Il CRM è indubbiamente uno dei migliori amici dell’export manager, vediamo perché
Cos’è il CRM
Per i pochi che ancora non lo sapessero, CRM è l’acronimo di Customer Relationship Management e si tratta di una categoria di applicazioni, pensata e costruita per organizzare le informazioni commerciali e le attività da svolgere con i clienti attivi, con quelli dormienti e con quelli potenziali.
Nasce, in forma embrionale, negli anni ’80, come robusto database strutturato per convogliare in un unico ambiente molte informazioni, e solo con il nuovo millennio supera la funzione originaria, comincia a proporre soluzioni più efficaci per supportare una relazione stabile e duratura con il cliente, con l’ovvia finalità di razionalizzare l’interazione e di massimizzare i profitti.
Un CRM può avere portata, ramificazioni e potenza molto diverse. Ad un estremo, è in grado di prevedere un gran numero di operazioni automatizzate online, all’altro può semplicemente fungere come incisivo promemoria per le attività off line. All’interno di tale amplissima forbice si declina, con flessibilità, una quantità infinita di funzioni e opzioni pienamente personalizzabili. Il denominatore comune, a prescindere dalla dimensione adottata, è che si semplifichino enormemente i processi aziendali e si possa allineare e coordinare in un attimo il lavoro di molte persone che condividano appunto l’accesso al programma.
Cosa fa un CRM
Come accennato il CRM, in qualche modo rivoluziona il modo di operare nell’ufficio estero. Io sono solito dire che una volta abituati ad usarlo, ci si dimentichi degli altri programmi, oltre che dei famigerati faldoni cartacei, e non ci si debba più aggrappare magari a file di ogni tipo, ad appunti sparsi o alla memoria. Evidentemente, da un lato la sua utilità concreta dipende dalla qualità e quantità delle informazioni che vi si inseriscono, e dall’altro dall’adeguatezza della struttura e dei compiti previsti, alla realtà aziendale che se ne serve.
Giusto per fare qualche esempio concreto, Amazon utilizza un potentissimo CRM, che si integra alle procedure di acquisto e che, fra le altre cose, ci ricorda cosa abbiamo acquistato di recente, quali prodotti vengano associati, da altri utenti, a quello che si sta osservando, quando sia l’ultima volta che abbiamo valutato una certa offerta, quali siano i prodotti alternativi, con i loro pregi e difetti, quali siano le opinioni espresse dagli acquirenti, da quanti mesi non venga acquistato un prodotto abituale e molto altro.
Lo stesso CRM è in grado di inviarci un ricapitolo delle nostre attività, un promemoria di prodotti di nostro interesse, una promozione agli acquisti, in base ai nostri gusti e alle nostre osservazioni e, di nuovo, molto altro. Immagino che tutti o quasi i lettori si ritrovino in esperienze di questo tipo, anche con altri siti molto noti. Molte di queste funzioni, in una proporzione adeguata alle dimensioni e ai bisogni di una PMI, sono oggi ampiamente attivabili, e anche a costi ragionevoli.
Non è un caso quindi che questa categoria di programmi, stia conoscendo una imperiosa crescita, anche in Italia, tanto che l’offerta è oramai molto ampia e varia e prevede sia l’acquisto che l’abbonamento al servizio. È sufficiente una piccola ricerca web per trovare numerose proposte e demo da esplorare. Consiglierei di investire un certo tempo e una certa attenzione nella scelta, poiché il CRM si candiderà a diventare uno strumento determinante (è possibile comunque importarvi vari tipi di database e migrare da un sistema a un altro, all’occorrenza).
All’ atto pratico
Un CRM, quando si operi su più mercati e magari con diversi addetti dedicati, consente con un semplice clic, di trovare in forma coordinata, moltissimi dati, di ogni genere, sul cliente, sui rapporti esistenti, le comunicazioni (mail e telefonate intercorse), i report di eventuali incontri, le foto scattate, le caratteristiche dei prodotti richieste, le abitudini di acquisto e di pagamento, gli eventuali contenziosi (è opportuno e semplice creare un collegamento con il gestionale), cosa il cliente ritenga importante, chi siano i decisori dell’azienda, i dati finanziari, e qualsiasi altra notizia utile per il rapporto, dal compleanno di un figlio, ad un’allergia alimentare, alla squadra del cuore del CEO.
Ogni informazione che vi avremo inserito (non entro, in questa sede, nel merito delle autorizzazioni legate alla privacy, che non vanno ovviamente trascurate) ci verrà restituita in modo organizzato ed efficace. Si ottiene così un sostanziale unico pannello di controllo, molto potente e flessibile, mediante il quale stabilire le azioni da farsi, sia commerciali che di marketing.
Ovviamente potremo raccogliere i dati sotto molte forme e categorie, a seconda del bisogno, creare alert per ricordare ai clienti un determinato evento, scoprire quali siano le leve (prezzo, prodotto, stagionalità, tempi di consegna, ecc…) attraverso le quali un’offerta venga accettata o rigettata. Spostare l’analisi su un determinato soggetto, una categoria di clienti, o invece un intero segmento di mercato.
Non solo CRM, e CRM customizzato
Come si sarà già intuito il CRM si può facilmente collegare a tutti i più comuni programmi di posta elettronica e, in tal modo, mostrare tutte le mail inviate e ricevute per ogni cliente. Si può interfacciare anche con Linkedin, con programmi di invio newsletter (operazione che la maggioranza dei CRM svolgono anche autonomamente), e sincronizzarsi con il calendario di Google, oltre a svariate altre interazioni.
Le aziende più evolute, ora tendono a preferire proprio CRM sempre più personalizzabili e integrabili, ed è un chiaro segno di consapevolezza e di valorizzazione dello strumento. Un percorso caratteristico, per una PMI, prevede una fisiologica curva di apprendimento, che può essere catalizzate da un corso ad hoc, successivamente, quasi sempre, nel corso di alcuni mesi, con l’uso quotidiano, si evidenziano caratteristiche e soluzioni desiderabili. Tali connotati possono essere introdotti (o modificati) al fine di rendere il programma più aderente alle esigenze specifiche, di settore o peculiari dell’impresa.
Dipendenti e CRM
Certamente il CRM si può prendere in considerazione anche per micro imprese, conosco persino diversi professionisti che ne fanno uso, senza avere alcun dipendente, ma è innegabile che dia il meglio di sé quando le informazioni possono essere condivise, fra vari soggetti. Naturalmente, per contro, tanto più si amplia la platea di fruitori quanto più potrebbe essere richiesto di limitare gli accessi in alcune aree sensibili, solo ad alcuni utenti, e fortunatamente si tratta di un’operazione non solo possibile ma banale da attivare.
Va anche ricordato che il CRM può essere prezioso anche per raccogliere il patrimonio di relazioni e contatti di un ogni commerciale che, diversamente, qualora lasci l’azienda, di sovente, non trasferisce in parte o in toto il proprio bagaglio di informazioni e contatti, accumulato in anni (o al massimo si limita ad uno sbrigativo passaggio di consegne). Con l’adozione di un CRM, ed un uso appropriato dello stesso, questo non accade, non va perso alcunché, e l’azienda ovviamente ne trae un enorme beneficio.
Evidentemente, va ben compresa e condivisa l’utilità portentosa di questo strumento, che si può utilizzare su qualsiasi device e ovunque nel mondo, basandosi sulla tecnologia cloud. Qualora capiti che venga adottato da persone poco inclini al cambiamento, che non ne capiscano realmente le potenzialità, o magari che si scoraggino di fronte ad un minimo di impegno iniziale per familiarizzarvi, allora il CRM può essere percepito come “un’incombenza supplementare” (purtroppo mi sono capitati casi del genere), quindi sottoutilizzato o sbrigativamente archiviato.
Conclusioni
Viviamo un’epoca di frenetica e sbalorditiva trasformazione digitale, che accelera i tempi, esige nuove competenze, e chiaramente rende il lavoro più efficiente e remunerativo. Fra gli strumenti che si stanno imponendo, nel nostro Paese, dopo averlo fatto in USA e nel resto dell’Europa occidentale, vi è il CRM. L’adozione di questo programma può davvero diventare un prezioso alleato, quasi irrinunciabile, una volta scoperto, per un moderno ufficio export.
Naturalmente il solo introdurre un CRM non basterà a vendere di più, occorre utilizzarlo bene, sistematicamente, e nel pieno delle sue enormi possibilità che, comunque, come destino di ogni applicazione, continueranno a svilupparsi e migliorare nel tempo. Non sarei stupito, a tal proposito, se fra qualche anno, i pochi resistenti che ancora non lo utilizzassero, finissero per scontare un gap negativo di velocità, organizzazione e precisione, che gli costi caro in termini di reputazione e fatturato.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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Export: tutto quello che avreste voluto chiedere sul prodotto e non avete mai osato chiedere! Parte II
Restare vigili e attivi
Dando seguito alle considerazioni sul prodotto, in rapporto alle attività di vendita internazionale, tratteggiate lo scorso mese, analizziamo brevemente come si possa gestire una seconda fase.
Una volta presentati i prodotti sul mercato, e ottenuti i primi riscontri, benché si tratti di un successo importante, non avremo concluso i nostri sforzi. Occorrerà, per cominciare, verificare l’effettivo richiamo della nostra proposta sui clienti, e naturalmente ci si affiderà, in parte, alle osservazioni raccolte dai nostri partner locali, ma non solo.
E’ infatti bene trovare un sistema per monitorarne direttamente e con attenzione l’andamento, sia per non deputare il giudizio esclusivamente a pochi soggetti, che per essere parte in causa responsabile e consapevole, di tale delicato passaggio.
La collaborazione con i distributori
Evidentemente, sia nelle modalità di sondaggio, che in quelle di eventuale intervento, quando si siano strutturati rapporti di distribuzione, ovvero l’opzione più frequente per le PMI, è bene evitare di prevaricare i partner in questione, o semplicemente pontificare nei riguardi della loro attività, poiché da un lato rischieremmo di compromettere i rapporti e, dall’altro, verosimilmente la loro capacità di comprensione del substrato economico-commerciale locale si rivela fatalmente superiore alla nostra.
Un approccio costruttivo e solitamente ben accetto, è quello di prevedere delle collaborazioni di marketing, incluse nell’accordo contrattuale primario, se possibile cofinanziate. In tal modo otteniamo un duplice scopo virtuoso, da un lato quello di motivare il nostro partner ad investire sui nostri prodotti, con ovvi riverberi fattivi, e dall’altro quello di facilitare consensualmente la nostra presenza, in periodico affiancamento, alla luce di un interesse speciale per quel mercato, e le sue leve promozionali peculiari a cui ispirarsi.
Fare i compiti a casa
Nella maggioranza dei casi, l’esperienza sul campo, nel tempo, suggerisce qualche correzione di strategia rispetto al prodotto e, non di rado, rivela anche la possibilità di cogliere alcune opportunità insperate, grazie ad adeguamenti di vario tipo, conoscenza di leggi, sfruttamento di mode o rapide integrazioni tecniche.
Talune fra le attività e le constatazioni che possono emergere più comunemente, e che pilotano verso riflessioni di “secondo livello”, sono riepilogate qui di seguito:
– Monitoraggio costante della qualità del prodotto e/o del servizio
– Flessibilità produttiva (rapida reazione a sollecitazioni di mercato di modifiche o maggiori quantità)
– Stadio del ciclo di vita del prodotto (pionieri / piena diffusione / declino / rinnovamento, prodotto soggetto a mode, intervento di opinion leaders o influencer, ecc…)
– Velocità di inserimento di eventuali innovazioni tecnologiche (per adeguamento alla concorrenza o intercettazione di richieste di mercato esplicite o implicite)
– Personalizzazione spinta (alta qualità e duttilità, adattamenti mirati, facoltà di proposta “custom made”, “on demand”, ecc…
– Grado di saturazione degli impianti / limite del potenziale della mano d’opera (attenzione a non farsi ingolosire da progetti sovradimensionati e/o intempestivi, ovvero ordini che non si riescano ad evadere con ricadute economiche e reputazionali)
– Eliminazione dalla gamma di prodotti “banali” e a basso valore aggiunto (solitamente ci rendono perdenti per il prezzo, meglio spingere sulla creatività, lo stile, il design, l’originalità)
– Rapporto fra costi fissi e variabili (se il rapporto è sbilanciato, occorre raggiungere considerevoli volumi di vendita o può non convenire perseverare; talvolta si può tendere ad una maggiore standardizzazione per abbattere i costi ma ciò evidentemente contrasta con le opzioni di personalizzazione auspicabili)
– Margini di guadagno della distribuzione (ad esempio in Italia c’è molto più margine che in Germania; non c’è omogeneità fra i Paesi come fra i settori)
– Limiti alle importazioni (necessità di licenze o autorizzazioni, contingentamenti e protezionismi vari)
– Tendenza al “just in time” (nel qual caso occorre organizzarsi per detenere pochissimo stoccaggio e accorciare i tempi di produzione e distribuzione)
– Da global a glocal (la sensibilità di alcuni settori e molto maggiore rispetto ad altri, nel caso di una piccola azienda gli eventuali adattamenti saranno congrui alle possibilità)
Conclusioni
Per l’ennesima volta, ricordiamo come le attività di internazionalizzazione vadano intese in un’ottica dinamica e in costante divenire, e che non paghi adagiarsi sugli eventuali allori, il che ovviamente non impedisce di darsi degli obiettivi parziali correlati a step temporali, da verificare in corso d’opera, nonché di rallegrarsi legittimamente per il raggiungimento degli stessi.
È bene tuttavia imparare a riconoscere precocemente i cambiamenti realmente rapidi che avvengono nei mercati attuali e conformarvisi con intelligenza e flessibilità, quanto più possibile, organizzando le contromisure per rimanere competitivi e fare la differenza.
È raccomandabile e funzionale anche coltivare i rapporti personali, e frequentare periodicamente il mercato bersaglio, poiché dal confronto con altri operatori attivi e lungimiranti, e dall’osservazione della realtà quotidiana, spesso sorgono gli stimoli per comprendere in anticipo le dinamiche che caratterizzeranno quel contesto.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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Export: tutto quello che avreste voluto chiedere sul prodotto e non avete mai osato chiedere! Parte I
Da dove partire
Come ovvio, il prodotto costituisce una delle travi portanti, su cui costruire la propria fortuna di esportatore. Dando per acquisito che sia proceduto ad un più o meno approfondito studio di mercato, e che da esso ne siano state tratte indicazioni funzionali, va presa in considerazione la possibilità di operare interventi mirati sul prodotto affinché la proposta sia maggiormente centrata e allettante per quella determinata platea.
In linea di principio sarebbe sempre bene operare una cernita ponderata, e non trasferire l’intero catalogo “tout court” nel nuovo mercato. Una volta definito il paniere più appropriato occorre investire in “appeal” e, talvolta, per la compatibilità, con il mercato, il contesto, le peculiarità del segmento o dei segmenti bersaglio identificati. Il tutto inquadrato in un’ottica plastica, di medio-lungo periodo, che possa prevedere adattamenti, anche abbastanza rapidi, alle fluttuazioni dinamiche tipiche dei mercati attuali.
Ciò non esclude che, assumendosene i rischi, si possa provare ad imporre il prodotto così com’è stato concepito per l’ambito nazionale, con ovvi vantaggi e risparmi, in caso di successo, ma è indubbiamente un azzardo, che se non azzeccato può inficiare gli sforzi compiuti a monte. Spesso la collaborazione con soggetti già attivi sul mercato, mediante test di campionatura, e un onesto confronto, può indirizzare le scelte con il conforto di una maggiore consapevolezza.
Prodotto, ma non solo
Si è ripetutamente sottolineata l’importanza che assume l’associazione del prodotto con il numero maggiore di servizi accessori, eventualmente anche alternativi. Il peso dei servizi, sulla scelta del cliente, ha continuato a crescere negli ultimi decenni e spesso si è rivelato il vero terreno di scontro fra prodotti concorrenti.
Poiché anche l’aggiunta di servizi, in linea di massima, costituisce un investimento, è lungimirante prevedere una modulazione “ad hoc”, dato che le aspettative, le percezioni di valore, attinenti ai diversi tipi di servizi, generano un’attrattiva radicalmente diversa a seconda dei mercati e delle condizioni in cui si trova il settore di riferimento.
Molto grossolanamente, e con tutte le eccezioni del caso, ad esempio, in diversi paesi del nord Europa si dà per scontata una garanzia molto più lunga rispetto alle abitudini italiane e il non fornirla può generare un discredito potente sulla credibilità della nostra azienda. In diversi Paesi nordafricani, ma non solo, includere con l’acquisto del prodotto un programma formativo sull’utilizzo, è così apprezzato che coloro non in grado di proporlo rischiano di essere tagliati fuori; in Brasile si può considerare un servizio di grande rilievo l’offrire la spedizione compresa, con la copertura delle tasse di importazione, solitamente piuttosto alte. Le opzioni e le possibilità, in realtà. sono quasi innumerevoli, tutto sta a non sottostimarne l’impatto.
Cosa fare in concreto per conformare il prodotto al mercato
In modo più dettagliato e attraverso le voci qui di seguito enumerate, consideriamo in modo giocoforza schematico, data la vastità del tema, quali siano i principali assunti da cui partire per intervenire efficacemente sulla “galassia prodotto”.
- Prodotto tal quale vs. gamma selezionata: tutta la produzione o in parte, in dipendenza delle reazioni di mercato, di quanto già eventualmente presente, delle abitudini peculiari, ecc..
- Adattamenti tecnici e commerciali: relativi a normative vigenti, a particolari richieste del mercato, a funzioni diverse richieste, a trend imposti dalla concorrenza, ecc…
- Differenziazione dei prodotti: è possibile qualche volta che vi sia una diversa destinazione d’uso con relativa comunicazione che si imposta conseguentemente
Segmentazione: che può comportare il rendere il prodotto adatto ad una determinata fetta di clienti e attuare un approccio di marketing mix appropriato - Orientamento commerciale: tendenzialmente per una PMI italiana è più produttivo focalizzarsi sulla qualità, piuttosto che puntare su volumi importanti e prezzo ridotto.
- Tipi di bisogni espressi identificabili: a seconda delle circostanze e, evidentemente, del prodotto preso in esame, può esistere un impatto rilevante sui modelli di acquisto (emozionale piuttosto che razionale), e una correlazione con variabili demografiche, anagrafiche, comportamentali, culturali, in sostanza con bisogni ben riconoscibili.
- Integrazione con prodotti e servizi di filiera di successo già presenti sul mercato: in caso risulti efficace e proficuo si possono prevedere aggiustamenti per favorire l’integrazione
- Servizi associati al prodotto: come già menzionato, è consigliabile proporne il più possibile e con attenzione e sensibilità in relazione al mercato in oggetto
- Logistica e condizioni di distribuzione: va da sé che l’eventuale complessità di trasporto, per tempi e modalità, di conservazione, stoccaggio, le eventuali peculiarità dei canali distributivi, i tempi di consegna più o meno lunghi, sono tutti elementi di grande importanza, con i quali è preferibile fare i conti ex ante, piuttosto che ex post.
- Costi di produzione e complessivi: in linea generale, nel medio-lungo periodo si innescano economie di scala virtuose per l’impresa, tuttavia, nel breve periodo, il presumibile aumento dei costi di produzione, di trasporto, di marketing, va gestito con lucida sostenibilità.
- Posizionamento: è una valutazione strategicamente fondamentale che può condizionare in un senso o nell’altro la riuscita del progetto. Ad esempio, in buona parte del mondo, il caffè è percepito come bene di lusso.
- Composizione del prezzo: al di là della correttezza del prezzo espresso, è bene ricordare come vi possano essere profonde dissonanze fra i mercati in merito all’utilizzo di prezzi netti, scale sconti, programmi a lungo termine, “welcome package”, e così via.
- Condizioni di vendita: quando si esordisce in un mercato e non si benefici di un brand noto, sarebbe opportuno facilitare il più possibile l’innesco dell’acquisto, con ordini minimi ragionevoli (o meglio ancora non presenti), entry offer, lunga validità del listino, pagamenti dilazionati, possibilità di resa merce, ecc.. Ovvero tutti i possibili connotati che riducano le resistenze e la diffidenza naturale dei clienti.
- Comunicazione commerciale: spesso da rivedere profondamente sulla base del combinato degli elementi sopra visti. Persino la psicologia e la psicolinguistica possono entrare in gioco a seconda del mercato (vedi caso dell’Algida che cambia nome in ogni Paese o quasi)
- Dazi / imposte di importazione, autorizzazioni e messa in libera vendita: (vedi codice doganale) alle volte può essere particolarmente lungo e laborioso ottenere tutte le certificazioni e i permessi necessari, effettuare eventuali trial clinici, chimici, farmaceutici, e farsi carico degli oneri; sono considerazioni che impattano significativamente nelle scelte
- Packaging: si possono, e spesso si devono effettuare interventi, sul formato, sulle immagini, sui messaggi da veicolare, sulle dimensioni, di allineamento ad eventuali trend ecologici, ecc…
- Immagine e marchio: da declinare in base al contesto culturale ed economico ma anche in funzione della scelta strategica soprastante
- Adeguamenti culturali: ad esempio modifiche nelle preparazioni alimentari, nelle proposte tessili, nei numeri e nei colori (verde o nero per l’Islam, il bianco a evitare in oriente), ecc…
- Informazioni tecniche, d’uso, commerciali: a parte la cura nelle traduzioni, che non devono essere “fatte in casa” è importante recepire quali siano le esigenze legali e operative
- Scheda tecnica produttiva: dove raccomanderei di essere il più esaustivo possibile (massimo potenziale, possibili varianti, controlli qualità, personalizzazioni, accessori, possibilità di verniciature, trattamenti particolari, ecc…)
- Argomenti di vendita da verificare e modulare: da applicare con un eventuale distributore e poi condividerne l’efficacia con lo stesso, ovvero da rivolgere al cliente finale, fra gli altri i benefici e vantaggi attesi, il made in Italy, altri plus particolari, eventuali certificazioni riconosciute (ISO, TUV), ecc….
Conclusioni
In questa prima parte abbiamo visto, molto rapidamente, quanti e quali possano essere i costituenti che influenzano il successo di un prodotto in un nuovo mercato, senza dimenticare un po’ di fortuna, che purtroppo non è pianificabile.
Per contro capita più spesso di quanto si pensi che un’azienda, non senza sforzi, trovi un magico equilibrio di adattamenti e valori, tali per cui un prodotto incontri un certo successo in un determinato ambito, e poi magari si scopra che lo stesso prodotto modificato, funzioni, in qualche modo, anche per qualche rotta diversa o addirittura per il mercato domestico.
Nella seconda parte riprenderemo con altri concetti integrativi.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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Internazionalizzazione: come e dove trovare le informazioni necessarie
Prepararsi per la battaglia…
Quasi tutti i professionisti dell’export, di lungo corso, raccomandano di raccogliere preliminarmente tutte le informazioni possibili su un determinato mercato, settore, cliente, al fine di investire denaro, tempo ed energie in modo più ponderato e ridurre il margine di errore.
Anch’io concordo pienamente con quanto sopra, e normalmente invito le aziende clienti ad orientarsi in tale direzione, tuttavia trovo lecito quando l’imprenditore, di rimando, mi domandi dove si possano trovare le suddette informazioni, e anche come valutarne l’attendibilità. La generica risposta: “sul web”, non meglio indirizzata, lascia il tempo che trova, per cui, a beneficio degli eventuali interessati vado ad argomentare un po’ meglio.
Rispetto al passato, la possibilità di svolgere un gran numero di indagini anche dalla scrivania dell’ufficio, offre un vantaggio incalcolabile, ma occorre evidentemente sapere cosa e dove cercare. Per questo, l’aiuto di un professionista o comunque di una persona deduttiva e formata, è un’opzione da prendersi in seria considerazione.
Restano comunque insostituibili, quando possibile, l’integrazione e la validazione dello studio sul campo, recandosi di persona sul mercato di riferimento e investigando direttamente. Le informazioni utili, solo a titolo esemplificativo, possono riguardare il Paese, l’ecosistema economico, le abitudini negoziali, la concorrenza, la struttura distributiva, gli aspetti finanziari, doganali, legislativi, ecc.. Non tutte sono palesi o facilmente deducibili, è quindi bene essere creativi e non accontentarsi mai di un’unica fonte per quanto autorevole possa sembrare.
Se dovessi raccontare, come e dove, talvolta, abbia recuperato notizie e spunti rivelatesi molto importanti o addirittura determinanti, sconfinerei nella narrativa fantasy, e magari suonerei poco professionale; per fortuna, esistono anche molte risorse ortodosse, consolidate e ragionevolmente affidabili che possono, se non altro aprire la strada efficacemente al nostro intento di approfondimento.
Dove cercare
Le possibili sorgenti di informazioni sono innumerevoli, tanto che, di fatto, i soli confini atti a circoscriverle, sono quelli dell’esperienza, dell’intraprendenza, dell’intuito, e persino dell’immaginazione. Supponendo di fornire una traccia utile, propongo un elenco di possibili punti di riferimento, sui quali è verosimile riuscire a sviluppare una ricerca abbastanza congrua o perlomeno ottenere indicazioni solide.
Per non dilungarmi eccessivamente, non andrò ad argomentare, uno per uno, l’assegnamento e l’approccio con cui affrontare i diversi soggetti, né in dettaglio quali conoscenze, o quale genere di dati ci si possa aspettare da una fonte piuttosto che dall’altra.
Anche volendo sarebbe una trattazione davvero corposa e comunque in costante evoluzione, pertanto, in questa sede, suggerisco piuttosto di fare un po’ di “allenamento” operativo, per scoprire qualcosa di più sulle risorse indicate di seguito, e chissà, magari, aggiungere progressivamente alla lista anche le proprie e peculiari.
• Banche dati (ex. D&B, Kompass,..)
• ICE
• SACE e SIMEST
• Ministero dello Sviluppo Economico
• Ministero degli Affari Esteri
• Ambasciate e consolati
• Rappresentanze diplomatiche diverse e sportelli del sistema Italia (delegazioni, centri di promozione commerciale, agenzie, istituti culturali, varie, ecc..)
• Camere di Commercio locali
• Siti regionali
• Camere di Commercio Italiane (o Italo-altro paese) all’Estero
• Sportelli Regionali e locali di Unioncamere
• Organismi governativi esteri
• Strumenti e programmi UE
• Assocamere
• Associazioni di categoria
• ISTAT (e altri istituti di statistica)
• Fiere, congressi ed eventi (compresi i nominativi dei frequentatori laddove acquistabili)
• Annuari e cataloghi
• Clienti attivi ed ex-clienti
• Fornitori
• Concorrenti
• Aziende di filiera e subfornitura
• Trading company
• Buyers office stranieri in Italia
• Professionisti .(avvocati, doganieri, esperti internazionalizzazione, ecc..)
• Agenti di commercio e segnalatori
• Siti, social, blog e newsletter di settore e settori contigui
• Spedizionieri
• Stampa economica
• Elenchi pubblicitari telefonici internazionali
• Club, circoli, aggregazioni e gruppi di italiani all’estero
• Centri servizi
• Repertori bibliografici tecnico-economici
• Conferenze stampa
• Ricerche di mercato già esistenti
• Riviste tecniche di settore
• Pronunce antitrust e altre sentenze di contenzioso commerciale
• Tesi di laurea, ricerche universitarie e pubblicazioni accademiche
• Agenzie per la promozione di investimenti in Italia e all’estero
• Gare di appalto internazionali (liste partecipanti, capitolati, ecc..)
• Richieste offerte di merci dal Paese
• Banche (uffici esteri in Italia e banche straniere)
• ABI (esistenza di linee di credito)
• Banca Mondiale
• Schede CIA
Conclusioni
Molte aziende purtroppo percepiscono il suggerimento di questo articolo, come un mero esercizio accademico, che disperde tempo e risorse, oltreché ritardare “l’andare al sodo”, per cui concentrano le ricerche unicamente verso l’identificazione di potenziali clienti (e anche questi bisogna comunque sapere dove e come trovarli)
Naturalmente i clienti restano quasi sempre il punto di arrivo e il fulcro dell’attività di un’impresa, ma rivolgervisi senza avere un’adeguata cognizione di causa sul loro conto e sul contesto dove operano, è un po’ come offrire il gagliardetto della nostra squadra alla cieca, e magari offrirlo a chi è tifoso di un’altra o appassionato di un diverso sport.
Non solo, e più grave, è che spesso operare a tentoni, significa anche farlo attraverso modalità, condizioni e un linguaggio, totalmente incomprensibili o indigesti per l’interlocutore.
Raccomando quindi caldamente di investire, sempre e comunque, qualche risorsa in una ricerca di mercato, che faccia luce sugli elementi culturali, di business, di settore, di prodotto/servizio, sulla segmentazione presente, e su tutto quanto occorra per rapportarsi adeguatamente ai nostri acquirenti bersaglio, con discrete probabilità di successo.
Detta ricerca si può svolgere attraverso approcci e linee guida diverse, ma anche con molteplici livelli di approfondimento e di orizzonte temporale, a seconda delle necessità, delle aspettative e della disponibilità di mezzi.
In ogni caso, e qualunque sia la scelta, già una buona attività di tipo “desk”, condotta con capacità ed esperienza, può aiutare a dissipare molti dubbi, orientare in modo efficace le scelte e suggerire gli eventuali adattamenti da applicare. Quando poi, si riesca ad aggiungervi qualche “accertamento” supplementare, diretto o indiretto, sul mercato in oggetto, tendenzialmente vedremo il nostro investimento portare i frutti sperati.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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Intervento presso l'Università di Bologna sui fattori chiave per il successo nell'internazionalizzazione aziendale
Un’intervento in lingue inglese, di qualche anno fa, che rimane tutt’ora discretamente attuale.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
Il complicato nodo dell’aggregazione di imprese per affrontare i mercati esteri
L’ecosistema economico italiano
È arcinoto che il tessuto economico del nostro Paese, sia composto, in larghissima parte, da piccole o addirittura da microimprese. Queste ultime, che secondo la classificazione europea, recepita dall’Istat, contano meno di 10 addetti, e un fatturato fino a 2 milioni di Euro, rappresentano però oltre il 95 per cento di tutte le attività censite sul territorio (escludendo il settore primario). Le piccole imprese poi, tecnicamente definite fra i 10 e i 49 dipendenti, risultano poco meno di 200.000, da cui ne deriva, che le restanti medie e grandi imprese, a partire dai 50 dipendenti, a completare l’intero ecosistema italiano, rappresentino solo lo 0,7% del totale, ovvero circa 28.000 in numeri assoluti.
Per quanto se ne possa avere una generica percezione, le oggettive statistiche sopra riportate, risultano abbastanza spiazzanti, cionondimeno, grazie a qualche dato aggiuntivo, si può facilmente evincere una ancora più approfondita e compiuta valutazione dello sbilancio esistente fra le categorie menzionate. Le medie e grandi imprese, infatti, pur essendo così esigue in termini percentuali, realizzano da sole più della metà dell’intero PIL nazionale, e occupano oltre un terzo dei lavoratori totali.
Sono numeri sintomatici di un quadro pulviscolare ampiamente consolidato, che inesorabilmente penalizza le aziende italiane sui mercati esteri, dove i competitor continentali hanno tipicamente un potere contrattuale e una risonanza superiori, principalmente per “stazza” e forza d’urto, oltre che, in una certa misura, per una più efficace capacità di supporto da parte degli organismi facilitatori deputati (camere di commercio dislocate nel Paese, istituti dedicati, società finanziarie, ecc..).
Non a caso, se andiamo a vedere i dati del nostro export globale, si desume immediatamente come il nostro Paese, su molti mercati, sconti inesorabilmente una capacità di impatto significativamente ridotta, rispetto ai principali concorrenti europei, e nonostante le note creatività e intraprendenza che ci contraddistinguono, non è facile compensare il deficit organizzativo e dimensionale. Le istituzioni preposte allo sviluppo dell’internazionalizzazione, di tanto in tano, hanno cercato di dare una qualche forma di risposta strutturale al problema, incoraggiando l’aggregazione fra imprese, attraverso finanziamenti dedicati e facilitazioni normative, ma per il momento, i risultati non sono particolarmente incoraggianti.
Come “fare sistema”
Si pone allora la questione di come si possa fare sistema.
Spesso, le cordate possono essere “di distretto” o “di filiera” (con o senza un’impresa driver). Queste ultime, tendono ad essere mediamente più ben accette di quelle di distretto, in quanto percepite come meno rischiose per potenziali rischi di competizione e violazione della proprietà intellettuale.
Tecnicamente, in realtà, si può “fare sistema” in molti modi. Attraverso relazioni su base contrattuale (non equity) e senza interventi sui capitali e sull’autonomia delle imprese (consorzi, gruppi di acquisto, reti, ati, gruppi di interesse, franchising, ecc..), ma anche ovviamente mediante varie forme diverse, con gradi crescenti di condivisione finanziaria e gestionale. Tutti questi sistemi, molto diversi fra loro, per caratteristiche e obiettivi, hanno alcuni tratti comuni, uno dei principali è la necessità di integrarsi lealmente e il rispetto delle regole stabilite.
Negli ultimi 10 anni, come accennato, sono stati proposti numerosi finanziamenti dedicati e vantaggi di vario genere, per invitare le imprese italiane ad aggregarsi, e presentarsi sui mercati esteri in una forma più solida e appetibile, ma in pochi casi si sono concretamente generate delle realtà convincenti e sufficientemente durature. Il beneficio proposto, è quasi sempre sufficientemente chiaro, ma si scontra sovente con l’estremo individualismo e il sospetto che caratterizza le aziende italiane.
Per altro, non di rado, i menzionati distretti, si costituiscono per “gemmazione”, e tale genesi non è sempre indolore, al contrario, generalmente si trascina scorie di incomprensioni e risentimenti, poco compatibili con una proposta di aggregazione.
I vantaggi del presentarsi insieme, per punti essenziali
– Abbattimento dei rischi
– Sinergie e alleanze di filiera
– Spartizione dei compiti
– Condivisione di esperienze e informazioni
– Suddivisione degli investimenti
– Maggiore accesso a fonti di finanziamento tradizionale e agevolato
– Massa critica e gamma più ampia e completa di prodotti e servizi
– Possibilità di proporre soluzioni “chiavi in mano”
– Più efficace competitività verso concorrenti internazionali
– Migliore visibilità, marketing più evoluto
– Maggiore potere contrattuale verso soggetti terzi (clienti, fornitori, professionisti, banche, ecc..)
– Eventuale marchio collettivo
– Servizi comuni e ottimizzazioni varie (acquisti, missioni, trasporti, consulenze, dogane, assicurazioni, ricerche di mercato, certificazioni, autorizzazioni, R&S, formazione personale, insediamenti esteri, materiale promozionale, recupero crediti, ecc..)
Conclusioni
Si sono, sinteticamente, messi in evidenza i benefici che comporta l’aggregazione fra piccole e medie imprese, che rappresentano la trama connettiva e, in qualche modo, la spina dorsale del modello produttivo nazionale, virtuoso e quasi prodigioso da un lato, ma inesorabilmente sfavorito dall’altro.
La realizzazione di tale proposito, nella pratica, risulta meno semplice di quanto potrebbe apparire teoricamente. Due volte, in passato, ho accettato il ruolo di manager di rete e, in entrambi i casi, le riunioni erano più estenuanti di quelle condominiali, per le continue baruffe e discussioni, ben poco razionali, e persino per qualche scorrettezza. Di fatto, spesso, più che rivestire un ruolo di stratega, ero costretto a investire energie in quello di arbitro e paciere…
Ciò detto, quando si riesca a superare o quantomeno gestire, tale impegnativo ostacolo, la propulsione derivata dalle svariate possibili sinergie, è in grado di generare un vero e proprio moltiplicatore delle potenzialità per ciascuna impresa costituente, e alcuni meccanismi dell’aggregazione, oltre che sui mercati esteri possono trasferirsi e risultare vincente anche in ambito domestico.
Saverio Pittureri
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Fare business in Sudafrica. Risvolti interculturali, economici e commerciali – Parte II
Una unicità che parte da lontano
Riprendiamo oggi il racconto, per sommi capi, delle caratteristiche del Sudafrica, e per quanto possibile, di quali siano gli elementi di attenzione per un’impresa italiana che voglia approcciarne il mercato. Per farlo, facciamo un passo indietro, alle caratteristiche del cammino coloniale nel Paese.
Benché già alla fine del XV° secolo, il portoghese Bartolomeo Diaz, avesse scoperto il Sudafrica, il primo insediamento stabile fu ad opera degli olandesi, solo nel 1652, nella Penisola del Capo, che probabilmente doveva essere favolosa, ma anche piuttosto inospitale. Dapprima, tale avamposto, ebbe la funzione di stazione di rifornimento per i bastimenti della Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) poi gradualmente prese ad ingrandirsi. I coloni olandesi si dedicavano principalmente all’agricoltura e all’allevamento, e ricevettero il nome di boeri, “contadini” (in seguito sarebbero stati definiti afrikaner).
I boeri, benché continuassero ad espandersi, per quasi due secoli mantennero rapporti sostanzialmente buoni con le popolazioni locali. Fino a che sorsero contese per l’uso di vasti pascoli, e si scatenarono vere e proprie guerre, in particolare con la tribù degli Xhosa (quella di Nelson Mandela). Nel contempo venivano importati in gran quantità schiavi dall’Indonesia, dal Madagascar e dall’India, per lavorare la terra. Cosa che proseguirono a fare anche gli inglesi, successivamente. La ragione principale deposita nel fatto che i locali, pur robusti e ovviamente adattati all’ambiente, risultavano difficilmente assoggettabili, rispetto ai più docili orientali.
I risultati di queste deportazioni, sono molto evidenti ancora oggi. Il protratto melting pot genetico fra coloni, discendenti di schiavi e popolazioni indigene, ha generato una etnia peculiare, frequentemente denominata “cape coloured”, che costituisce la componente predominante della popolazione della provincia del Capo.
Così come nel KwaZulu-Natal, e in particolare nell’area di Durban sono numerosissimi gli abitanti di chiara origine indiana.
Lo stesso giovane avvocato Gandhi, futuro Mahtma, vi trascorse 22 anni, fra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso, cruciali per la sua formazione umana e la sua coscienza politica. Fu costernato, vedendo il diniego delle libertà civili e dei diritti politici verso gli immigrati indiani, ed incominciò a protestare e fare pressioni, contro la discriminazione legale e razziale subita dagli indiani in Sudafrica, tanto da essere incarcerato nel 1913.
Ufficialmente, l’attuale ripartizione delle comunità etniche vede gli africani all’80,2%, i bianchi all’8,4%, i “coloured all’8,8% e gli indiani al 2,5%. In realtà però, si presenta una situazione molto più fluida, complessa e variegata, di quanto cerchino di riassumere le statistiche, anche, se non soprattutto, in termini di retaggio culturale, e non è un caso che il Paese sia noto come Nazione Arcobaleno. Questa articolata eredità, che impatta significativamente sulla società contemporanea ha un riverbero essenziale anche sull’ecosistema business.
L’avvento degli inglesi
A partire dalla fine del diciottesimo secolo, gli inglesi tentarono più volte di occupare la colonia del Capo, fino a riuscirvi nel 1797, per un’annessione formale che ebbe luogo nel 1806. Pur con diversi scontri sanguinosi, inglesi e boeri continuarono per lungo tempo a convivere, in qualche modo, ma i boeri non si adattarono mai all’occupazione britannica, in modo particolare da quando il Regno Unito dichiarò formalmente l’abolizione dello schiavismo nel 1833.
La scoperta di miniere di diamanti e oro, incoraggiò ulteriormente l’immigrazione e l’interesse dell’Impero Britannico per l’area del Capo, ma anche per l’entroterra, colonizzato dai pionieri boeri, chiamati voortrekker. Ne sfociarono due successive guerre boere, nell’ultimo ventennio del diciannovesimo secolo. La prima della quali vide gli inglesi a mal partito, per la scelta infelice di divise color rosso vivo, che li rendeva facili bersagli.
Nonostante l’orgogliosa resistenza boera, e la ricerca di un’alleanza con i tedeschi, che controllavano l’attuale Namibia, alla fine, gli inglesi, come in molte circostanze della propria storia coloniale, ebbero il sopravvento. Non mancarono certo pagine cupe, nel corso delle guerre, con la creazione di veri e propri campi di concentramento, e strategie estreme, in nome delle quali vennero compiute razzie e devastazioni, e si presero le popolazioni nemiche, indistintamente, per fame.
Con il trattato di Vereeniging, il Regno Unito si assicurò formalmente il controllo dell’intero Paese, nello stesso documento viene specificato che le persone di colore non avrebbero avuto diritto di voto in nessuna delle province del Sudafrica, eccetto la Colonia del Capo.
La gestione britannica, come di prassi, tentò una anglicizzazione della popolazione boera, con l’insegnamento obbligatorio della lingua inglese nelle scuole, e l’istituzione delle caratteristiche strutture amministrative e burocratiche inglesi, oltre alla costruzione di infrastrutture secondo il modello del Commonwealth; questo programma, però ottenne il risultato di alimentare ulteriormente il rancore della comunità boeri. Quando i liberali ottennero il potere in Gran Bretagna (1906), il programma fu abbandonato, e l’afrikaans venne rapidamente riconosciuto come una delle lingue ufficiali del Sudafrica.
Il novecento e l’arrivo dell’indipendenza
L’Unione Sudafricana prese parte alla prima guerra mondiale a fianco del Regno Unito. Poco dopo, ottenne un mandato della Società delle Nazioni per il controllo dell’Africa del Sud-Ovest (oggi Namibia), strappata ai tedeschi. Nonostante l’aumento del suo prestigio internazionale, l’Unione stava attraversando un periodo di forte crisi interna, con attriti sempre più violenti fra i nazionalisti boeri e la rappresentanza inglese.
Nel 1931, con l’approvazione dello Statuto di Westminster, da parte del parlamento britannico, il Sudafrica ottenne una parziale autonomia. Partecipò alla seconda guerra mondiale come parte dell’Impero britannico, al fianco degli alleati, nonostante una parte significativa del National Party, il maggiore partito boero, simpatizzasse apertamente per la Germania nazista. Le truppe sudafricane combatterono in Etiopia, in Africa settentrionale ed in Europa.
Dopo la fine della guerra, nel 1948, il National Party si impose alle elezioni, instaurando il regime di apartheid che istituzionalizzava la segregazione razziale, già presente nei fatti, in larga parte del Paese, in quest’ottica furono istituiti i bantustan, ovvero i territori destinati alle popolazioni nere, delle diverse etnie, a cui complessivamente venne concesso il 13% del territorio del Sudafrica.
Il Sudafrica sprofondò in una fase buia e inqualificabile della propria storia, e venne sostanzialmente isolato dal resto del mondo. Con un visto sudafricano sul passaporto, non si poteva entrare nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Non a caso, io ho sempre avuto due passaporti, per questa e altre incompatibilità presenti in ambito internazionale (uno dei quali lascio naturalmente sempre depositato in questura e vado a sostituire, al bisogno).
Il 31 maggio del 1961, a seguito di un referendum, il Sudafrica ottenne l’indipendenza dalla corona britannica e venne espulso da Commonwealth. Cominciò la resistenza da parte dell’ANC e nel 1963 Nelson Mandela venne condannato all’ergastolo, per terrorismo. Da lì, è storia recente, abbastanza nota, fino al 1994 quando lo stesso Mandela, dopo la vittoria elettorale schiacciante dell’African National Congress, viene eletto presidente
Il nuovo Sudafrica fra luci e ombre
Con un retaggio, come quello rappresentato, si può ben capire che il periodo di assestamento successivo alla fine del potere bianco, sia stato piuttosto lungo e accidentato, e di fatto, in qualche modo permanga ancora oggi. In questi anni infatti, il paese ha perso 29 posizioni nell’indice di sviluppo umano, e il 40% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Prosegue il fenomeno dell’urbanizzazione, soprattutto nelle townships di periferia, dove fioriscono il lavoro nero e la criminalità, e non pochi bianchi hanno scelto di lasciare il Paese (una delle mete predilette, per alcuni punti di contatto nello stile di vita, è l’Australia).
L’attuale politica interna, è rivolta soprattutto alla lotta all’AIDS (una piaga spaventosa nel Paese), alla disoccupazione e alla criminalità, che ha raggiunto, specie nelle grandi città, in certe zone, livelli insostenibili. Altro tema delicato che il governo si trova costantemente ad affrontare, è quello della tutela delle diverse etnie, tutte molto orgogliose della propria identità autonoma. In questo quadro, i numerosi scandali per corruzione che hanno travolto i vertici dell’ANC, non hanno evidentemente aiutato a rasserenare il clima
In tema di disoccupazione, da molti anni è stato varato un programma, noto come black economic empowerment act, per incrementare la partecipazione dei “non-bianchi” ai settori chiave della vita economica sudafricana. A seconda del soddisfacimento di determinati criteri dettati dal BEE (assunzioni, ruoli rivestiti, ecc..), le aziende ricevono un punteggio da 0 a 100, con il quale accedono con minori o maggiori agevolazioni agli appalti pubblici. Lo spirito che ha animato il provvedimento è ovviamente condivisibile ma, come ogni misura sostanzialmente coercitiva, risulta abbastanza indigesta a molti imprenditori.
Ciò detto, con tutte le sue contraddizioni e il quadro d’insieme, a dir poco plastico, il Paese continua a costituire, e auspicabilmente costituirà sempre più, un catalizzatore formidabile di business per il continente africano. Con infrastrutture non dissimili dagli standard europei, ricco di risorse naturali, quali oro, platino, diamanti, cromo, ferro, manganese nickel, stagno, rame, uranio, vanadio, carbone, gas naturale, vede circa l’80% del proprio suolo, dedicato alle attività agroindustriali, in buona parte modernamente meccanizzate e tecnologicamente avanzate, il che rappresenta uno dei pilastri dell’economia nazionale.
Come già accennato, nell’articolo precedente, anche il manifatturiero e i servizi, in alcuni comparti, hanno conosciuto una crescita poderosa negli ultimi decenni. Il Sudafrica è però, soprattutto, per quanto possa interessare maggiormente le aziende italiane, un Paese dove la richiesta di determinate categorie di beni e servizi, proposti con standard occidentali, e a maggior ragione con peculiarità italiane, è consistente, siano essi destinati a innervare i processi produttivi domestici, oppure al consumo. Vediamo quindi alcune piccole linee guida comportamentali per rapportarsi ai soggetti locali.
Strutture aziendali e approccio, in pillole
Alla luce di quanto esposto fino ad ora, non sarà difficile cogliere la complessità della società sudafricana e conseguentemente quanto tutto ciò riverberi inesorabilmente nel mondo business.
Sia per gli influssi planetari di globalizzazione, che per un’eredità storica di concentrazione delle ricchezze, l’economia sudafricana è dominata da grandi società, mentre la quota delle piccole e medie imprese, pur crescente, risulta ancora relativamente ridotta (all’opposto del nostro Paese). Con tale background culturale, la struttura organizzativa tradizionale sudafricana, anche nelle piccole e medie imprese, appare marcatamente piramidale, o in altre parole, con una forte propensione verticistica. Per cui, parlare con qualcuno che non sia a capo di una funzione, di solito, si dimostra perfettamente inutile.
Il Sudafrica è anche permeato da una cultura collettivista, con una marcata priorità per la famiglia o altri interessi di gruppo rispetto a quelli generali. I gruppi etnici, tribali, strutturali, in Sudafrica tendono ancora a vivere fianco a fianco, piuttosto che fondersi, certo, via via, in qualche modo riescono anche a riconoscere un’identità comune, ma per mia esperienza, l’appartenenza ad un determinato cerchio sociale, etnico, culturale, è ancora una chiave interpretativa determinante, per instaurare una relazione costruttiva.
Il networking tradizionale o tecnologico, può avere molta importanza per creare collegamenti utili e qui lascio alla creatività di ciascuno pensare alle maniere per costruire il proprio. Non di rado le persone, abituate a “stare in difesa”, non si fidano istintivamente l’una dell’altra al primo incontro, per cui un lasciapassare fiduciario può fare la differenza; e la costruzione di relazioni personali stabili è fondamentale, perché ovviamente l’interlocutore sudafricano, intende fidarsi della persona con cui intrattiene affari.
Non di rado (parlo per esperienza personale), gli incontri iniziali sono utilizzati dal partner nativo, proprio per “familiarizzare” e capire se vi siano presupposti, direi quasi antropologici, per rapportarsi. Per questo raccomando tempo e pazienza, se di vuole ottenere un risultato, che però poi può diventare solido e duraturo. E anche la negoziazione vera e propria, è frequente che proceda abbastanza lentamente, rispetto ai nostri standard, e con altri accenti.
Per altro, viste anche le opportunità di impiego relativamente più ridotte, i sudafricani sono generalmente molto fedeli alle loro aziende e al loro incarico, e spesso rimangono in un’azienda per tutta la durata della loro vita lavorativa. Pertanto, quelli nelle posizioni più alte, ovvero i decisori, di solito hanno lavorato duramente e lealmente per guadagnare la loro posizione. Quindi una critica, anche scherzosa, all’impresa per la quale operano (quando anche finalizzata a valorizzare la persona in questione, nel confronto) è normalmente da evitare.
Business etiquette
Le persone tendono a parlare in modo molto diretto e trasparente, durante le trattative commerciali. Qualsiasi ambiguità o vaghezza, da parte nostra, può essere interpretata come un segno di inaffidabilità, disonestà o mancanza di impegno. Inoltre, i contratti e le condizioni dovrebbero essere esplicitamente dettagliate, già durante la negoziazione, per assicurare che l’accordo sia corretto e equilibrato. Personalmente, ho ottenuto risultati molto apprezzabili, partendo con accordi di consignment stock poi evoluti in formule più ortodosse di distribuzione.
Pur in considerazione di un’ovvia soggettività, tendenzialmente il businessman sudafricano arriva all’incontro preparato, con un obiettivo commerciale definito e un piano su come vorrebbe che si svolgesse la riunione. L’approccio di un afrikaner alle trattative, in particolare, e le sue aspettative, possono essere percepite come piuttosto unilaterali, ma tale sensazione è frutto di uno stile di comunicazione molto diverso dal nostro, non di irragionevolezza. Come ricordato apprezzano la chiarezza d’intenti, e non gli espedienti retorici, però non significa che non capiscano le nostre ragioni e prospettive.
La maggior parte dei sudafricani, di ogni etnia, paradossalmente non ama mercanteggiare. Raggiungere un risultato win-win è l’esito ideale di un incontro per un sudafricano e non solo teoricamente. Buona parte del tempo dell’incontro, in definitiva, la si investe a descrivere la proposta, i vantaggi e, con sincerità, anche gli eventuali punti deboli (preferibilmente corredati di potenziali soluzioni), quindi a conquistare l’interesse e la fiducia della controparte, e a trovare una sintesi dei punti di contatto sui quali costruire l’accordo, più che a parlare di sconti o trovare il modo di “strappare” un risultato.
Lo scontro diretto, in ogni caso, è piuttosto raro, e anche a causa del loro bagaglio socio-culturale, generalmente sgradito, quindi è preferibile non premerli su aree in cui si mostrino visibilmente a disagio o tantomeno provocarli intenzionalmente, questo riguarda le tematiche business, come ovviamente gli argomenti di pertinenza personale. Inoltre, le tattiche ad “alta pressione”, molto utilizzate in altri contesti, per ottenere un consenso, in Sudafrica generalmente non hanno successo.
Si noti che, particolarmente interagendo con i manager neri, può capitare che le scadenze temporali non vengano percepite come impegni realmente vincolanti, ma piuttosto come piuttosto orizzonti fluidi. Non si tratta di mancanza di serietà o di intenzioni fraudolente, quanto di un’eredità culturale tutt’ora molto caratterizzante. Occorre abilità di gestione e diplomazia nell’adeguarsi, e i risultati, anche davvero soddisfacenti, possono comunque arrivare.
Approcciarsi agli incontri
Gli incontri faccia a faccia sono ancora, quasi sempre decisivi, per fare affari in Sudafrica. Nonostante il covid abbia un po’ cambiato le abitudini (e nel Paese ha colpito duro), nell’ecosistema business nazionale, l’incontro rimane tutt’ora chiaramente preferito ai contatti a distanza, per quanto efficaci e funzionali, almeno quando si tratti di prendere decisioni. Allo stesso modo, il tradizionale biglietto da visita è preferito a scambi di informazioni più tecnologici.
Sarebbe di buon senso non proporre incontri, da metà dicembre a metà gennaio, ovvero in concomitanza con il picco dell’estate australe, e nemmeno durante le due settimane successive a Pasqua, soprattutto perché si tratta di periodi tipicamente di ferie, e verosimilmente troveremmo poca disponibilità dall’altra parte. E’ bene, come ovunque, presentarsi in orario, quantunque non è detto che la controparte ci ricambi la cortesia (vedi concetto del tempo sopra espresso).
Sebbene gli stili e i tempi di saluto varino considerevolmente, a seconda del gruppo etnico, la stretta di mano occidentale convenzionale è sempre ben accetta, in ogni circostanza, negli incontri d’affari. Giacca e cravatta per gli uomini e tailleur per le donne vanno sempre bene, ma è ampiamente diffusa e accettata una maggiore informalità (che io prediligo, ma ovviamente dipende anche dalle abitudini e dalla personalità dell’interessato).
Altri connotati comportamentali che si possono raccomandare, attengono prevalentemente al buon senso, e sono comuni a molte aree del mondo. Ovvero ci si aspetta che vengano salutati individualmente tutti i presenti nella stanza, anche quando numerosi, e che a ciascuno venga dato un biglietto da visita. Quando si ricevono i biglietti da visita, come segno di attenzione, è decisamente gradito se ci si sofferma un momento a leggerli e magari si chieda conferma della pronuncia del nome, talvolta abbastanza complesso.
Il rispetto è fondamentale, pertanto, durante le discussioni, si raccomanda di prestare tutta l’attenzione alla persona che parla, e non interrompere, in modo particolare quando vengano espresse emozioni accese; ascoltare con disposizione d’animo aperta e cortese, evitando, ad esempio, di armeggiare col proprio telefono, e possibilmente consiglierei di annotare quanto venga detto, anche quando di scarso interesse. Quando siamo noi a parlare evitiamo di mostrare preferenze verso una determinata persona e coinvolgiamo con lo sguardo tutti i presenti. Se si ritiene di muovere un rilievo critico a ciò che abbiamo ascoltato, questo deve essere sempre indirizzato all’idea esposta, e mai alla persona che la esprime.
Qualora si incontrino persone provenienti da culture tribali più tradizionali, che ancora osservino i propri usi, sarebbe saggio scoprire quale condotta si pratichi tipicamente. Potremmo, ad esempio, facilmente trovarci a dialogare con persone vestite con abiti tradizionali africani, anche in luoghi di lavoro, e sarebbe quasi certamente così ad una cena.
Qualche domanda rivolta al diretto interessato, sulla cultura e le tradizioni, non è necessariamente fuori luogo, al contrario, se espressa con educazione e sincero interesse, può essere letta come una manifestazione di apprezzata apertura mentale. In caso si sia invitati a cena, potremmo trovarci a consumare piatti abbastanza insoliti, che sarebbe bene almeno assaggiare.
Conclusioni
A coronamento di questo piccolo excursus sul Sudafrica e sulle opportunità di business che presenta, mi preme ribadire quanto sia fondamentale affrontare detto mercato preparati, e come eventuali tempi lunghi e taluni presumibili buchi nell’acqua, siano da mettere in conto. Ciò detto, quando si riesca a fare breccia, trovando il giusto registro, capendo come rapportarsi con le persone ancora prima che con le aziende, obiettivo tutt’altro che banale, si possono, non solo coltivare concrete speranze di costruire un business interessante, e a lungo termine, ma anche di “utilizzare” il Sudafrica come piattaforma di partenza per la vendita in vari altri Paesi dell’Africa australe, che al Sudafrica fanno abitualmente riferimento, oltre che di aprire un canele virtuoso verso l’intero continente, beneficiando di vantaggi reputazionali, daziari e logistici.
Saverio Pittureri
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La concorrenza sui mercati internazionali
La concorrenza e i mercati
Per qualsiasi prodotto o servizio decidiamo di proporre, in qualsivoglia mercato, uno dei fattori più impattanti con cui dobbiamo invariabilmente confrontarci è rappresentato dalla concorrenza. Se già l’attenzione sugli antagonisti costituisce una molla decisiva ai fini tattici, sul mercato domestico, quando si sposti l’ottica sul piano internazionale, tale cura va evidentemente amplificata e resa ancora più minuziosa e rigorosa.
In altre parole, sia in proiezione teorica, quando costruiamo la nostra strategia di penetrazione in un determinato Paese e canale di vendita che, all’atto pratico, quando ci misuriamo nella tenzone commerciale quotidiana, le attività della concorrenza devono essere monitorate con costanza e precisione. Non solo, si tratta anche di interpretare correttamente le informazioni raccolte e trarne le giuste indicazioni.
A tal proposito, ritengo molto importante presidiare personalmente, con una certa continuità, quel determinato mercato e, per quanto possibile, integrare le informazioni istituzionali o comunque canoniche, con le inclinazioni tangibili e persino gli umori “della piazza”, rispetto ad un prodotto o un servizio presenti. Ogni fonte, può essere preziosa per un confronto e per rintracciare dati e notizie, per quanto talvolta si possa cadere vittima di fraintendimenti, legati a stati d’animo e percezioni personali di taluni interlocutori, che non hanno evidentemente carattere di oggettività.
In primo luogo, naturalmente dovremo preoccuparci di studiare i soggetti già insediati da tempo e in concorrenza diretta con la nostra proposta, e via via gli altri più dissimili per una ragione o per l’altra. Qualora i concorrenti diretti, ad esempio, fossero totalmente assenti, non si tratterebbe necessariamente di una buona notizia, anzi il più delle volte decisamente non lo è.
Chiaramente, fa un’enorme differenza che la concorrenza principale sia costituita da players locali o piuttosto sopranazionali, la presenza di questi ultimi, in modo particolare quando si sostanzino in grandi imprese o addirittura multinazionali, condiziona invariabilmente e significativamente l’ecosistema settoriale e, con esso, i presupposti di competitività. Il che non significa che le nostre possibilità, in un quadro simile (molto comune, per altro) siano precluse, ma certamente si dovrà tenere in debito conto lo stato del mercato, e magari sfruttarne le falle e le nicchie in ombra.
Gli aspetti giuridici, di politica economica e di rapporti fra gli stati
Altri fattori di grande impatto, sono costituiti dalla cornice giuridica, dagli accordi di politica commerciale transnazionali, dal grado di regolamentazione o viceversa di liberalizzazione del mercato in oggetto (tipicamente in alcuni settori strategici, gli ostacoli regolatori si inaspriscono), o addirittura dalla presenza di forme più o meno palesi di protezionismo, in quanto, evidentemente, detti assunti, favoriscono una condizione piuttosto che un’altra in termini di attività della concorrenza.
L’orientamento generale o per meglio dire uno dei principi guida, dell’Organizzazione mondiale dei Commerci, alla quale aderisce gran parte dei Paesi del mondo (e altri 26 stanno negoziando l’ingresso, che permetterà di raggiungere la quasi totalità di quelli esistenti) prevederebbe un graduale abbattimento delle barriere tariffarie e daziarie, al fine di incentivare gli scambi internazionali. La WTO appoggia quindi il crescente ampliamente di aree sottoposte ad accordi di libero scambio, nelle quali la concorrenza internazionale possa evidentemente partire da condizioni di maggiore tutela e equità competitiva. Se i Paesi aderenti ne seguissero genuinamente lo spirito, il futuro sarebbe già delineato.
In verità, purtroppo, la materia è un po’ più complessa di così, e la disciplina internazionale è connotata dalla presenza di innumerevoli normative generali e locali, con differenze profonde, generalmente legate alle politiche economiche dei singoli Stati. In alcuni ordinamenti, ad esempio, la tutela della concorrenza si accompagna a norme antitrust, in altri, tende a privilegiare l’efficienza produttiva, in altri ancora, protegge le piccole imprese, talvolta anche a scapito della qualità oggettiva dei prodotti.
In ultimo, le relazioni fra i Paesi e le aree di influenza geo-politica, com’è tremendamente evidente nell’inquieta fase storica che stiamo vivendo, possono determinare categoricamente la possibilità di approcciare o meno un determinato mercato, a prescindere dall’adesione a trattati commerciali o dall’eventuale presenza di caratteristiche predisponenti verso il nostro prodotto. Su questo aspetto, sfortunatamente, possiamo farci poco se non attendere tempi migliori.
Un piccolo vademecum
Senza dimenticare quanto sopra, proviamo a ipotizzare una situazione abbastanza caratteristica di sostanziale libero mercato, nella quale aspiriamo a giocare un ruolo piccolo o grande, con la nostra proposta di prodotto e/o servizio.
Sarà bene essere insieme prudenti e risoluti, a seconda dei frangenti, ma soprattutto reagire con risposte dinamiche e tempestive alle sollecitazioni provenienti dai competitors che, come detto, dovremo tenere d’occhio costantemente e diligentemente.
Un canovaccio schematico, inevitabilmente approssimativo, per l’osservazione dei concorrenti, in estrema sintesi, potrebbe essere il seguente.
– quali concorrenti
– quanti
– da quali Paesi
– caratterizzazione
– da quanto tempo sono sul mercato
– ricerca di strategie commerciali, pubblicitarie, prezzi
– area di mercato in cui operano
– dimensione e forza finanziaria
– modalità di distribuzione
– prezzi di vendita
– costi stimati o noti (marginalità presunta)
– quali sono i nostri punti di forza (vantaggi competitivi da valorizzare e difendere)
– quali sono i nostri svantaggi (e come ovviare)
– nostre performances complessive rispetto alla concorrenza
– presenza di fattori impattanti endogeni o esogeni
I dati raccolti, costituiranno una base di studio parametrale fondamentale, che andrà però anche correttamente interpretato, e tradotto in azioni conseguenti, concrete e sostenibili nel tempo.
Conclusioni
Tanto più accurate saranno state la raccolta e l’elaborazione delle informazioni sui competitors, e migliore sarà stata la preparazione del progetto, e più determinata la messa a terra delle iniziative afferenti, quanto maggiori saranno le nostre probabilità di successo, senza tuttavia dimenticare la caratteristica plasticità di questo tragitto, che non prevede un punto di arrivo specifico, ma sostanzialmente l’identificazione di un’onda che andrà armonicamente cavalcata nel corso del tempo.
In ogni passaggio del nostro percorso, occorrerà sempre valutare ogni segnale e ogni indizio dell’attività dei concorrenti, per comprendere, migliorare e trovare la giusta collocazione, e le giuste modalità, in ogni senso, per la nostra offerta. Si dovrà altresì fare attenzione anche a parare le presumibili mosse di soggetti, per i quali costituiremo una minaccia che, con maggiore esperienza specifica, rispetto a noi, probabilmente si adopereranno in ogni modo per contrastare il nostro ingresso nel mercato.
Saverio Pittureri
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I risvolti dell'internazionalizzazione aziendale sul mercato domestico
Quando soffia il vento internazionale…
In vari interventi precedenti, ho richiamato ripetutamente, come l’esperienza sui mercati esteri possa riverberare, in modo fruttuoso, sul complesso della vita aziendale. La sola impagabile contaminazione culturale, già di per sé, motiverebbe l’intraprendenza internazionale, ma più pragmaticamente, è anche assodato che tale bagaglio si possa spendere efficacemente sul mercato domestico, attraverso azioni concrete, ottenendo risultati tangibili in termini di efficienza, successo e, in ultima analisi, di fatturato.
Mi piace portare ad esempio, un fenomeno curioso ed apparentemente eccentrico rispetto al tema. Gli iniziati dell’arte della vela, avranno senza dubbio sentito nominare il Café Saint Paul, un locale attivo in un porto delle isole Azzorre, nel mezzo dell’Oceano Atlantico. In questo luogo isolato, si ritiene che venga prodotta e scambiata, la più alta e innovativa conoscenza velistica al mondo, proprio perché vi si concentrano le migliori barche, di transito, provenienti da ogni angolo del pianeta, impegnate nella navigazione atlantica, che non è evidentemente una pratica di per sé banale. In quel locale, i valenti navigatori si raffrontano sulle rispettive teorie ed esperienze e da questo scambio fiorisce la magia.
Non occorrono grandi sforzi di astrazione, per comprendere come il modello sopra raffigurato, evidentemente declinato su un’angolazione peculiare, si possa adattare perfettamente alle arene economiche internazionali. Queste sono rappresentate, in massimo grado, dalle fiere, così come da ogni altra circostanza che preveda una certa aggregazione di operatori, senza trascurare, naturalmente, anche ogni singola interazione, con aziende clienti o fornitrici, che possa comunque offrirci come “effetto collaterale”, spunti interessanti e costruttivi, a patto di mantenersi aperti mentalmente e disponibili ad un confronto vero (le intenzioni, spesso purtroppo divergono dalle azioni).
I vantaggi trasferibili sul mercato nazionale
Vado ad elencare, in breve, i benefici più comuni che tipicamente si possono “incassare” sul mercato domestico, in conseguenza alle attività di internazionalizzazione, specialmente se ben svolte!
– vantaggi culturali e tecnologici: i possibili vantaggi tecnologici sono lapalissiani, quelli culturali possono riguardare l’organizzazione aziendale, le modalità logistiche e distributive, le competenze desiderabili delle risorse umane, ma anche le tendenze globali, gli orientamenti produttivi e molto altro.
– ricadute sull’immagine e sulla comunicazione: è evidente che la presenza su altri mercati trasferisca sull’impresa un aura di dinamismo e modernità, oltre che, evidentemente, di successo. Un insieme di impressioni e suggestioni, che esercitano un impatto virtuoso sull’immagine aziendale, sulle scelte dei clienti, nonché sui contenuti e l’efficacia della nostra comunicazione domestica e non.
– economie di scala: al netto di eventuali adattamenti di prodotto, è altamente probabile che l’aumento dei volumi venduti, possa generare vari tipi di economie di scala, comprese le condizioni negoziate con i fornitori, la riduzione dei costi unitari, l’accelerazione degli ammortamenti, ecc… voci che consentono maggiori marginalità e/o maggiore competitività sul mercato nazionale
– percezione di capacità e di forza: associato a quanto richiamato sull’immagine poco sopra, quasi sempre si genera anche una percezione di forza e solidità, che tendenzialmente si rivela suffragata dai fatti, e tale percezione può aiutare sensibilmente nell’ottenimento di finanziamenti, nel reclutamento di professionalità eccellenti, nella valutazione dell’azienda, sia sul mercato azionario, quando sussistano le condizioni, che in funzione di una eventuale stima di quote o assets.
– possibile innesto di nuovi prodotti: gli inputs provenienti da altri mercati, possono suggerirci l’immissione in commercio di nuovi beni, che in alcuni casi ci mettiamo nelle condizioni di produrre direttamente e in altri, magari, possiamo acquistare dai fabbricanti, con condizioni protette per il nostro mercato nazionale.
– possibili sinergie con altre imprese di filiera: da diversi anni, le istituzioni nazionali incoraggiano, in vari modi, l’aggregazione fra le imprese, con l’obiettivo di proporre consociazioni virtuose e funzionali ad offrire prodotti e tecnologie di filiera, e/o a creare una certa “massa critica”, in grado di competere con concorrenti esteri, tendenzialmente di maggiori dimensioni. Tali alleanze, possono trasferirsi, con varie modalità, anche sul mercato domestico, con ottimi riscontri per i contraenti.
– maggiore potere contrattuale con le catene distributive: è abbastanza intuitivo, come l’accresciuta forza e l’accresciuto appeal dell’impresa, possano spostare determinati rapporti di forza, a suo vantaggio, a maggior ragione quando le catene distributive operino su un piano internazionale, e quindi abbiano interesse ad una collaborazione ampia e articolata, di tipo win-win, con il produttore.
A fronte degli indubbi giovamenti afferenti al processo di internazionalizzazione, è corretto riferire contestualmente anche l’esistenza di qualche potenziale rischio, che prevalentemente si può innescare in fase di investimento, ovvero prima di ottenere dei ritorni di una certa consistenza. Detta alea di rischio, si sostanzia, soprattutto qualora il business plan non sia ben calibrato, in una inevitabile distrazione di risorse dal mercato interno, che può, in particolari casi, impattare negativamente sulla salute dell’azienda.
Conclusioni
In conclusione, le attività di internazionalizzazione, programmate e gestite appropriatamente, non solo si confermano raccomandabili, per le ovvie finalità di espansione e consolidamento della crescita aziendale, ma anche per le molte possibili ricadute, di grande rilevanza, sul mercato interno.
Il mondo economico, comunque la si pensi, da molti anni, non funziona più a compartimenti stagni, nemmeno per le piccole realtà, e la loro capacità di adattarsi ai nuovi scenari geopolitici, la loro flessibilità, la loro capacità di innovazione, la loro cultura business, possono fare la differenza, sia per quanto concerne il conseguimento di risultati su scala internazionale, che in modo correlato e conseguente, anche sul palcoscenico nazionale.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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E’ meglio un solo listino prezzi adattabile o listini diversi per ciascun mercato estero?
Cosa scegliere
Da quando la globalizzazione interessa anche le piccole e medie imprese, è diventato motivo di confronto frequente se sia conveniente proporre, in ambito b2b, un solo listino prezzi per tutti i Paesi del mondo, sul quale operare adattamenti, o viceversa, si ottengano migliori risultati diversificando di partenza i listini. Non esiste una “regola giusta” e vi sono esempi di aziende capaci di realizzare crescite impetuose nell’uno e nell’altro modo, con entrambi gli approcci, percepite come corrette e moderne.
La scelta, in verità, non è sempre possibile, e vi sono mercati e/o circostanze per cui ci viene espressamente richiesto un listino di prezzi netti o un listino comunque personalizzato secondo determinati dettami, per ragioni di strategia commerciale. Detta linea di condotta è più comune nei mercati del nord Europa, rispetto ad altre aree del mondo, ma non si può escludere anche altrove. In altri casi, tipicamente settoriali, o legati ad un determinato canale di vendita, vigono strutture di sconti consolidate, alle quali è più o meno inevitabile conformarsi, e questo requisito condiziona giocoforza la costruzione del listino.
Allo stesso modo, per evidenti motivi, non è possibile, o meglio è molto complesso, gestire listini diversi, quando si venda mediante e-commerce internazionale, sia con iniziativa diretta che mediata da piattaforme specializzate.
Di cosa tenere conto
Qualora invece, vi sia la facoltà di decidere la linea di condotta , il più delle volte, io propendo per adottare lo stesso listino, nei vari mercati, naturalmente plasmato e “ammortizzato” attraverso una attenta, e non casuale, politica personalizzata di sconti, abbuoni, offerte, premi, “pacchetti” di acquisto, riduzioni proposte sulle quantità, sulle forme di pagamento, su particolari condizioni commerciali, ecc..
La controindicazione principale della diversificazione, deriva dal sostanziale agio con il quale i nostri clienti possano venire in possesso di un listino applicato in un altro Paese, ovvero possano incontrarsi personalmente in ambiti di concentrazione di operatori, come le fiere o i congressi e, confrontandosi, venire a conoscenza delle condizioni vigenti in altri mercati.
La scoperta della probabile sperequazione fra i listini, potrebbe facilmente dare adito a contestazioni e fratture insanabili, dalle quali dobbiamo cercare di difenderci con ogni mezzo, considerando che un distributore estero affidabile, formato e fidelizzato, è un patrimonio inestimabile e che non possiamo permetterci di sperperarlo per una leggerezza.
L’adozione di un unico listino viceversa, se ben gestito, ci concede l’opzione di appropriate individualizzazioni sui prezzi, mediante i provvedimenti sopra visti ma, nel contempo, ci consente anche di motivarle con ragioni solide che trascendano ogni possibile confronto transnazionale.
I riferimenti utili
Evidentemente, nel momento i cui si debba costruire un listino, che questo sia formalmente specifico, come invece “mascherato” all’interno di una sola intelaiatura omogenea, bisogna tenere conto di molti fattori per calibrarne appropriatamente i valori, in modo che la nostra proposta risulti sostenibile, congrua per la qualità percepita, e con gli obiettivi strategici prefissati, per il mercato in questione.
Senza ripetere concetti già sviscerati nel precedente articolo. incentrato proprio su come definire i prezzi di vendita, ci limitiamo a evidenziare che l’utilizzo di un listino unico, renda più semplice, in ogni senso, anche l’introduzione di eventuali aggiustamenti, in una direzione o nell’altra, attraverso banali correttivi peculiari, non di rado necessari, in un nuovo mercato o in una situazione economica instabile.
Fatte salvo le valutazioni puntuali sul contesto, dalle quali non possiamo prescindere, alcuni parametri qualificati di ordine generale, sul costo della vita e l’indice dei valori locali, potrebbero aiutarci ad orientarci sui prezzi più idonei, soprattutto in una prima fase, senza evidentemente considerare di rimettervisi pedissequamente.
Uno fra i più noti ed affidabili fra i suddetti parametri, è il “big mac index”, inventato dall’Economist nel 1986, per stabilire se il tasso di cambio valuta vigente, sia corretto, partendo dall’assioma che tale indicatore dovrebbe progressivamente spostarsi, verso il tasso che eguaglierebbe i prezzi di un identico paniere di beni e servizi (in questo caso, un hamburger), in due paesi qualsiasi.
E’ interessante osservare, come per un bene di larga diffusione, quale il celeberrimo panino, costituito da identici ingredienti, consumato con le stesse modalità, in ambienti sostanzialmente comparabili, ma in ecosistemi macroeconomici molto diversi, possano sussistere variazioni davvero significative nei prezzi proposti, (vedi tabella) i quali, per convenzione e comodità di confronto, vengono tradotti in un’unica valuta: il dollaro USA.
Conclusioni
La scelta fra un listino unico flessibile o vari listini calibrati sui diversi mercati, salvo alcune circostanze, solitamente non è tassativa, e può risentire anche di abitudini specifiche di settore o di mercato, che trascendono le nostre considerazioni tattiche e/o razionali.
Una delle strategie maggiormente consigliabili, in ogni caso, per un determinato mercato, è quella di generare un qualche tipo di distinzione nelle caratteristiche del prodotto, e/o dei servizi annessi, che spesso è richiesta al fine di fare breccia, e adeguarsi al tipo di domanda presente e, nel contempo, può giustificare una legittima calibrazione ad hoc del prezzo.
Quando non emerga un motivo di intervento (ma, ripeto, quasi sempre un adattamento si rivela opportuno a prescindere dalle politiche di prezzo) potrebbe essere sufficiente operare sull’imballo, oppure su una caratteristica fisica o tecnica marginale del prodotto, cercando naturalmente di non scompensare il giusto equilibrio, fra l’impatto di costi ed energie che possa richiedere una qualsivoglia modifica, ed il beneficio generato in termini di libertà commerciale.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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