Dove eravamo rimasti…

Sulla scorta del precedente articolo, dovremmo avere acquisito maggiore consapevolezza sulle peculiarità di questa regione, ma al tempo stesso anche su quanto possano essere influenti le eterogeneità fra i vari Paesi che la compongono.

A tal proposito, fra di essi, vi sono mercati che per caratteristiche marcatamente distintive, per specificità di business, consistenza economica e/o demografica, rapporti con l’Italia, certamente meriterebbero una trattazione autonoma (Turchia, Iran, Arabia Saudita, EAU, solo per citarne alcuni), non è questo l’obiettivo odierno, ma lo potremo considerare per il futuro.

Ciò detto, e con i limiti insiti nelle suddette premesse, proviamo qui di seguito a proporre una sintesi di informazioni e linee guida economiche, che possa risultare utile per l’approccio business nel MENA, quantomeno in senso generale.

Il profilo economico del MENA

La regione MENA, costituisce il più importante «serbatoio energetico» del mondo, ed è un’area di transito per buona parte delle merci spostate via mare, da oriente ad occidente e viceversa (i traffici commerciali «intra-MENA» rappresentano appena il 7-8% del movimento merci nella regione). Dal solo stretto di Hormuz (prospicente alle coste iraniane) transita il 40% del petrolio mondiale, per non parlare dell’importanza strategica del canale di Suez (di cui è previsto un sostanzioso ampiamento).

Benché dopo il 2010 si sia registrata una relativa stabilizzazione, all’attuale ritmo di crescita, nel giro di 5 anni, la popolazione complessiva del Maghreb, dovrebbe superare quella di Francia, Italia e Spagna messe insieme; quella dell’intero MENA l’ha invece già superata da tempo. L’elevato tasso di giovani, fra i più alti del mondo, costituisce un prezioso potenziale intellettuale e di forza lavoro e, questi stessi giovani, rispetto alle generazioni precedenti, mostrano una forte propensione all’acquisto di prodotti occidentali.

Demografia-Mena

Il tasso di estrema povertà, convenzionalmente inteso per un reddito ≤ 1,25 $USA/die, riguarda il 4% delle popolazione, uno dei più bassi fra tutte le aree in via di sviluppo al mondo, ma viene, in qualche modo, controbilanciato da quello correlato alla povertà relativa (fra 2,43 e 2,70 $USA/die), che interessa fra il 30 e il 40% della popolazione, in vari Paesi del MENA, pur evidentemente con diverse variabili e disomogeneità generali e locali. In ogni caso, un costante miglioramento degli standard di vita è innegabile, relativamente ubiquitario, e porta con sé, fra le altre, una richiesta crescente di prodotti e servizi di alto livello qualitativo, più marcata nell’area del Golfo, ma in salita in tutta la regione.

Gli shock petroliferi degli anni Settanta, hanno stimolato una rapida crescita economica della maggior parte del MENA (fino a 60 anni fa, i Paesi produttori di greggio vivevano ancora essenzialmente di agricoltura, pesca e pastorizia). Le entrate derivanti dal petrolio, hanno generato un volano virtuoso che ha permesso la strutturazione di sistemi economici e finanziari moderni. Dai primi anni 2000, le economie dei Paesi MENA, nonostante le crisi globali, mantengono tassi di crescita media reale del PIL intorno al 4,0/4,5% all’anno.

 

I trend attuali

A dispetto della crescita sopra accennata, in alcuni Paesi la disoccupazione giovanile rimane a livelli preoccupanti, ed è chiaramente uno stimolo all’emigrazione (fenomeno comunque in progressiva riduzione), è però incoraggiante che nel giro di pochi anni, il tasso medio di disoccupazione del MENA, sia calato dal 15 al 11%, e stia tuttora confermando questo orientamento virtuoso. Certamente, ad oggi, questo indicatore costituisce ancora una piaga piuttosto impattante, nel valutarne la portata occorre tuttavia tenere in considerazione il problematico accesso al lavoro da parte delle donne, una condizione strutturale, in alcuni dei Paesi coinvolti, che non accompagna plasticamente la curva della domanda e dell’offerta.

La crescita, come detto, è sostenuta direttamente sia dai produttori di idrocarburi (Arabia Saudita, EAU, Iran, Kuwait, Algeria, Egitto, Libia, ecc…), come da quei Paesi che hanno ricevuto ingenti investimenti diretti intra ed extra-MENA, e/o che hanno sviluppato significativi flussi turistici e, in qualche caso, anche una certa consistenza industriale (Egitto, Giordania, Libano Marocco, Siria, Tunisia, Turchia,..), infine da quelli che si sono inventati, con molto ingegno, servizi finanziari e commerciali articolati (Emirati Arabi, Bahrein, Qatar).

L’area attira più investimenti dell’intero Mercosur, e dai suoi porti e canali, transita circa un quarto del commercio mondiale (oltre 200 navi al giorno per un totale di 15milioni di tonnellate di merci l’anno). Oltre il 40% del petrolio mondiale è attualmente estratto dai Paesi MENA, si è però ridotta sensibilmente negli ultimi 10 anni, la destinazione europea. L’Europa continua a dipendere per quasi i 2/3 del proprio fabbisogno energetico da Paesi terzi, ma per scelte politico-strategiche, attualmente, il vecchio continente si rifornisce prevalentemente dalla Russia.

ESPORTATORI DI PETROLIO
esportatori-petrolio

Una sfida non banale per i Paesi del MENA, si gioca sulla necessità di contrastare la scarsità di risorse idriche, che evidentemente impatta non solo, come ovvio, sulla vita quotidiana delle persone, ma anche sullo sviluppo delle attività economiche. Nonostante l’aggravamento procurato dal cambiamento climatico, va sottolineato, in positivo, il fatto che oltre l’80% della popolazione del MENA, abbia oramai accesso ad acqua potabile “portatile”, e che nella regione, per fare fronte a tale bisogno, siano state estesamente implementate costose tecnologie, quali gli impianti di desalinizzazione, che nei paesi GCC forniscono circa il 50% del fabbisogno totale.

 

Le previsioni e le opportunità future

I Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, EAU, Kuwait, Qatar e Oman), insieme a quelli del bacino Mediterraneo, sono per unanime pronostico dei tecnici, fra quelli che presentano le migliori prospettive di crescita nel mondo. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, il PIL pro capite di quest’area (i Paesi del Golfo già presentano valori fra i più alti al mondo), continuerà ad incrementare mediamente con tassi superiori al 12%, nei prossimi anni, pur con una distribuzione ancora piuttosto segmentata e una vistosa dissonanza fra i più ricchi e il resto della popolazione.

Nel suo insieme, la macro-area rappresenta ora intorno al 5% del PIL mondiale, che la maggioranza degli osservatori tendono a ritenere in ulteriore crescita, sia relativa che assoluta. La “finanza islamica” ha un valore potenziale di oltre 1.000 miliardi di $ USA l’anno, e verosimilmente muoverà, nei prossimi 3/5 anni, un ammontare di 3 trilioni di $ USA, nei Paesi occidentali, in buona parte attraverso i fondi sovrani (che ad esempio, dopo il 2009, hanno salvato alcune banche dal crack, in USA e nel resto del mondo). Si prevede che nei prossimi 10 anni, verrà raggiunta una quota intorno al 50% del risparmio totale afferente alla popolazione musulmana nel mondo, gestita da banche islamiche.

I sistemi finanziari di questi Paesi si sono dimostrati relativamente poco vulnerabili agli effetti della crisi finanziaria ed economica del decennio scorso, ovvero ne hanno risentito in misura minore rispetto sia alle economie sviluppate, sia a quelle dei Paesi in via di sviluppo. In termini numerici, il 2009, che prima del ciclone pandemico era stato il peggior anno per l’economia mondiale moderna (con un arretramento globale del PIL dello 0,6%), nel MENA aveva visto un incremento di PIL del 2,4%. Per il 2021 e 2022 il FMI prevede una crescita del PIL nel MENA intorno al 4,5%.

La resilienza di questi sistemi economici si è sostanziata sia laddove gli elevati prezzi del petrolio avevano permesso la costituzione di ampie riserve valutarie, sia, in altri casi, in conseguenza del relativo isolamento dei sistemi finanziari (ad esempio la limitata apertura verso strumenti strutturati come i “derivati”), che ne ha ridotto sensibilmente la contaminazione.

Si registra una notevole differenza fra i Paesi del Golfo, nei quali resta ampiamente diffuso l’istituto della «sponsorship», per consentire ad uno straniero di risiedere ed operare in loco, rispetto ai Paesi del Nord Africa, nei quali vige decisamente un maggior liberismo. Diversa è anche la possibilità di accesso agli appalti, che nel Golfo, per oltre l’80%, sono aperti alle sole società locali (o di capitale misto), e le produzioni made in GCC sono favorite per legge (anche quando il prezzo di offerte di produttori extra GCC sia inferiore!). Da ciò ne deriva quale sia l’importanza di una presenza stabile in qualche forma, o quantomeno di alleanze strutturate, in detti Paesi.

Non a caso, sono sempre più importanti e numerose le zone franche (spesso a tema), nelle quali, per le società estere, è possibile beneficiare di agevolazioni fiscali, importazioni di macchinari e materie prime in esenzione daziaria, e in alcuni Paesi anche la possibilità di facilitazioni operative. Le più note sono indubbiamente quelle negli EAU, che generano ben il 32% del PIL del Paese. Molto di recente, il gigante trascinante dell’area, l’Arabia Saudita, ha varato una nuova legge che incoraggia gli insediamenti produttivi esteri, sul proprio territorio, premiandoli con vantaggi negli appalti non dissimili da quelli appannaggio delle società locali.

Sono comunque in atto importanti evoluzioni giuridiche e, dall’inizio di quest’anno, anche in alcuni Paesi del Golfo (in particolare negli EAU, che hanno sempre un approccio pionieristico), è diventato possibile per un europeo, almeno in determinate condizioni, possedere interamente una società di diritto locale, non più solamente quando offshore e nelle aree speciali. Non ci aspettiamo rivoluzioni immediate nell’operatività concreta, ma si è aperta una via di importanza cruciale per ambo le parti.

 

Cosa è utile sapere per fare business

Altri riflessi di tale protezionismo, che come ricordato riguarda i Paesi del Golfo più che l’area nordafricana, si riscontrano nel fatto che ci sono forti limiti all’operatività di agenti di commercio (in genere solo persone fisiche o giuridiche locali). E’ estremamente semplice registrare un contratto di agenzia, viceversa può diventare molto oneroso e complicato scioglierlo, in mancanza di collaborazione della controparte. Una volta stipulato l’accordo, solo l’agente è autorizzato allo sdoganamento delle merci. All’agente sono riconosciuti molti diritti di esclusiva territoriale e temporale, ed occorrono patti parasociali perché il mandante possa tutelarsi adeguatamente.

Anche gli accordi con una società per l’importazione e la distribuzione, devono essere sugellati con estrema attenzione. Nei Paesi, ove a dispetto della legge applicabile sottoscritta dalle parti, prevalgano di regola la Sharia e il foro locale, possono emergere criticità riguardanti la messa in atto delle obbligazioni delle due parti, la cui interpretazione, da parte del giudice, spesso, tende ad avvantaggiare enormemente il soggetto arabo. Non ultima, l’eventuale risoluzione, che se non consensuale, può restare una potente arma di ritorsione nelle mani della controparte locale. Per inciso, il mancato riconoscimento delle sentenze fra l’Italia e vari Paesi della regione, consiglia di richiamare nel contratto eventuali convenzioni internazionali condivise, e di ricorrere all’arbitrato internazionale.

Vi possono essere grandi difficoltà ad ottenere informazioni su privati e aziende (non esistono corrispettivi di visure camerali), e la raccolta di dati, anche quando vengano incaricati affidabili professionisti in loco, o grandi società specializzate, è tendenzialmente superficiale e poco attendibile. Proprio il rigido e apparentemente insondabile ecosistema business, insieme al paradigma “idealistico” di facilitazione degli scambi, fin dal 1995 stimolò la cosiddetta Conferenza di Barcellona che, attraverso incontri annuali, delineava 3 obiettivi principali, di armonizzazione politica, culturale, ed economica (compresi i suddetti aspetti chiaroscuri giuridico-commerciali).

Dopo i primi promettenti incontri bilaterali, per l’istituzione di un’area di libero scambio Euro-mediterranea, il cui varo era teoricamente previsto per il 2010, per molte ragioni, l’iniziativa non è mai decollata (Algeria, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia e Turchia erano i Paesi interessati), ad oggi, Tunisia, Marocco, Autorità Palestinese, Egitto, Algeria, Israele, Giordania hanno ultimato le procedure necessarie, ma evidentemente l’annoso conflitto israelo-palestinese rimane il principale freno alla piena attuazione di un accordo, che sarebbe per molti versi prodigioso per le nostre imprese.

Si è fatto cenno alle discrepanze fra la finanza islamica e quella occidentale. Alcune connotazioni salienti, che possono impattare sui nostri rapporti commerciali, riguardano il divieto per le banche di richiedere interessi sulle somme di denaro prestate, (ritenuti in qualsiasi entità speculazione e usura) allo stesso modo non gli è consentito esporre al rischio i clienti. Quindi tecnicamente sono vietate anche l’uso della leva finanziaria e della carta di credito. Pertanto, quando i nostri clienti locali manifestino una certa ritrosia alle nostre proposte o richieste che coinvolgano gli istituti di credito, può esserci, dietro le quinte, una di queste ragioni.

I fondi di investimento islamici, ad esempio, fissano un limite ed escludono le società che abbiano un rapporto superiore del 30% fra debiti e capitale sociale. Il punto d’incontro tra divieto di interessi e necessità di profitto, è il profit-loss sharing, il principio che prevede la condivisione del rischio d’impresa. In una banca islamica, i correntisti non ricevono interessi ma regali in natura, donazioni o condizioni privilegiate di accesso al credito. Al termine di un investimento, il profitto viene ripartito tra cliente e istituto secondo le condizioni pattuite, mentre se ci sono perdite a pagare è la banca. È possibile investire in bond, con un vincolo: le risorse raccolte devono essere investite nell’economia reale.

Può anche capitare che il cliente non riesca, anche volendo, ad aprire una lettera di credito, poiché vige il principio secondo il quale il buon musulmano non può mentire né assommare debiti, per cui la lettera di credito contrastando con questo principio fideistico, può succedere che venga catalogata come uno strumento fuorviante, non erogabile dalla banca.

 

Oltre il petrolio…

E’ molto chiara, a quasi tutti i governanti della regione, la necessità di svincolarsi dalla dipendenza dal petrolio, il cui picco della domanda è previsto intorno al 2030 (in seguito altre fonti più “pulite” dovrebbero gradualmente emergere), e i Paesi produttori dovranno riconfigurare i propri sistemi economici, con risorse diverse oggettivamente scarse, e saranno chiamati a percorrere una strada tecnologica e sostenibile, attirando investitori internazionali con strategie assertive e attraenti. Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, per quanto riguarda i Paesi del Golfo, parrebbero in questo momento le nazioni più lungimiranti in questa direzione.

Il 50% delle esportazioni totali, non petrolifere, di questi Paesi verso la UE, è rappresentato da prodotti tessili, seguono meccanica strumentale e metallurgia (è presente da parecchi anni un contoterzismo spinto, in particolare in Nord Africa). In questo senso è la Turchia a fare la parte del leone, ma anche Tunisia, Marocco ed Egitto cominciano ad assommare numeri non trascurabili.

L’Arabia Saudita è il più vasto mercato fra i Paesi del Golfo, e il suo PIL rappresenta il 55% del reddito regionale totale del Consiglio di Cooperazione del Golfo, e più del 25% del PIL di tutto il MENA (il 50% del quale di pertinenza governativa). Il Paese possiede un quinto delle riserve mondiali accertate di petrolio. Paradossalmente, come già accennato, il governo del Paese ha una visione decisamente lungimirante, ed è fra le nazioni che stanno maggiormente investendo nelle energie rinnovabili in tutto il pianeta. E’ dell’inizio di quest’anno l’annuncio della costruzione di “The Line”, la città a emissioni zero, progetto avveniristico e pilota, per 1 milione di abitanti. La stessa Arabia Saudita, insieme al Bahrein, si è unilateralmente impegnata per raggiungere un livello di emissioni zero in tutto il Paese, entro il 2060.

Sulla scorta della forza economica accumulata, Il governo saudita ha avviato un programma pluriennale di investimenti molto ambizioso (per una spesa pubblica stimata in 95 miliardi di Euro), l’ArabVision2030, che prevede significative migliorie in tutti i settori chiave della società (fra gli altri, 92 ospedali e 3200 scuole), la creazione di 1,3 milioni di posti di lavoro, e la costruzione ex-novo di 6 nuove grandi città, per le quali ha richiesto e ottenuto la presenza di imprese del Made in Italy. Anche al di fuori dei contesti macroeconomici, la propensione al consumo dei sauditi, di prodotti occidentali e italiani in particolare, è mediamente piuttosto elevata.

Fra le imponenti infrastrutture già finanziate e avviate, vi è anche la «ferrovia del Golfo», un’opera colossale, lunga oltre 2000km, che potrà segnare una nuova era logistica e di sviluppo economico, per la quale sono stati stanziati oltre 100 miliardi di $ USA. Collegherà la penisola arabica, da nord a sud e da est a ovest, la costa di Gedda, sul Mar Rosso, agli EAU. Le difficoltà tecniche per eseguire il progetto sono enormi, una duna alta 100 m. può spostarsi anche di 500 metri in un anno, e le temperature estive sono insostenibili… Un altro treno superveloce (380km/h) già collega Gedda a Mecca e Medina, e presto raggiungerà le altre principali città dell’Arabia Saudita. A Riyahd (che nel 2030 avrà oltre 8 milioni di abitanti), si sta costruendo la rete metropolitana più vasta del mondo. Sono molte le imprese italiane coinvolte nei suddetti progetti, per quanto il grosso della torta se lo sia accaparrato la Cina.

Il Qatar è il Paese con il maggior PIL pro capite al mondo, con 1,7 milioni di abitanti, per lo più immigrati, sotto il controllo di un giovane Emiro, che ne è il signore assoluto (non c’è alcun parlamento né evidentemente alcun suffragio), ma in qualche modo, controllando l’emittente internazionale Al Jazeera, è riuscito ad essere percepito come il paladino della democrazia dei Paesi mediorientali, soprattutto in funzione degli interessi commerciali occidentali. Il piccolo emirato è un investitore prodigioso, e di conseguenza un catalizzatore formidabile di iniziative internazionali (come i prossimi mondiali di calcio).

Nel settembre 2009 venne firmato un importante ed articolato trattato fra Italia e Libia, che prevedeva molti progetti di carattere industriale in comune, e la costruzione di imponenti infrastrutture per la gran Giamahiria, con conseguenti magnifiche opportunità per le imprese italiane. Dopo i noti eventi politici, l’attualità di detto trattato sarà da confermare nei fatti, quando si recupereranno pienamente le condizioni per il business.

 

Arabi ma non solo…

L’Iraq, pur ferito, è ora un Paese relativamente ricco, con risorse petrolifere ingenti e una giovane repubblica parlamentare, che sta sperimentando forme pressoché inedite di democrazia e stato di diritto, pur sempre con l’incombente spada di Damocle dei contrasti con l’Iran. Fra i due Paesi, i rapporti non si sono mai realmente sanati, dopo la guerra del 1980, successiva alla rivoluzione khomeinista del 1979, e la sottovalutazione da parte di Saddam Hussein della capacità di difesa del nuovo regime confinante, che accese le sue mire espansionistiche.

Per entrambi i Paesi, esiste il problema dei beni «dual use» (come per alcuni altri della regione), e per l’Iran anche severe restrizioni, che impongono determinate procedure per le transazioni commerciali, cionondimeno non vanno sottovalutate le grandi potenzialità di questo mercato.

Molto correlati all’Iraq, culturalmente ed economicamente, sono Siria e Libano (oltre al piccolo Kuwait e in qualche misura la Giordania) non a caso, esistono progetti di nazionalismo pan-siriano, mai del tutto sopiti, che nei confini “naturali” della “Grande Siria”, comprendono i Paesi summenzionati. Evidentemente la Siria, dopo 10 anni di guerra, vive una fase di restaurazione e ricostruzione non sempre pacifica, il suo spazio aereo rimane interdetto, e i commerci, benché possibili, sono decisamente laboriosi.

Il Libano, storico crocevia di 3 continenti, attraversa una crisi economica senza precedenti. Rattrista vedere il Paese dei cedri, multietnico, multireligioso, un tempo noto come la “Svizzera d’oriente”, per il suo liberalismo economico e culturale, la qualità della vita, e la sua vitalità finanziaria (eccellente sistema bancario), patria di commercianti fra i migliori al mondo, fin dal tempo dei fenici, dover fare fronte a tempi tanto cupi, e si spera che ne possa uscire quanto prima.

Mena-Export

 

La Turchia, come ricordato, non da tutti considerata parte del MENA, certamente è ad ogni effetto un territorio di collegamento fra l’Europa e il Medioriente, di importanza strategica cruciale. Negli scorsi anni si era ventilato anche l’ingresso del Paese nell’Unione Europea, ostacolato da vari fattori, fra i quali la difesa dei diritti umani e della libertà d’espressione, ritenuti inadeguati agli standard comunitari. La Turchia è certamente una rilevante potenza economica, (non a caso ha preso parte al recente G20), con un tessuto industriale competitivo (e direttamente concorrenziale con quello italiano in vari settori), oltre 80 milioni di consumatori, e un ruolo cruciale nello scacchiere regionale; è ad esempio il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo, (oltre 4 milioni, buona parte dei quali siriani).

La deriva degli ultimi anni del governo Erdogan, e le frizioni con molte potenze internazionali, con riverberi non trascurabili sulle attività economiche, hanno via via reso meno favorevole il clima business. Recentemente però, sul piano regionale, la Turchia ha intensificato le aperture di dialogo con i suoi principali competitor mediorientali, nel tentativo di superare annose tensioni e ricucire gli strappi che, negli anni, l’hanno costretta in una situazione di sostanziale isolamento. Continua dunque lo slancio diplomatico che, indirettamente inaugurato dalla presidenza Biden, sembra aprire qualche spiraglio di distensione nel Mediterraneo allargato. Ciò detto, in termini assoluti, è da considerare un mercato di grande attrattiva, e un ecosistema industriale dove imbastire partnership produttive molto vantaggiose per le imprese italiane.

L’Oman considerato dal FMI uno dei Paesi più promettenti, per i tassi di crescita del prossimo quinquennio, può diventare una nuova frontiera per le PMI italiane. Il governo omanita inoltre, ha lanciato un piano nazionale di sviluppo, “OmanVision2040”, simile all’ArabVision2030 saudita, e non a caso, fra i due Paesi vi sono intense relazioni (così come con gli EAU). Detto piano prevede la realizzazione di progetti infrastrutturali, distretti industriali, opere civili varie, e nuove centrali di desalinizzazione.

In Yemen, Paese strabiliante per attrattive architettoniche, è in corso un conflitto a bassa intensità dal 2015, con la confinante Arabia Saudita. L’antefatto è costituito dalla guerra civile, in corso fin dall’inizio del secolo, fra le forze degli Huthi, (sciiti vicini al governo iraniano), che controllano la capitale Sana’a, e sono alleate con le falangi fedeli all’ex capo di stato Ali Abdullah Saleh, scontratesi con le milizie leali al governo del deposto presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi. Sullo sfondo, non sono mancati anche moti indipendentisti, da parte di gruppi organizzati dello Yemen meridionale. In un quadro di questo tipo, ovviamente, le possibilità di business sono attualmente assai limitate.

 

Grandi e piccoli attori…

Gli EAU, sono spesso la prima frontiera dei tentativi di contatto business, fra le imprese italiane e la regione del Golfo, la conseguenza più apprezzabile di questa consuetudine, è che da vari anni gli EAU siano il nostro principale mercato dell’area MENA, di cui siamo il decimo fornitore e, con oltre 41 miliardi, questa destinazione vale il 10% del nostro export complessivo. Gli EAU, sono anche, se non soprattutto, un mercato di smistamento per gli altri Paesi dell’area, e per molti mercati orientali più lontani.

In realtà gli Emirati sono 7, e hanno caratteristiche abbastanza discordi fra loro, per gli italiani il più noto è certamente l’Emirato di Dubai (con il quale molti tendono ad identificare l’intero Paese), che avendo terminato le riserve di petrolio fin dagli anni ’70, ha saputo reinventarsi con soluzioni estremamente intelligenti e funzionali, di terziario avanzato. Dubai è sede di importanti fiere, con un’ottima organizzazione logistica, un ambiente sociale internazionale ospitale e permissivo, eccellenti servizi professionali e finanziari.

Il Bahrein, letteralmente “la terra fra i due mari”, geologicamente si qualifica come un’isola al largo delle coste saudite, la cui popolazione di 1,7 milioni si concentra fondamentalmente nella città capitale di Manama. Il Paese, conosce da molti anni uno sviluppo impressionante, ed è attualmente al 13° posto mondiale per PIL procapite, soprattutto grazie al rapporto con l’importante vicino Saudita, al quale fornisce servizi e facilitazioni. E’ pratica comune, ad esempio, per gli occidentali fissarvi incontri con aziende saudite, essendo molto più semplice ottenere il visto e vigendo regole decisamente meno restrittive nella quotidianità (io stesso, vi sono stato almeno una ventina di volte, prevalentemente per questa ragione).

Senza mancare di rispetto alla sua sovranità nazionale, il Bahrain, viene percepito un po’ come un “protettorato” Saudita e, per certi versi, sta all’Arabia Saudita, come Montecarlo sta alla Francia. E’ anche fisicamente collegato all’Arabia, da quasi 40 anni, mediante un ponte lungo 25km, che il giovedì sera, alla vigilia del fine settimana arabo, si riempie di una colonna infinita di auto, alla ricerca di svago e maggiore tolleranza, certamente possibili a Manama.

 

Uno sguardo sul Nord Africa…

L’Egitto, con 102 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’intero bacino del Mediterraneo, basterebbe già questo dato a renderlo un mercato altamente appetibile. Nella sola città de Il Cairo, si contano oltre 15 milioni di persone, più dell’intera popolazione di molti Paesi europei. A oltre un anno dallo scoppio della pandemia di Covid-19, l’Egitto appare impegnato ad arginare le gravi conseguenze dell’emergenza, che hanno non solo travolto un’economia già in affanno, ma anche concorso ad acutizzare le preesistenti disfunzioni strutturali a livello sociale e politico (ove si continua ad osservare un piglio piuttosto autoritario).

La pandemia, infatti, ha rappresentato un test fondamentale per l’economia egiziana che si apprestava, nel marzo 2020, a consolidare un programma di riforme avviato, grazie al prestito concordato nel 2016, con il Fondo monetario internazionale (Fmi), che aveva permesso al Paese di puntare su una auspicata ripresa economica, non accompagnata però, per il momento, da coerenti riforme né investimenti per le politiche sociali e del lavoro, avendo il governo preferito destinare la maggioranza della spesa pubblica verso mega progetti infrastrutturali. Evidentemente, a seguito della vicenda di Giulio Regeni, da alcuni anni, i rapporti fra il nostro Paese e l’Egitto sono piuttosto tesi, e non è facile per le imprese italiane partecipare a detti progetti.

La Tunisia si colloca al 6° posto, come macroeconomia, nel mondo arabo, e al 40° posto a livello mondiale su 133 Paesi. Le istituzioni governative restano il punto di forza del Paese, con un alto livello di sicurezza, ottime infrastrutture e sistema educativo di buon livello. L’Italia è uno dei maggiori investitori, e su 3000 imprese partecipate o estere, 7/800 sono italiane (altre francesi o inglesi). Il Paese è in grande cambiamento, ed è presto per dire come sarà il futuro, ma ci sono segnali per coltivare un certo ottimismo.

Della Libia si è già accennato più sopra. Algeria e Marocco, invece, due ex-colonie francesi, hanno un rapporto storico e consolidato con i Paesi europei, compresa l’Italia. L’Algeria è geograficamente il più ampio Paese africano, e conta ben 50 milioni di abitanti. Purtroppo le elezioni del 2020 sono state afflitte da un astensionismo superiore al 70%, e dall’ennesimo stallo nei risultati. Il sistema politico-militare “Pouvoir”, infatti, che più che una casta rappresenta una struttura “genetica” del potere algerino, è considerato fortemente corrotto e interessato soltanto al mantenimento del proprio status quo, malgrado il tracollo economico che il paese oggi si trova ad affrontare, aggravato ulteriormente, a partire dal 2020, dal contesto pandemico, non si intravedono azioni che preludano ad un miglioramento delle condizioni.

Il Marocco beneficia del governo illuminato di re Mohammed VI, ed è, con ragione, considerato uno dei Paesi più accoglienti e aperti del mondo musulmano. I rapporti sono ottimi sia con i Paesi europei che con gli altri membri della Lega Araba, tanto che il partenariato nel Paese, viene utilizzato da alcune imprese europee, come antenna per la diffusione nel resto del Nord Africa, nei Paesi dell’Africa subsahariana e talora persino nei Paesi del Golfo. Rimangono certamente disuguaglianze all’interno del territorio nazionale, per arginare le quali, le autorità si sono spese per varare progressive riforme, ma il Paese conosce da anni una fase di grande espansione e, negli ultimi anni, è migliorato costantemente nelle classifiche internazionali di “Doing Business”.

 

I legami fra Italia e MENA

I rapporti fra Italia e Paesi del sud del Mediterraneo sono storicamente molto intensi, già nei primi decenni del secolo scorso, città come Tunisi ed Alessandria avevano comunità italiane vitali ed attivissime (Ungaretti e Marinetti, fra gli altri, nacquero ad Alessandria), le imprese italiane esportatrici nel bacino del Mediterraneo sono circa 60.000, in aumento costante, negli ultimi anni.

Si è già fatto cenno, nei paragrafi precedenti, delle opportunità istituzionali in Libia e Arabia Saudita, tuttavia gli IDE italiani verso l’Area mediterranea rimangono ancora molto limitati, sebbene continui ad aumentare il peso del fatturato prodotto dalle nostre aziende in questi Paesi (Simest ha approvato un migliaio di progetti, distribuiti in tutta l’area del MENA, fra progetti di investimento ed incentivi alle imprese, frazionati in vari settori).

Per un vero salto di qualità, l’Italia dovrebbe passare da una cultura dell’esportazione ad una cultura degli investimenti, ma già oggi, i Paesi MENA rappresentano il terzo acquirente di merci italiane dopo Germania e Francia. L’interscambio commerciale, ha più che triplicato i valori fra il 2000 ed il 2020, dai 40 miliardi di partenza ai quasi 140 (non lontano da 1/4 dell’intero export italiano di beni e servizi).

Per l’esportatore italiano, questi Paesi possono rappresentare sia mercati di sbocco che piattaforme per raggiungere più mercati limitrofi. i grandi gruppi industriali italiani sono già presenti in quasi tutti i Paesi dell’area, le PMI invece in modo ancora limitato, ovviamente perché una strutturazione sul posto, concretamente non è un’operazione così semplice.

Le ragioni sono da ricercarsi nelle più volte menzionate incomprensioni culturali, ma anche nelle complessità organizzative, in un clima di business non ovunque favorevole, nella presenza di barriere tariffarie e non, e di procedure doganali e tassazioni bizantine e altalenanti, oltre a norme tecniche, sanitarie ed ambientali poco comprensibili e mutevoli. Tutti questi fattori assommati, rappresentano un freno oggettivo che non trova, per altro, ammortizzatori salvifici nella latitanza sostanziale del nostro sistema Paese.

Una delle strategie “surrogate” di insediamento strutturale, più diffuse e compatibili con le leggi locali, può prevedere la stipula di accordi con un partner produttivo in loco, basati sul trasferimento di know-how, definendo un prezzo di trasferimento che tenga conto dell’intero contesto del progetto. A ciò, talvolta si può magari legare l’utilizzo dei canali di vendita del partner stesso, per commercializzare altri prodotti, non oggetto della collaborazione contrattuale industriale.

Occorre muoversi con cautela, perché non sono rari, purtroppo, i tentativi di truffa. Dalla richiesta di forti anticipi motivati come performance bond per appalti, o regalie atte ad «ungere gli ingranaggi», al continuo rimarcare presunti poteri e connessioni del socio locale, in grado di «aprire tutte le porte», per indurre a formalizzare accordi contrattuali o incalzare il partner italiano a firmare documenti in lingua araba, senza dargli tempo di tradurre e riflettere. Stante quanto sopra, si comprende perché si possano trovare, nei contratti di società italiane esperte, clausole che riguardino il divieto di elargizione di omaggi o incentivi di qualsiasi natura, e a qualsiasi titolo, a rappresentanti delle autorità del Paese.

 

Il rapporto con Israele

Storicamente gli ebrei furono un importante tramite fra mondo islamico e cristiano latino, è ben documentata, ad esempio, l’azione intermediatrice svolta dagli ebrei spagnoli che, sfruttando la benevolenza dei governi islamici, si avvalsero della loro possibilità di aggirare la norma coranica che vietava il cosiddetto “commercio di denaro” ai musulmani e, in definitiva, di lucrare sulle plusvalenze.

L’apporto ebraico, non fu tuttavia solo di tipo economico-finanziario, bensì, in misura tutt’altro che trascurabile, anche scientifico e artistico e soprattutto letterario. A causa dei divieti islamici che impedivano agli ebrei determinate professioni (soldato, giudice e proprietario terriero), gli israeliti furono indirettamente costretti a occuparsi, oltre che di commercio, anche di tutte le cosiddette professioni “liberali” (nel senso di libere), tra cui quelle di medico, farmacista, studioso e traduttore, trovando benevola e conveniente accoglienza nella società islamica, giungendo a occupare, non di rado, importanti funzioni burocratico-amministrative (anche ai massimi livelli) nella macchina governativa islamica.

Questa convivenza mutualmente conveniente e relativamente indulgente, si è protratta per molti secoli. Paradossalmente, l’antisemitismo vero e proprio, specialmente a partire dal sedicesimo secolo, è stato molto più presente presso gli europei, dove gli ebrei erano confinati in veri e propri ghetti e sovente pesantemente discriminati. Nel MENA la situazione è precipitata dopo il 1948, con la costituzione dello stato di Israele; a seguito di detto riassetto, non è stato più possibile pressoché alcun genere di intesa stabile né convivenza pacifica.

Dalla fine del 2020, si è aperto un nuovo spiraglio incoraggiante, poiché tramite “gli accordi di Abramo” gli EAU, il Bahrain, Sudan, Marocco e Oman, hanno annunciato di accettare una progressiva “normalizzazione” dei rapporti con Israele. E’ tuttavia verosimile, che il processo di pace e il riconoscimento di Israele da parte di tutti (o quasi) i Paesi arabi, possa compiersi pienamente solo quando si sarà in qualche modo definitivamente risolta la questione israelo-palestinese, verosimilmente attraverso la formalizzazione, universalmente riconosciuta, anche dell’esistenza di uno stato sovrano Palestinese.

Anche nell’operatività business, la suddetta situazione riverbera, con incompatibilità conclamate che, in qualche modo, vanno ammortizzate. Ovvero quando già si intrattengano rapporti con aziende israeliane è frequente che si instauri un rifiuto categorico a negoziare da parte di molte aziende arabe e viceversa. La soluzione per le aziende italiane spesso deposita nel creare brand ad hoc, offerti solo all’una o all’altra parte. Va prestata qualche attenzione anche agli eventuali visti apposti sul passaporto, che possono pregiudicare l’ingresso nel territorio della fazione avversa (per questo ed altri veti incrociati internazionali, io ho avuto fino a 3 diversi passaporti, in passato, che ritiravo, di volta in volta, al bisogno, dal deposito obbligato in Questura).

Nel terzo e ultimo articolo, affronteremo alcuni accorgimenti culturali e comportamentali, alcuni noti e altri forse meno, per rapportarsi da un punto di vista umano e relazionale, con i partner del MENA.

Saverio Pittureri
Easy Trade

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