Se per le grandi imprese costruire un business plan export è pratica normale, non altrettanto si può dire per le piccole imprese, dove l’imprenditore, il più delle volte, lo percepisce come un’enunciazione altisonante e vuota o, nella migliore delle ipotesi, una mera esercitazione formale, buona per chi faccia fumo e non arrosto.

Provo qui di seguito a spiegare perché, a mio avviso, non è così.

 

Cos’è un piano export?

Il piano export o business plan export, è uno strumento che parte da una approfondita auto-analisi del merito aziendale, e si sviluppa in un’articolata e realistica proiezione di attività interconnesse e relativi investimenti, sviluppati nel medio periodo, al fine di avviare e successivamente consolidare un processo di internazionalizzazione di impresa, precedentemente identificato.

Per la realizzazione del suddetto complesso di attività, occorre sapere determinare i mezzi, le risorse finanziarie, tecniche, produttive e il capitale umano necessari, mettendo in luce i benefici e le potenziali minacce, in modo da ottimizzare gli sforzi e prevenire, per quanto possibile, errori e sprechi.

 

Com’è fatto nella pratica?

Premesso che la forma ha scarsa importanza e non esiste un modello unico per redigerlo, tuttavia genericamente sarebbe preferibile che la stesura non superasse le 20 pagine, e dovrebbe essere costituito sia da una componente descrittiva che riguardi l’analisi precedentemente accennata, ma anche la pianificazione strategica e gli obiettivi stabiliti, che da una porzione, strettamente correlata, prettamente economico-finanziaria.

Nel piano export non dovrebbero essere nascosti i problemi ma al contrario, fatti emergere ed associati, se possibile, a soluzioni percorribili.

 

A cosa serve?

Serve sia per finalità “esterne” che “interne” all’impresa.

Quelle esterne possono riguardare l’ottenimento di un finanziamento pubblico o privato la cui richiesta, associata ad un buon piano export, risulta normalmente molto più convincente (nel pubblico talora è condizione necessaria). Ugualmente serve ad illustrare efficacemente il progetto a soggetti terzi che possano partecipare in qualità di soci, partner commerciali, sponsor o ad altro titolo.

Evidentemente la forma ma anche alcuni contenuti del piano, devono tenere conto del destinatario, aggiungendo ad esempio qualche nota sulle caratteristiche dell’impresa, e sul perché si intenda esportare, nonché specificatamente perché sviluppare e gestire quel determinato piano.

Quelle interne invece, oltre a rendere più chiaro il progetto a chi non vi abbia direttamente partecipato, mettono in moto l’autocoscienza, e rendono consapevole l’impresa su quali passi, attività, tempi, difficoltà, effettivamente comporti attuare il processo delineato.

Un risvolto meno esplorato, è che spesso il piano export possa rivelare aspetti inattesi e nascosti, legati alle possibilità dell’impresa, e crei, di conseguenza, l’occasione per impostare un lavoro proficuo in una nuova direzione, autonoma e indipendente dal piano.

 

Le caratteristiche tipiche strutturali

Presumiamo che si sia già individuato un Paese (o un’area omogenea), sulla base di valutazioni razionali e di reali attrattiva, ovvero dove si presentino le maggiori opportunità e i minori rischi, per le caratteristiche dell’impresa e del prodotto/servizio.

Detta scelta, particolarmente critica, implica indagini a 360°, che investano ricerche e considerazioni macroeconomiche, culturali, ambientali, sociali, congiunturali, fiscali, logistiche, doganali, giuridiche, documentali, settoriali, sulla concorrenza, ecc… e ovviamente l’esito di questa analisi, determina l’impalcatura del piano export che si conforma peculiarmente su quel mercato.

Si procede quindi alla configurazione strategica che, sulla base delle informazioni raccolte, individua un pubblico target, a cui si armonizzino sia la modalità di ingresso che le campagne di comunicazione.

Vengono costruite le caratteristiche della proposta di prodotto e/o servizio, con eventuali adattamenti, che esaltino il vantaggio competitivo e, in parallelo, si definisce un budget di spesa appropriato e sostenibile, tenendo ben presente che l’azienda sia nelle condizioni per sopportare l’investimento, durante un periodo medio-lungo, diciamo 3/5 anni (a tal proposito è bene verificare le fonti di finanziamento).

La successiva fase operativa prevede naturalmente l’applicazione di quanto teorizzato, con attività commerciali, promozionale e strategiche, coerenti al progetto, e il perseguimento di obiettivi che devono essere evidentemente stimolanti ma realistici.

E’ fondamentale il monitoraggio costante non solo dei risultati, ma anche delle condizioni di mercato che, se mutate, devono trovare risposta pronta e congrua. Senza indugio occorre modificare le iniziative poco funzionali e/o redditizie, ovvero eccessivamente onerose o rischiose, ma al tempo stesso capire lucidamente dove invece sia opportuno perseverare nonostante il ritardo sulle aspettative.

Un buon piano export deve cioè essere dinamico e costantemente aggiornato, in funzione, come detto, sia delle evoluzioni inevitabili del mercato, che della crescita di esperienze e conoscenze aziendali attraverso le quali, non di rado, vengono suggerite piccole o grande correzioni di rotta.

 

Chi lo dovrebbe scrivere e poi gestire?

La persona deputata a compilare il piano export, e verosimilmente ad attuarlo e gestirlo, dovrebbe avere capacità ampie e trasversali, essere in grado di avere una visione d’insieme, sapere coordinare altre persone, possibilmente conoscere la lingua e la cultura del mercato bersaglio, contare su una buona preparazione commerciale ed economica, ma anche di marketing e comunicazione.

In sintesi, le competenze da mettere in campo affinché il progetto possa andare a buon fine, non sono affatto trascurabili.

In linea di massima, la figura in grado di corrispondere a questo profilo, è un export manager con buona esperienza, che si coordini strettamente con la proprietà o con i responsabili dei vari comparti aziendali; può essere anche un consulente esterno, purché empatico e ben integrato con l’azienda.

L’incarico può essere ugualmente affidato ad un gruppo di lavoro ma, per esperienza, anche in questi casi, funziona meglio quando si elegga comunque un responsabile, che inevitabilmente incarni il motore del progetto.

 

Si può esportare senza un piano export?

Ovviamente sì.

E’ la modalità che tutt’ora adotta gran parte delle PMI italiane. Scegliere uno o più mercati, secondo criteri più o meno razionali (più spesso in maniera improvvisata), e fare qualche tentativo navigando a vista, partecipando, ad esempio, in modo estemporaneo a qualche fiera o assecondando vere o presunte opportunità casuali.

Le incognite che comporta questo approccio sono palesi. Grande spreco di tempo e denaro in direzioni e attività scarsamente strategiche, enormi ritardi di reazione in caso di insorgenza di difficoltà, alle quali non si è preparati, assoluta incertezza in termini di costi e ritorni attesi.

Gli imprenditori non sempre ne sono consapevoli, ma puntualmente se ne rendono conto, retroattivamente, nel momento in cui finalmente accettino di operare diversamente.

 

Conclusioni

Il piano export non deve essere considerato un gravame inutile, né un paludato esercizio accademico fine a sé stesso, viceversa, come per qualsiasi altro strumento, se lo si adatta alle proprie esigenze e lo si interpreta con la giusta flessibilità e professionalità, può costituire realmente un grande aiuto anche per le piccole imprese, sia in termini di cognizione di causa che di concreto risparmio di tempo e di denaro.

Saverio Pittureri 
Easy Trade

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