con determinazione e metodo, essere pronte a confrontarsi quotidianamente con la realtà del mercato e abbandonare il solco confortevole dell’autoreferenzialità.
Nell’aggregazione un’opportunità
Il superamento del limite dimensionale, per sviluppare progetti più incisivi nello scenario internazionale, è un obiettivo che le nostre istituzioni si pongono da anni, incoraggiano nuove relazioni di filiera sia orizzontali che verticali, ma anche collaborazioni diverse e trasversali, purché efficaci e competitive, con diverse vesti giuridiche snelle ed economiche. Si tratta di una sfida enorme, che si scontra con un certo approccio culturale conservatore, con le rivalità personali e professionali e con l’egocentrismo narcisista di molti imprenditori.
Le nuove relazioni fra imprese, per cominciare dovrebbero liberarsi dei rigidi vincoli localistici ed orientarsi invece puramente alla credibilità, all’efficienza, all’integrazione e all’ottenimento di economie di scala. In altre parole, l’orizzonte che andrebbe perseguito necessiterebbe di lasciarsi alle spalle pregiudizi e consorterie, per aprirsi a un tipo di appartenenza sinergico e lungimirante, “di sistema”, migliorando insieme la qualità e perseguendo la completezza dell’offerta, accrescendo la massa critica dove abbisogni e colmando auspicabilmente il gap finanziario e organizzativo rispetto ad altre realtà internazionali. Per quanto non manchino gli sforzi, la mia sensazione è che siamo ancora piuttosto lontani dalla meta.
Gli obiettivi
Evidentemente un piano di internazionalizzazione deve precipuamente fissare degli obiettivi rapportati ad un tempo. Tali obiettivi devono essere misurabili, verificabili e possibilmente riproducibili. E’ pertanto un esercizio utile il segmentarli, così come si fa per le categorie di clienti o per le aree geografiche di mercato. Per semplicità, nel grafico sottostante, restringiamo la prospettiva alle aspirazioni più caratteristiche per le PMI, quindi eludendo, per questa volta, gli approfondimenti sulle joint-venture internazionali, gli apporti di capitali esteri, l’impianto di unità produttive, le ottimizzazioni finanziarie e fiscali, ecc..
Senza dimenticare che, se pure sia lapalissiano che, per le PMI, gli obiettivi commerciali ed economici risultino prioritari, si dovrebbero valutare contestualmente anche alcuni obiettivi di natura diversa, quali quelli di reputazione, affidabilità o la somma di percezioni valoriali e di posizionamento cosiddette “psicografiche”. Nei limiti del possibile si dovrebbe tendere a raggiungere questi traguardi, tanto quanto quelli più ovvi e materiali, in quanto, indirettamente, in prospettiva, altrettanto redditizi.
Di importanza fondamentale, anche per quanto concerne gli obiettivi finali, come si è già riferito per i passaggi del piano esecutivo, risulta il fissare dei traguardi nodali intermedi, con funzione di verifica e riconferma, ovvero prevedendo quando necessario l’applicazione di correzioni e la ridefinizione degli scalini successivi.
In concomitanza con detti momenti di verifica, deve essere sempre contemplata anche l’eventualità di una “exit strategy” qualora sfortunatamente subentrino fattori di ostacolo oggettivamente insuperabili che rendano gli obiettivi irrealizzabili o quando l’ottenimento degli stessi dischiuda possibili effetti collaterali, eccessivamente rischiosi, a maggior ragione a fronte di investimenti significativi da immettere. Parafrasando un motto degli alpinisti: il miglior “scalatore” è colui che capisce se necessario abbandonare anche quando sia a un passo dalla vetta e abbia la forza di pianificare una nuova scalata in condizioni più favorevoli.
Fra gli obiettivi “indiretti” non sono trascurabili i riverberi di know-how recepito, acquisizione di nuove competenze commerciali, probabile crescita tecnologica e produttiva e, non ultimo il notevole potenziamento di immagine e reputazione, che si riversano sul mercato domestico. Sono riflessi gradevoli e tangibili quanto solitamente inattesi dall’imprenditore, dell’internazionalizzazione di impresa, ma per esperienza, mi assumo la responsabilità di testimoniare che si verifichino quasi sempre!
Un ultimo, ma non certo meno importante possibile obiettivo, come già più volte sottolineato, potrebbe consistere nell’elaborare anche una strategia lungimirante di internazionalizzazione degli approvvigionamenti, che consenta più o meno sistematicamente di ottenere prezzi sensibilmente inferiori su materie prime, semilavorati, componenti, e talvolta di trovare nuove soluzioni e prodotti, senza dover rinunciare agli standard desiderati (L’Italia, per altro, non ha grandi risorse naturali e nella stragrande maggioranza dei casi, il nostro abituale rivenditore italiano di materie prime, acquista su altri mercati applicando naturalmente un margine).
I rischi
Come qualsiasi decisione imprenditoriale importante e destinata ad avere impatto significativo sull’attività di impresa, l’internazionalizzazione affrontata con preparazione inadeguata, risorse finanziarie mal calcolate e forse, soprattutto, addetti non all’altezza, può presentare incognite anche di una certa consistenza.
Si può incappare in rischi correlati al Paese, di carattere politico o sociale, legati per esempio ad azioni mal consigliate per ignoranza o mal interpretazione degli usi e del pensiero locali. Non sono rari gli errori nella scelta dei canali di vendita adottati e ancora più comuni risultano i rischi di ordine prettamente commerciale, come le fluttuazioni nella domanda di beni, di prezzi, o legati alla presenza pervasiva di concorrenti ben attrezzati, e varie altri tipi di incognite di mercato.
Si presentano con qualche incidenza anche rischi di tipo tecnico, legati alle caratteristiche del prodotto o, per esempio, di inidoneità alle normative che ne regolano la messa in commercio. Così come si può essere costretti a fare i conti con rischi di tipo giuridico, doganale, monetario o fiscale, solo per citarne alcuni.
Non sempre, ma in buona percentuale, la genesi di questi incidenti si può ricondurre a maldestra sottovalutazione o trascuratezza preliminari. In larga parte, quindi, si riescono a prevenire con l’organizzazione, la conoscenza, le competenze tecniche, in una parola con una approccio professionale a tutto tondo. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si suggerisce l’articolo “Gli errori più frequenti nell’affrontare i mercati esteri”.
Conclusioni
Per chiudere questo scritto, anziché un tradizionale ricapitolo, per una volta, preferisco prendere a prestito un paio di citazioni molto calzanti, che, combinate, rappresentano ugualmente un’ottima sintesi. La prima è di Peter Ferdinand Drucker, un brillante economista attivo per gran parte del ventesimo secolo, che a grandi linee recita questo: “Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa.” Mentre la seconda è di Warren Buffet uno degli imprenditori di maggiore successo al mondo, tutt’ora attivo a pieno titolo: “L’investimento deve essere razionale. Se non lo capite non lo fate”.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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