L’ecosistema economico italiano
È arcinoto che il tessuto economico del nostro Paese, sia composto, in larghissima parte, da piccole o addirittura da microimprese. Queste ultime, che secondo la classificazione europea, recepita dall’Istat, contano meno di 10 addetti, e un fatturato fino a 2 milioni di Euro, rappresentano però oltre il 95 per cento di tutte le attività censite sul territorio (escludendo il settore primario). Le piccole imprese poi, tecnicamente definite fra i 10 e i 49 dipendenti, risultano poco meno di 200.000, da cui ne deriva, che le restanti medie e grandi imprese, a partire dai 50 dipendenti, a completare l’intero ecosistema italiano, rappresentino solo lo 0,7% del totale, ovvero circa 28.000 in numeri assoluti.
Per quanto se ne possa avere una generica percezione, le oggettive statistiche sopra riportate, risultano abbastanza spiazzanti, cionondimeno, grazie a qualche dato aggiuntivo, si può facilmente evincere una ancora più approfondita e compiuta valutazione dello sbilancio esistente fra le categorie menzionate. Le medie e grandi imprese, infatti, pur essendo così esigue in termini percentuali, realizzano da sole più della metà dell’intero PIL nazionale, e occupano oltre un terzo dei lavoratori totali.
Sono numeri sintomatici di un quadro pulviscolare ampiamente consolidato, che inesorabilmente penalizza le aziende italiane sui mercati esteri, dove i competitor continentali hanno tipicamente un potere contrattuale e una risonanza superiori, principalmente per “stazza” e forza d’urto, oltre che, in una certa misura, per una più efficace capacità di supporto da parte degli organismi facilitatori deputati (camere di commercio dislocate nel Paese, istituti dedicati, società finanziarie, ecc..).
Non a caso, se andiamo a vedere i dati del nostro export globale, si desume immediatamente come il nostro Paese, su molti mercati, sconti inesorabilmente una capacità di impatto significativamente ridotta, rispetto ai principali concorrenti europei, e nonostante le note creatività e intraprendenza che ci contraddistinguono, non è facile compensare il deficit organizzativo e dimensionale. Le istituzioni preposte allo sviluppo dell’internazionalizzazione, di tanto in tano, hanno cercato di dare una qualche forma di risposta strutturale al problema, incoraggiando l’aggregazione fra imprese, attraverso finanziamenti dedicati e facilitazioni normative, ma per il momento, i risultati non sono particolarmente incoraggianti.
Come “fare sistema”
Si pone allora la questione di come si possa fare sistema.
Spesso, le cordate possono essere “di distretto” o “di filiera” (con o senza un’impresa driver). Queste ultime, tendono ad essere mediamente più ben accette di quelle di distretto, in quanto percepite come meno rischiose per potenziali rischi di competizione e violazione della proprietà intellettuale.
Tecnicamente, in realtà, si può “fare sistema” in molti modi. Attraverso relazioni su base contrattuale (non equity) e senza interventi sui capitali e sull’autonomia delle imprese (consorzi, gruppi di acquisto, reti, ati, gruppi di interesse, franchising, ecc..), ma anche ovviamente mediante varie forme diverse, con gradi crescenti di condivisione finanziaria e gestionale. Tutti questi sistemi, molto diversi fra loro, per caratteristiche e obiettivi, hanno alcuni tratti comuni, uno dei principali è la necessità di integrarsi lealmente e il rispetto delle regole stabilite.
Negli ultimi 10 anni, come accennato, sono stati proposti numerosi finanziamenti dedicati e vantaggi di vario genere, per invitare le imprese italiane ad aggregarsi, e presentarsi sui mercati esteri in una forma più solida e appetibile, ma in pochi casi si sono concretamente generate delle realtà convincenti e sufficientemente durature. Il beneficio proposto, è quasi sempre sufficientemente chiaro, ma si scontra sovente con l’estremo individualismo e il sospetto che caratterizza le aziende italiane.
Per altro, non di rado, i menzionati distretti, si costituiscono per “gemmazione”, e tale genesi non è sempre indolore, al contrario, generalmente si trascina scorie di incomprensioni e risentimenti, poco compatibili con una proposta di aggregazione.
I vantaggi del presentarsi insieme, per punti essenziali
– Abbattimento dei rischi
– Sinergie e alleanze di filiera
– Spartizione dei compiti
– Condivisione di esperienze e informazioni
– Suddivisione degli investimenti
– Maggiore accesso a fonti di finanziamento tradizionale e agevolato
– Massa critica e gamma più ampia e completa di prodotti e servizi
– Possibilità di proporre soluzioni “chiavi in mano”
– Più efficace competitività verso concorrenti internazionali
– Migliore visibilità, marketing più evoluto
– Maggiore potere contrattuale verso soggetti terzi (clienti, fornitori, professionisti, banche, ecc..)
– Eventuale marchio collettivo
– Servizi comuni e ottimizzazioni varie (acquisti, missioni, trasporti, consulenze, dogane, assicurazioni, ricerche di mercato, certificazioni, autorizzazioni, R&S, formazione personale, insediamenti esteri, materiale promozionale, recupero crediti, ecc..)
Conclusioni
Si sono, sinteticamente, messi in evidenza i benefici che comporta l’aggregazione fra piccole e medie imprese, che rappresentano la trama connettiva e, in qualche modo, la spina dorsale del modello produttivo nazionale, virtuoso e quasi prodigioso da un lato, ma inesorabilmente sfavorito dall’altro.
La realizzazione di tale proposito, nella pratica, risulta meno semplice di quanto potrebbe apparire teoricamente. Due volte, in passato, ho accettato il ruolo di manager di rete e, in entrambi i casi, le riunioni erano più estenuanti di quelle condominiali, per le continue baruffe e discussioni, ben poco razionali, e persino per qualche scorrettezza. Di fatto, spesso, più che rivestire un ruolo di stratega, ero costretto a investire energie in quello di arbitro e paciere…
Ciò detto, quando si riesca a superare o quantomeno gestire, tale impegnativo ostacolo, la propulsione derivata dalle svariate possibili sinergie, è in grado di generare un vero e proprio moltiplicatore delle potenzialità per ciascuna impresa costituente, e alcuni meccanismi dell’aggregazione, oltre che sui mercati esteri possono trasferirsi e risultare vincente anche in ambito domestico.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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