Il 2024 continua a proporre uno scenario enormemente complesso per il commercio internazionale e non è tanto facile avventurarsi in previsioni realistiche, di ampio respiro. In termini macroeconomici, si sta consolidando un contesto geopolitico di frammentazione piuttosto marcata con una catena di tensioni che, evidentemente, oltre a dilatare le distanze e rendere impervie le sfide globali di interesse superiore (quella climatica su tutte), ovviamente intrica e complica anche le relazioni commerciali fra le imprese delle aree contrapposte.
Benché vi siano grandi attori dichiaratisi formalmente neutrali, come la Cina, con il chiaro intento di preservare i rapporti commerciali con tutti gli interlocutori possibili, nei fatti, la contrapposizione fra mondo occidentale, inteso principalmente come Europa e Nord America, e una specie di “cartello antagonista” trasversale, molto diversificato e disomogeneo, ma con l’unità di intenti di ridurre l’egemonia politica ed economica statunitense, è innegabile, e oramai piuttosto impattante anche sull’attività quotidiana dei singoli operatori economici.
In primo luogo, come noto, non accennano a risolversi, quando non rischiano di inasprirsi i conflitti bellici in essere, sia quello “cronicizzato” fra Russa e Ucraina, che continua a riverberare sulle forniture energetiche europee ma ancor più sugli equilibri planetari, e quello mediorientale, esploso dopo l’attentato del 7 ottobre che, al momento coinvolge direttamente Israele, l’organizzazione politica militarizzata Hamas, e quella paramilitare Libanese Hezbollah, ma sottende minacce non trascurabili di escalation amplificata, sulle quali si sta adoperando febbrilmente la diplomazia internazionale.
Nello specifico, in queste righe, vorrei porre l’accento proprio su uno degli effetti collaterali di maggior impatto immediato sulle attività economiche, derivante indirettamente dallo scontro israelo-palestinese, quello correlato alle azioni piratesche in atto nel mar Rosso volto a mettere pressione sulla comunità internazionale per intervenire a favore di Gaza.
Premettendo che il puzzle costituente il mondo arabo è estremamente complesso e articolato, e se esistono certamente valori comuni e affinità culturali fra Paesi e raggruppamenti, non mancano anche grandi dissonanze, che evidentemente non consentono di produrre un fronte coeso su molti temi e teatri di crisi, compresa l’annosa questione palestinese.
In tutto questo, non va dimenticato che l’insieme del mondo islamico non coincide col mondo arabo, e la storia recente ci insegna come il dissenso, non di rado infuocato, fra sunniti e sciiti, e all’interno di questi, fra le numerose declinazioni religiose sottostanti, sia un fattore sempre presente e determinante. A tal proposito, uno dei registi occulti (ma non troppo) del quadro corrente in mar Rosso è chiaramente l’Iran, che evidentemente ha un’anima musulmana, a stragrande maggioranza sciita (come gli assalitori delle navi), ma non è un paese arabo. A seguito delle attuali vicende di cronaca, non a caso, anche l’abbozzato e difficile processo di normalizzazione dei rapporti fra Arabia Saudita, solido alleato statunitense, e lo stesso Iran ha subito un brusco stop.
Sono premesse molto semplificate ma tutt’altro che accademiche, e propedeutiche al tentativo di comprendere i possibili sviluppi, le alleanze, le affinità ideologiche, le dissonanze e gli incombenti rischi. Per esempio, a grandi linee, i nemici dichiarati dei bucanieri yemeniti sono sì Israele e USA, ma accanto a loro, anche l’Arabia Saudita sunnita, riferimento e custode dello scrigno della fede islamica, e non solo per la collaborazione con gli USA.
Allo stesso modo, pur nella consapevolezza generale del danno procurato agli scambi commerciali, anche i Paesi occidentali propongono risposte politiche tutt’altro che omogenee in merito alla deterrenza da applicare, per non parlare degli alleati arabi che hanno scelto di disertare le attività di pattugliamento navale (salvo il Bahrain) per non far passare il messaggio di fiancheggiare, in qualche modo, Israele ma, allo stesso tempo, subiscono un danno importante e sgradito, sui propri interessi commerciali. In definitiva, se da un lato il rischio di allargamento del conflitto pare concreto, dall’altro, taluni governi ne auspicherebbero la conclusione, mentre altri Paesi e movimenti si stanno muovendo sottotraccia proprio per il timore di portarsi la guerra in casa; in tutto questo non è facilmente prevedibile quale posizione assumeranno gli uni e gli altri nelle settimane a venire.
In concreto, la strategia di boicottaggio commerciale nel mar Rosso, è stata messa in campo dal gruppo, prevalentemente di origine yemenita Huthi Ansar Allah, come accennato di estrazione sciita zaydita. La comunità Huthi, da cui gemmano le suddette schiere militarizzate, è una fazione sciita tendenzialmente piuttosto fumantina e insofferente verso coloro che percepisce come oppressori, occidentali, ma non solo, nella regione. Da almeno un decennio gli Huthi hanno conquistato la capitale San’a’ e rappresentano una minoranza ma non sparuta della popolazione yemenita (per il resto principalmente sunnita), ovvero circa il 25%.
Inizialmente l’obiettivo dichiarato delle milizie armate era quello di fermare le navi israeliane, ma dato il successo dell’iniziativa, ben presto i bersagli degli arrembaggi si sono allargati a pressoché qualsiasi natante da trasporto, che si avvii verso il canale di Suez in direzione nord, ovvero viceversa verso lo stretto di Bab-el-Mandeb, noto anche come “la porta delle lacrime”, l’altro collo di bottiglia fondamentale per collegare, in tempi ragionevoli, Europa e Asia via mare.
Le maggiori compagnie mondiali hanno già sospeso a tempo indeterminato il transito su quella rotta, e l’intera logistica connessa si sta riprogrammando nell’ordine di mesi o addirittura trimestri, dovendo circumnavigare l’Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza, con oltre 6.000 km di aggravio e slittamenti medi stimati fra le 2 e le 3 settimane, o scegliere rotte ancora più lunghe attraverso l’oceano Pacifico, ed evidentemente ancora più incidenti in termini di costi (di ogni genere, compresi quelli assicurativi, lievitati esponenzialmente). Come ulteriore fattore critico, si deve aggiungere che, in questo momento, anche il canale di Panama è sostanzialmente “fuori uso”, per motivi completamente diversi, il che genera una sorta di paralisi commerciale globale.
Le potenze mondiali hanno dapprima cercato di controbattere schierando navi da guerra nell’area interessata, a protezione dei mercantili, ma è un po’ come cercare un ago in un pagliaio e non diventa ugualmente possibile scortare ogni singolo trasporto. Così, americani e inglesi, all’inizio di questo 2024, hanno lanciato un ultimatum all’audace leader Abdul-Malik Al-Houthi, intimandogli di cessare le azioni ostili o avrebbero colpito duramente le postazioni yemenite. E così hanno fatto. Ora si tratta di capire con quali conseguenze politiche sul fragile equilibrio della regione, quali eventuali ritorsioni e con quale effetto domino commerciale.
La cartina proposta, qui di seguito, pubblicata da ISPI, rielaborando la fonte originale del Washington Institute for Near East Policy è piuttosto eloquente
Per dare un’idea dell’effetto gravoso, sulle attività economiche globali, del suddetto boicottaggio, basti pensare che oltre il 30% dell’intero commercio mondiale transita o, meglio, transitava dal canale di Suez, oltre 20.000 navi fra portacontainers e petroliere all’anno. È facile intuire anche quale possa essere il riverbero sui prezzi e sulla disponibilità di beni, non ultimi quelli energetici, per tutta la filiera produttiva e commerciale europea e asiatica.
Lo sanno bene anche i pirati yemeniti che, non a caso, avevano annunciato di voler sabotare anche il passaggio da Gibilterra, qualora la comunità internazionale non fosse intervenuta efficacemente a difesa di Gaza. Un proposito che, per evidenti motivi organizzativi e geografici, sarebbe molto più complesso da compiersi, ma non si potrebbe escludere qualche blitz sporadico di disturbo, comunque efficace per i fini dei ribelli, magari con l’instaurarsi di nuove alleanze con altre organizzazioni del “sud del mondo”.
Dal nostro modesto osservatorio nazionale non possiamo fare molto, se non cercare, per quanto possibile, di adattarci a questa fase così problematica e diversificare al massimo sia le fonti di approvvigionamento che le mercati di vendita, principio comunque sano anche nelle fasi storiche prospere e pacifiche, sperando evidentemente che il quadro d’insieme si stabilizzi prima o poi, consentendoci magari di tradurre l’eventuale efficientamento e la flessibilità acquisiti durante questo periodo arduo, in vantaggio competitivo e maggiore marginalità futura.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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