Il CRM è indubbiamente uno dei migliori amici dell’export manager, vediamo perché
Cos’è il CRM
Per i pochi che ancora non lo sapessero, CRM è l’acronimo di Customer Relationship Management e si tratta di una categoria di applicazioni, pensata e costruita per organizzare le informazioni commerciali e le attività da svolgere con i clienti attivi, con quelli dormienti e con quelli potenziali.
Nasce, in forma embrionale, negli anni ’80, come robusto database strutturato per convogliare in un unico ambiente molte informazioni, e solo con il nuovo millennio supera la funzione originaria, comincia a proporre soluzioni più efficaci per supportare una relazione stabile e duratura con il cliente, con l’ovvia finalità di razionalizzare l’interazione e di massimizzare i profitti.
Un CRM può avere portata, ramificazioni e potenza molto diverse. Ad un estremo, è in grado di prevedere un gran numero di operazioni automatizzate online, all’altro può semplicemente fungere come incisivo promemoria per le attività off line. All’interno di tale amplissima forbice si declina, con flessibilità, una quantità infinita di funzioni e opzioni pienamente personalizzabili. Il denominatore comune, a prescindere dalla dimensione adottata, è che si semplifichino enormemente i processi aziendali e si possa allineare e coordinare in un attimo il lavoro di molte persone che condividano appunto l’accesso al programma.
Cosa fa un CRM
Come accennato il CRM, in qualche modo rivoluziona il modo di operare nell’ufficio estero. Io sono solito dire che una volta abituati ad usarlo, ci si dimentichi degli altri programmi, oltre che dei famigerati faldoni cartacei, e non ci si debba più aggrappare magari a file di ogni tipo, ad appunti sparsi o alla memoria. Evidentemente, da un lato la sua utilità concreta dipende dalla qualità e quantità delle informazioni che vi si inseriscono, e dall’altro dall’adeguatezza della struttura e dei compiti previsti, alla realtà aziendale che se ne serve.
Giusto per fare qualche esempio concreto, Amazon utilizza un potentissimo CRM, che si integra alle procedure di acquisto e che, fra le altre cose, ci ricorda cosa abbiamo acquistato di recente, quali prodotti vengano associati, da altri utenti, a quello che si sta osservando, quando sia l’ultima volta che abbiamo valutato una certa offerta, quali siano i prodotti alternativi, con i loro pregi e difetti, quali siano le opinioni espresse dagli acquirenti, da quanti mesi non venga acquistato un prodotto abituale e molto altro.
Lo stesso CRM è in grado di inviarci un ricapitolo delle nostre attività, un promemoria di prodotti di nostro interesse, una promozione agli acquisti, in base ai nostri gusti e alle nostre osservazioni e, di nuovo, molto altro. Immagino che tutti o quasi i lettori si ritrovino in esperienze di questo tipo, anche con altri siti molto noti. Molte di queste funzioni, in una proporzione adeguata alle dimensioni e ai bisogni di una PMI, sono oggi ampiamente attivabili, e anche a costi ragionevoli.
Non è un caso quindi che questa categoria di programmi, stia conoscendo una imperiosa crescita, anche in Italia, tanto che l’offerta è oramai molto ampia e varia e prevede sia l’acquisto che l’abbonamento al servizio. È sufficiente una piccola ricerca web per trovare numerose proposte e demo da esplorare. Consiglierei di investire un certo tempo e una certa attenzione nella scelta, poiché il CRM si candiderà a diventare uno strumento determinante (è possibile comunque importarvi vari tipi di database e migrare da un sistema a un altro, all’occorrenza).
All’ atto pratico
Un CRM, quando si operi su più mercati e magari con diversi addetti dedicati, consente con un semplice clic, di trovare in forma coordinata, moltissimi dati, di ogni genere, sul cliente, sui rapporti esistenti, le comunicazioni (mail e telefonate intercorse), i report di eventuali incontri, le foto scattate, le caratteristiche dei prodotti richieste, le abitudini di acquisto e di pagamento, gli eventuali contenziosi (è opportuno e semplice creare un collegamento con il gestionale), cosa il cliente ritenga importante, chi siano i decisori dell’azienda, i dati finanziari, e qualsiasi altra notizia utile per il rapporto, dal compleanno di un figlio, ad un’allergia alimentare, alla squadra del cuore del CEO.
Ogni informazione che vi avremo inserito (non entro, in questa sede, nel merito delle autorizzazioni legate alla privacy, che non vanno ovviamente trascurate) ci verrà restituita in modo organizzato ed efficace. Si ottiene così un sostanziale unico pannello di controllo, molto potente e flessibile, mediante il quale stabilire le azioni da farsi, sia commerciali che di marketing.
Ovviamente potremo raccogliere i dati sotto molte forme e categorie, a seconda del bisogno, creare alert per ricordare ai clienti un determinato evento, scoprire quali siano le leve (prezzo, prodotto, stagionalità, tempi di consegna, ecc…) attraverso le quali un’offerta venga accettata o rigettata. Spostare l’analisi su un determinato soggetto, una categoria di clienti, o invece un intero segmento di mercato.
Non solo CRM, e CRM customizzato
Come si sarà già intuito il CRM si può facilmente collegare a tutti i più comuni programmi di posta elettronica e, in tal modo, mostrare tutte le mail inviate e ricevute per ogni cliente. Si può interfacciare anche con Linkedin, con programmi di invio newsletter (operazione che la maggioranza dei CRM svolgono anche autonomamente), e sincronizzarsi con il calendario di Google, oltre a svariate altre interazioni.
Le aziende più evolute, ora tendono a preferire proprio CRM sempre più personalizzabili e integrabili, ed è un chiaro segno di consapevolezza e di valorizzazione dello strumento. Un percorso caratteristico, per una PMI, prevede una fisiologica curva di apprendimento, che può essere catalizzate da un corso ad hoc, successivamente, quasi sempre, nel corso di alcuni mesi, con l’uso quotidiano, si evidenziano caratteristiche e soluzioni desiderabili. Tali connotati possono essere introdotti (o modificati) al fine di rendere il programma più aderente alle esigenze specifiche, di settore o peculiari dell’impresa.
Dipendenti e CRM
Certamente il CRM si può prendere in considerazione anche per micro imprese, conosco persino diversi professionisti che ne fanno uso, senza avere alcun dipendente, ma è innegabile che dia il meglio di sé quando le informazioni possono essere condivise, fra vari soggetti. Naturalmente, per contro, tanto più si amplia la platea di fruitori quanto più potrebbe essere richiesto di limitare gli accessi in alcune aree sensibili, solo ad alcuni utenti, e fortunatamente si tratta di un’operazione non solo possibile ma banale da attivare.
Va anche ricordato che il CRM può essere prezioso anche per raccogliere il patrimonio di relazioni e contatti di un ogni commerciale che, diversamente, qualora lasci l’azienda, di sovente, non trasferisce in parte o in toto il proprio bagaglio di informazioni e contatti, accumulato in anni (o al massimo si limita ad uno sbrigativo passaggio di consegne). Con l’adozione di un CRM, ed un uso appropriato dello stesso, questo non accade, non va perso alcunché, e l’azienda ovviamente ne trae un enorme beneficio.
Evidentemente, va ben compresa e condivisa l’utilità portentosa di questo strumento, che si può utilizzare su qualsiasi device e ovunque nel mondo, basandosi sulla tecnologia cloud. Qualora capiti che venga adottato da persone poco inclini al cambiamento, che non ne capiscano realmente le potenzialità, o magari che si scoraggino di fronte ad un minimo di impegno iniziale per familiarizzarvi, allora il CRM può essere percepito come “un’incombenza supplementare” (purtroppo mi sono capitati casi del genere), quindi sottoutilizzato o sbrigativamente archiviato.
Conclusioni
Viviamo un’epoca di frenetica e sbalorditiva trasformazione digitale, che accelera i tempi, esige nuove competenze, e chiaramente rende il lavoro più efficiente e remunerativo. Fra gli strumenti che si stanno imponendo, nel nostro Paese, dopo averlo fatto in USA e nel resto dell’Europa occidentale, vi è il CRM. L’adozione di questo programma può davvero diventare un prezioso alleato, quasi irrinunciabile, una volta scoperto, per un moderno ufficio export.
Naturalmente il solo introdurre un CRM non basterà a vendere di più, occorre utilizzarlo bene, sistematicamente, e nel pieno delle sue enormi possibilità che, comunque, come destino di ogni applicazione, continueranno a svilupparsi e migliorare nel tempo. Non sarei stupito, a tal proposito, se fra qualche anno, i pochi resistenti che ancora non lo utilizzassero, finissero per scontare un gap negativo di velocità, organizzazione e precisione, che gli costi caro in termini di reputazione e fatturato.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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Export: tutto quello che avreste voluto sapere sul prodotto e non avete mai osato chiedere! Parte II
Restare vigili e attivi
Dando seguito alle considerazioni sul prodotto, in rapporto alle attività di vendita internazionale, tratteggiate lo scorso mese, analizziamo brevemente come si possa gestire una seconda fase.
Una volta presentati i prodotti sul mercato, e ottenuti i primi riscontri, benché si tratti di un successo importante, non avremo concluso i nostri sforzi. Occorrerà, per cominciare, verificare l’effettivo richiamo della nostra proposta sui clienti, e naturalmente ci si affiderà, in parte, alle osservazioni raccolte dai nostri partner locali, ma non solo.
E’ infatti bene trovare un sistema per monitorarne direttamente e con attenzione l’andamento, sia per non deputare il giudizio esclusivamente a pochi soggetti, che per essere parte in causa responsabile e consapevole, di tale delicato passaggio.
La collaborazione con i distributori
Evidentemente, sia nelle modalità di sondaggio, che in quelle di eventuale intervento, quando si siano strutturati rapporti di distribuzione, ovvero l’opzione più frequente per le PMI, è bene evitare di prevaricare i partner in questione, o semplicemente pontificare nei riguardi della loro attività, poiché da un lato rischieremmo di compromettere i rapporti e, dall’altro, verosimilmente la loro capacità di comprensione del substrato economico-commerciale locale si rivela fatalmente superiore alla nostra.
Un approccio costruttivo e solitamente ben accetto, è quello di prevedere delle collaborazioni di marketing, incluse nell’accordo contrattuale primario, se possibile cofinanziate. In tal modo otteniamo un duplice scopo virtuoso, da un lato quello di motivare il nostro partner ad investire sui nostri prodotti, con ovvi riverberi fattivi, e dall’altro quello di facilitare consensualmente la nostra presenza, in periodico affiancamento, alla luce di un interesse speciale per quel mercato, e le sue leve promozionali peculiari a cui ispirarsi.
Fare i compiti a casa
Nella maggioranza dei casi, l’esperienza sul campo, nel tempo, suggerisce qualche correzione di strategia rispetto al prodotto e, non di rado, rivela anche la possibilità di cogliere alcune opportunità insperate, grazie ad adeguamenti di vario tipo, conoscenza di leggi, sfruttamento di mode o rapide integrazioni tecniche.
Talune fra le attività e le constatazioni che possono emergere più comunemente, e che pilotano verso riflessioni di “secondo livello”, sono riepilogate qui di seguito:
– Monitoraggio costante della qualità del prodotto e/o del servizio
– Flessibilità produttiva (rapida reazione a sollecitazioni di mercato di modifiche o maggiori quantità)
– Stadio del ciclo di vita del prodotto (pionieri / piena diffusione / declino / rinnovamento, prodotto soggetto a mode, intervento di opinion leaders o influencer, ecc…)
– Velocità di inserimento di eventuali innovazioni tecnologiche (per adeguamento alla concorrenza o intercettazione di richieste di mercato esplicite o implicite)
– Personalizzazione spinta (alta qualità e duttilità, adattamenti mirati, facoltà di proposta “custom made”, “on demand”, ecc…
– Grado di saturazione degli impianti / limite del potenziale della mano d’opera (attenzione a non farsi ingolosire da progetti sovradimensionati e/o intempestivi, ovvero ordini che non si riescano ad evadere con ricadute economiche e reputazionali)
– Eliminazione dalla gamma di prodotti “banali” e a basso valore aggiunto (solitamente ci rendono perdenti per il prezzo, meglio spingere sulla creatività, lo stile, il design, l’originalità)
– Rapporto fra costi fissi e variabili (se il rapporto è sbilanciato, occorre raggiungere considerevoli volumi di vendita o può non convenire perseverare; talvolta si può tendere ad una maggiore standardizzazione per abbattere i costi ma ciò evidentemente contrasta con le opzioni di personalizzazione auspicabili)
– Margini di guadagno della distribuzione (ad esempio in Italia c’è molto più margine che in Germania; non c’è omogeneità fra i Paesi come fra i settori)
– Limiti alle importazioni (necessità di licenze o autorizzazioni, contingentamenti e protezionismi vari)
– Tendenza al “just in time” (nel qual caso occorre organizzarsi per detenere pochissimo stoccaggio e accorciare i tempi di produzione e distribuzione)
– Da global a glocal (la sensibilità di alcuni settori e molto maggiore rispetto ad altri, nel caso di una piccola azienda gli eventuali adattamenti saranno congrui alle possibilità)
Conclusioni
Per l’ennesima volta, ricordiamo come le attività di internazionalizzazione vadano intese in un’ottica dinamica e in costante divenire, e che non paghi adagiarsi sugli eventuali allori, il che ovviamente non impedisce di darsi degli obiettivi parziali correlati a step temporali, da verificare in corso d’opera, nonché di rallegrarsi legittimamente per il raggiungimento degli stessi.
È bene tuttavia imparare a riconoscere precocemente i cambiamenti realmente rapidi che avvengono nei mercati attuali e conformarvisi con intelligenza e flessibilità, quanto più possibile, organizzando le contromisure per rimanere competitivi e fare la differenza.
È raccomandabile e funzionale anche coltivare i rapporti personali, e frequentare periodicamente il mercato bersaglio, poiché dal confronto con altri operatori attivi e lungimiranti, e dall’osservazione della realtà quotidiana, spesso sorgono gli stimoli per comprendere in anticipo le dinamiche che caratterizzeranno quel contesto.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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Fare business in Sudafrica. Risvolti interculturali, economici e commerciali – Parte I
Qualche connotato identificativo…
Avendo viaggiato molto nel corso della vita, non è raro che mi venga posta la domanda su quale sia il mio Paese preferito. Onestamente, non do sempre la stessa risposta, che dipende anche un po' dal momento e dallo stato d'animo, ma diciamo che, con una certa ricorrenza, rispondo trasognato: il Sudafrica!
Una nazione con un’estensione territoriale pari a circa 4 volte quella italiana, per una popolazione invece non dissimile (intorno a 60 milioni), ma forte di una proiezione demografica molto più espansiva e vitale, rispetto alla nostra. Oltre il 65% degli abitanti è in età professionalmente attiva, e il 60% ha meno di 30 anni.
Il Sudafrica, indipendente dal 1946, è una repubblica parlamentare, benché “ibridizzata” con una caratteristica tipica di alcune repubbliche presidenziali, quella di vedere congiunte la carica di capo dello Stato con quella di primo ministro, in un solo soggetto, il che evidentemente concentra un grande potere su tale figura. La persona che incarna entrambe le cariche, dal 2018, è Cyril Ramaphosa. Da un punto di vista amministrativo, il Paese si suddivide in 9 province: Limpoo, Gauteng, Mpumalanga, Kwazulu-Natal North West, Free State, Northern Cape, Western Cape e Eastern Cape. Vi sono ben 3 distinte capitali, Pretoria è quella amministrativa, Città del Capo la centrale legislativa e Bloemfontein la capitale giudiziaria.
Abbracciato da due oceani, il Paese, ha caratteristiche climatiche davvero molteplici e singolari e, notoriamente offre, peculiarità naturalistiche pressoché uniche, con ambienti che vanno dalla foresta alla savana, dalla steppa, alla macchia di tipo mediterraneo, non mancano regioni montuose verdissime con vette oltre i 3000 metri, e vere e proprie aree desertiche di estensione non trascurabile. In molti habitat protetti e parchi nazionali, si può incontrare una incredibile moltitudine di animali, che popola le fantasie degli appassionati di mezzo mondo (me compreso).
Purtroppo, il rovescio della medaglia di un’oggettiva meraviglia abbacinante, vede Il Sudafrica (a causa di uno sviluppo disordinato e sregolato, e del poderoso processo di inurbamento), quale maggiore inquinatore del continente africano, e il quattordicesimo al mondo, in termini di emissioni di carbonio. Nel 2019, il governo ha introdotto una carbon tax per cercare di incoraggiare le imprese a compiere sforzi in tale direzione. Sebbene sostenuta dalle organizzazioni ambientaliste, questa iniziativa è ancora considerata insufficiente e poco dissuasiva.
Un Paese complesso
Ho cominciato a frequentare il Sudafrica, con discreta assiduità, fra il 2006 e il 2007, sulla scorta dell’intuizione avuta, al tempo, da una cliente e amica, sulle potenzialità del Paese, uscito da pochi anni da un incubo di spregevole inciviltà, durato 46 anni, e tristemente noto come apartheid. L’assegnazione dei campionati del mondo di calcio del 2010, e l’ingresso formale, nello stesso anno, nel novero dei Paesi emergenti più promettenti (il famoso acronimo Brics), cambiarono la percezione internazionale del Sudafrica, e non fecero che legittimare e rafforzare il suddetto progetto. Detto incarico, mi portò, per anni, a diventare un habitué delle principali città, a conoscere centinaia di persone, e a conservare un forte legame con la nazione arcobaleno, che ha resistito fino ad oggi.
A quel tempo, era un Paese luminoso e vitale, come la caldana di un vulcano, ma altrettanto rischioso e instabile. Nelson Mandela e l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, erano i due fari, ai quali la giovanissima nazione finalmente “normalizzata”, si aggrappava per superare i marosi della riconciliazione. Madiba aveva compiuto una specie di miracolo, impensabile fino a pochi anni prima, ma le grandi disparità economiche e il sordo rancore, accumulato per tanti anni di aberrante discriminazione, avevano lasciato una polveriera innescata, alla quale bastava pochissimo per generare esplosioni qua e là.
Essere bianchi e, per giunta poco esperti delle regole comportamentali locali, in detto quadro, costituiva già di per sé un gravissimo rischio, nella frequentazione di molte zone, e l’impatto con cui mi confrontai, in effetti, fu abbastanza scoraggiante.
I borghesi vivevano all’interno di compound difesi da guardie, cani e filo spinato, mentre sorgevano baraccopoli sterminate, chiamate "township" ai margini delle città. Gli esercizi commerciali, di qualunque genere, erano protetti da cancelli e vetri antiproiettile, e occorreva ottenere il benestare del negoziante per accedervi. I noleggiatori di auto, a Johannesburg, raccomandavano di non fermarsi al rosso, la notte, e la stragrande maggioranza dei miei amici e conoscenti, di ogni etnia, possedeva armi, che spesso e volentieri, teneva col colpo in canna, anche nel cruscotto dell’auto.
Il mal d’Africa
Una volta “prese le misure” però, ne fui irrimediabilmente conquistato. E’ uno dei pochi posti al mondo dove si possa partecipare ad un meeting di lavoro, in un ambiente confortevole e modernissimo e, in pausa pranzo, raggiungere i 1000 metri di quota in funivia, per percorrere un sentiero mozzafiato, oppure scegliere un giro in barca, e con un po' di fortuna, incontrare balene, squali, foche e pinguini.
Divenni amico di diverse persone incontrate per lavoro, scoprendo anche il pregiudizio “alla rovescia”, dei neri verso i bianchi. Un amico che stimo, dopo alcuni anni di frequentazione, una sera, a seguito di molte risate e molte birre, si lasciò andare, e mi definì davvero in gamba…per essere un bianco! L’amicizia, letteralmente conquistata, con alcuni sudafricani neri, mi ha permesso di conoscere il Paese da una prospettiva realistica, e inaccessibile a chi ci capiti per turismo, ma anche alla stragrande maggioranza dei sudafricani bianchi.
Si parlano 11 lingue ufficiali, due delle quali, l’inglese e l’afrikaans, scorie del colonialismo europeo. e 9 lingue indigene, che hanno areali preferenziali di diffusione, ovviamente, ma non esclusivi (oltre a molti dialetti…). Per cui può capitare che l’esordio di un incontro fra sconosciuti (neri), possa essere bizzarro, in quanto, tipicamente, uno degli interlocutori esordisce in una lingua e, qualora l’altro non ne sia ben padrone, si passa immediatamente ad un’altra, attraverso rapidi e sapienti accenni rivelatori, viene infine trovata la soluzione più confacente per entrambi; pochi secondi, in concreto, ma realmente imperdibili!
I commerci internazionali
Il Sudafrica, per varie ragioni, rappresenta un referente politico e commerciale fondamentale, per l’intero continente africano, per l’emisfero australe e per l’ecosistema Commonwealth. Con un equilibrio di contrappesi tutt’altro che banale, il Paese mantiene buoni rapporti (dal termine dell’apartheid), con gran parte del mondo. Per l’Unione Europea, ad esempio, è il partner commerciale africano più importante, grazie anche a progressive liberalizzazioni degli scambi, e benché sia stato spodestato, da tempo, dal primato continentale del PIL (ora assomma "solo" il terzo dell’Africa), il Paese continua a rappresentare un polo economico, che vale oltre un terzo del PIL dell’intera Africa australe.
Il Paese poi, riesce a mantenere una sostanziale equidistanza, fra le superpotenze economiche, e gestisce perciò rapporti saldi con gli USA, come con la Cina. Già 15 anni fa, la Cina si era mossa in forze, costruendo, per conto del governo locale, interi quartieri, autostrade, ponti, infrastrutture di vario genere, spesso accettando accordi di “counter trade”, ovvero ricevendo in cambio delle prestazioni offerte, materie prime e non denaro. Evidentemente, detta condizione vantaggiosa, insieme ad altri benefici irresistibili per l'acquirente (rapidità d'azione, scarsa burocrazia, regole molto ridotte), hanno aperto la strada ad un rapporto molto robusto e articolato e, non a caso, tutt’ora la Cina è il primo partner del Sudafrica.
Sudafrica e Italia
Detto questo, c’era è continua ad esserci, una grande curiosità verso l’Italia, e beneficiamo di un'indubbia fascinazione "gratuita", generata dai nostri prodotti. Sono molto richiesti gli arredi, ma anche il cibo, l’abbigliamento, gli accessori di moda, e alcune eccellenze lussuose e trasversali. Godono tuttavia di ottima reputazione, anche molti prodotti di tecnologia, di meccanica, del settore automotive, prodotti farmaceutici e dispositivi medicali, fertilizzanti, prodotti ceramici, cosmetici di alta qualità, attrezzature agricole, oltre a vari altri.
In termini meramente percentuali, l’Italia, come aggregato, non ha un peso particolarmente significativo, per le esportazioni verso il Sudafrica ma, come accennato, sono presenti alcune realtà di vasto e consolidato successo, e certi settori sono indubbiamente più prosperi di altri. L’Italia, mantiene anche un notevole appeal per quanto riguarda le arti, la cultura e lo sport (in modo particolare il calcio). Le stagioni, come noto, sono invertite, il fuso orario è identico, il che offre rilevanti vantaggi nelle comunicazioni. Johannesburg e Cape Town, sono raggiunte regolarmente da alcune compagnie aeree europee, dall’Italia il volo dura circa 10/12 ore.
Nonostante le buone premesse di cui sopra, il successo nel mercato sudafricano, è tutt’altro che semplice. Sia per ragioni di intricata interpretazione interculturale, come di avvicinamento ad un ambiente business con caratteristiche e paletti, molto diversi e lontani dalle nostre abitudini. E’ da segnalare che il Paese rappresenta un hub di riferimento per tutta l’Africa subequatoriale e, per certi aspetti, per l’intero continente, quindi riesporta una porzione non irrilevante dei beni importati dall’Italia, in quanto può vantare strutture logistiche, organizzazione imprenditoriale e know-how adeguati, e non altrettanto presenti in altri mercati della regione.
Verso l’Italia invece, il Sudafrica esporta principalmente risorse naturali, fra le quali materie prime di varia natura, minerali, molti metalli, pietre preziose, prodotti alimentari, pellami, prodotti energetici, lana, frutti e cereali, e persino numerosi sottoprodotti. Sono infine presenti anche particolari nicchie di eccellenza assoluta, in grado di attirare attenzione planetaria, quindi anche dell'Italia.
Conclusioni
Ho cominciato, un po’ in ordine sparso, a presentare un Paese che conosco bene e amo profondamente. Un Paese certamente complicato, ma che offre opportunità straordinarie per le imprese italiane; a condizione, evidentemente, che comprendano alcune criticità molto incidenti, e sappiano proporsi con prodotti, servizi e, soprattutto, un approccio consono al contesto economico e socio-culturale che incontrano.
Nonostante le oggettive difficoltà incontrate dal Sudafrica, negli ultimi anni, sia per motivi “endogeni” che “esogeni”, Goldman Sachs, la terza banca d’affari, più importante al mondo, ha scelto, di recente, di investire colossali capitali nel Paese, ritenendolo ancora un mercato emergente di enorme potenziale, e in questo momento sta difendendo la propria scelta, a colpi di studi e proiezioni scientifiche. Riprenderò, nel prossimo articolo, da dove ci interrompiamo oggi.
Saverio Pittureri
Easy Trade
E’ meglio un solo listino prezzi adattabile o listini diversi per ciascun mercato estero?
Cosa scegliere
Da quando la globalizzazione interessa anche le piccole e medie imprese, è diventato motivo di confronto frequente se sia conveniente proporre, in ambito b2b, un solo listino prezzi per tutti i Paesi del mondo, sul quale operare adattamenti, o viceversa, si ottengano migliori risultati diversificando di partenza i listini. Non esiste una “regola giusta” e vi sono esempi di aziende capaci di realizzare crescite impetuose nell’uno e nell’altro modo, con entrambi gli approcci, percepite come corrette e moderne.
La scelta, in verità, non è sempre possibile, e vi sono mercati e/o circostanze per cui ci viene espressamente richiesto un listino di prezzi netti o un listino comunque personalizzato secondo determinati dettami, per ragioni di strategia commerciale. Detta linea di condotta è più comune nei mercati del nord Europa, rispetto ad altre aree del mondo, ma non si può escludere anche altrove. In altri casi, tipicamente settoriali, o legati ad un determinato canale di vendita, vigono strutture di sconti consolidate, alle quali è più o meno inevitabile conformarsi, e questo requisito condiziona giocoforza la costruzione del listino.
Allo stesso modo, per evidenti motivi, non è possibile, o meglio è molto complesso, gestire listini diversi, quando si venda mediante e-commerce internazionale, sia con iniziativa diretta che mediata da piattaforme specializzate.
Di cosa tenere conto
Qualora invece, vi sia la facoltà di decidere la linea di condotta , il più delle volte, io propendo per adottare lo stesso listino, nei vari mercati, naturalmente plasmato e “ammortizzato” attraverso una attenta, e non casuale, politica personalizzata di sconti, abbuoni, offerte, premi, “pacchetti” di acquisto, riduzioni proposte sulle quantità, sulle forme di pagamento, su particolari condizioni commerciali, ecc..
La controindicazione principale della diversificazione, deriva dal sostanziale agio con il quale i nostri clienti possano venire in possesso di un listino applicato in un altro Paese, ovvero possano incontrarsi personalmente in ambiti di concentrazione di operatori, come le fiere o i congressi e, confrontandosi, venire a conoscenza delle condizioni vigenti in altri mercati.
La scoperta della probabile sperequazione fra i listini, potrebbe facilmente dare adito a contestazioni e fratture insanabili, dalle quali dobbiamo cercare di difenderci con ogni mezzo, considerando che un distributore estero affidabile, formato e fidelizzato, è un patrimonio inestimabile e che non possiamo permetterci di sperperarlo per una leggerezza.
L’adozione di un unico listino viceversa, se ben gestito, ci concede l’opzione di appropriate individualizzazioni sui prezzi, mediante i provvedimenti sopra visti ma, nel contempo, ci consente anche di motivarle con ragioni solide che trascendano ogni possibile confronto transnazionale.
I riferimenti utili
Evidentemente, nel momento i cui si debba costruire un listino, che questo sia formalmente specifico, come invece “mascherato” all’interno di una sola intelaiatura omogenea, bisogna tenere conto di molti fattori per calibrarne appropriatamente i valori, in modo che la nostra proposta risulti sostenibile, congrua per la qualità percepita, e con gli obiettivi strategici prefissati, per il mercato in questione.
Senza ripetere concetti già sviscerati nel precedente articolo. incentrato proprio su come definire i prezzi di vendita, ci limitiamo a evidenziare che l’utilizzo di un listino unico, renda più semplice, in ogni senso, anche l’introduzione di eventuali aggiustamenti, in una direzione o nell’altra, attraverso banali correttivi peculiari, non di rado necessari, in un nuovo mercato o in una situazione economica instabile.
Fatte salvo le valutazioni puntuali sul contesto, dalle quali non possiamo prescindere, alcuni parametri qualificati di ordine generale, sul costo della vita e l’indice dei valori locali, potrebbero aiutarci ad orientarci sui prezzi più idonei, soprattutto in una prima fase, senza evidentemente considerare di rimettervisi pedissequamente.
Uno fra i più noti ed affidabili fra i suddetti parametri, è il “big mac index”, inventato dall’Economist nel 1986, per stabilire se il tasso di cambio valuta vigente, sia corretto, partendo dall’assioma che tale indicatore dovrebbe progressivamente spostarsi, verso il tasso che eguaglierebbe i prezzi di un identico paniere di beni e servizi (in questo caso, un hamburger), in due paesi qualsiasi.
E’ interessante osservare, come per un bene di larga diffusione, quale il celeberrimo panino, costituito da identici ingredienti, consumato con le stesse modalità, in ambienti sostanzialmente comparabili, ma in ecosistemi macroeconomici molto diversi, possano sussistere variazioni davvero significative nei prezzi proposti, (vedi tabella) i quali, per convenzione e comodità di confronto, vengono tradotti in un’unica valuta: il dollaro USA.
Conclusioni
La scelta fra un listino unico flessibile o vari listini calibrati sui diversi mercati, salvo alcune circostanze, solitamente non è tassativa, e può risentire anche di abitudini specifiche di settore o di mercato, che trascendono le nostre considerazioni tattiche e/o razionali.
Una delle strategie maggiormente consigliabili, in ogni caso, per un determinato mercato, è quella di generare un qualche tipo di distinzione nelle caratteristiche del prodotto, e/o dei servizi annessi, che spesso è richiesta al fine di fare breccia, e adeguarsi al tipo di domanda presente e, nel contempo, può giustificare una legittima calibrazione ad hoc del prezzo.
Quando non emerga un motivo di intervento (ma, ripeto, quasi sempre un adattamento si rivela opportuno a prescindere dalle politiche di prezzo) potrebbe essere sufficiente operare sull’imballo, oppure su una caratteristica fisica o tecnica marginale del prodotto, cercando naturalmente di non scompensare il giusto equilibrio, fra l’impatto di costi ed energie che possa richiedere una qualsivoglia modifica, ed il beneficio generato in termini di libertà commerciale.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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I prezzi di vendita per i mercati esteri
Di cosa tenere conto
Come stabilire un prezzo ottimale, rimane una questione di assoluta centralità, per qualunque mercato, segmento, e Paese si affronti, nonché per qualunque prodotto o servizio si intenda proporre. Esiste una vera e propria pletora di opzioni e formule, più o meno complesse, alcune delle quali complementari, altre alternative, per formare il prezzo di vendita.
In senso generale, è beninteso che esso si determini in primo luogo sulla base dei costi complessivi, ai quali venga assommato un margine di guadagno ammissibile, ma è fondamentale che sia strutturato contestualmente, ed in congruenza, anche ad altre decisioni strategiche, e tenendo conto di un gran numero di variabili, scaturite sia dal mercato, che dalle condizioni e dalle aspettative dell’impresa, a breve, medio e lungo termine.
Ciascuno dei suddetti fattori infatti, riverbera in qualche modo, e si può sostanziare, ad esempio, in un servizio fornito, un progetto di comunicazione peculiare, uno stratagemma commerciale, e in molti altri tipi di spese e rischi, espliciti od impliciti (ciclo di vita del prodotto, struttura e requisiti del mercato, tipo di partner e di canale, segmento bersaglio, forma di ingresso, interventi sul prodotto e sul packaging, classificazione doganale a destino, e/o altri oneri applicabili, utilizzo di depositi, logistica, margini di filiera, programmazione delle vendite per volumi e periodicità, marchio, trasporti, mix di prodotti esportati, valuta e cambio, eventuali forme di finanziamento, forme di pagamento, tempi di consegna, termini di resa, rischi dell’operazione, barriere non tariffarie, potenzialità commerciali in prospettiva, e l’elenco potrebbe continuare).
Prezzi e strategia
In conseguenza a quanto sopra, si evince che l’appropriatezza di questa scelta, da un lato discenda da numerosi e articolati risvolti, ma dall’altro abbia poi anche ricadute, a consuntivo, su ogni aspetto della vita aziendale: sulle finanze, il flusso di cassa, la possibilità di sostenersi e di investire. E’ dunque una decisione ad alto coefficiente di difficoltà e responsabilità, estremamente strategica e, talvolta, davvero creativa, se non quasi visionaria.
Devo aggiungere che, nella pratica quotidiana delle PMI, che sono la mia platea di riferimento, il più delle volte, il prezzo viene attribuito, e magari periodicamente aggiustato, sulla base di considerazioni meno lungimiranti, ovvero tenendo conto, essenzialmente in modo lineare, esclusivamente dei costi visibili e della presunta marginalità,
Benché in termini diversi, e con distinte logiche, il tema del prezzo mantiene la sua rilevanza, sia quando si parli di B2B che di B2C, e in entrambi gli ambiti, non sarebbe da affrontarsi una sola volta o sporadicamente, quanto piuttosto seguire dinamicamente, quasi come un metronomo, le risposte del mercato e l’idoneità progressiva del nostro business-plan, nella ricerca un equilibrio sequenziale, intelligente e funzionale.
Costi fissi e variabili
Ho accennato come la base di partenza per il calcolo, dovrebbe essere un’elevata consapevolezza dei costi, e resta ovviamente fondamentale, anche qualora vi si applichino le menzionate considerazioni aggiuntive. Notoriamente, esistono costi fissi e variabili, ma mentre i primi, solitamente risultano sostanzialmente chiari agli imprenditori, sui variabili, come già ricordato, spesso si riscontra una certa alea di incertezza, per via di voci in qualche modo sommerse, come il costo del tempo extra-produzione, i costi organizzativi e varie altre spese normalmente presenti. Evidentemente non è una buona premessa per un calcolo corretto del margine di contribuzione.
Nei fatti, la risposta più diffusa risulta quella di considerare un sovrappiù “di sicurezza” ai costi identificabili, e successivamente applicarvi un margine di guadagno (una sorta di declinazione delle tecniche di “cost-plus” e “mark-up standard”, piuttosto informale). E’ un approccio che sovente può funzionare, pur non restituendo un quadro preciso. Laddove però, si renda necessario adeguare il prezzo ad un contesto, per qualsiasi motivo, più sfidante, la piena cognizione della struttura dei costi agevola indubbiamente le decisioni.
Evidentemente, la citata struttura dei costi, compresi quelli fissi, viene influenzata tipicamente, in corso d’opera, dall’impatto dei riscontri reali di mercato, in una sorta di “riflesso circolare”, sia attraverso il principio delle economie di scala che quello della curva di apprendimento, secondo i quali se si riescono ad aumentare i volumi di produzione (e di vendita…), e nel contempo si acquisisce esperienza, si riducono i costi unitari, lo spreco di risorse, e si standardizzano i processi, migliorandone l’efficacia.
Orientamento alla domanda di mercato
Un primo assunto che potremmo adottare, mutuato dal mondo dello sport, recita: “primo non prenderle”; diciamo che funzionerebbe universalmente, ma diventa imperativo se ci riferiamo ad un mercato estero, dove un errore può rendere totalmente sterili i nostri sforzi e farci accusare perdite esiziali.
E’ perciò opportuno, oltre a prevedere le sopraelencate attente valutazioni sull’ecosistema economico di riferimento, identificare il break-even point, cioè il il punto di pareggio (presunto) fra costi e ricavi, dal quale si possa desumere il numero di unità di prodotto che si debbano produrre e vendere, ad un certo prezzo ,per raggiungerlo, quindi dove si verifichi l’incontro fra le curve della domanda e dell’offerta, in un intervallo di tempo definito.
Un altro concetto cardine, da mettere a fuoco, è quello del “costo marginale”, ovvero il costo da sostenersi per un’unità aggiuntiva di prodotto, utile per le stime di costo e di prezzo, a condizione che il potenziale produttivo dell’impresa non sia già pienamente espresso.
E’ lapalissiano infine, che il variare di uno qualsiasi dei fattori sopraelencati, sposti conseguentemente il break-even point
Se “non prenderle” è il risultato minimo anelato, evidentemente si possono mettere in campo molte strategie più evolute per provare anche a vincere la partita! In riferimento agli obiettivi stabiliti, si può ad esempio proporre un “prezzo di penetrazione” (molto vantaggioso per il cliente, al fine di entrare nel mercato e/o massimizzare i volumi di vendita, nel breve periodo) oppure, concettualmente all’opposto, un “prezzo di skimming” o un “prezzo di prestigio”, atti sia a selezionare un determinato segmento di clienti, che a generare un certo posizionamento, mediante le percezioni di valore ed esclusività, che si possono o meno accompagnare alla leva della scarsità (quantità ridotta o disponibilità limitata nel tempo di un bene).
Alternativamente o complementariamente, si possono utilizzare svariate altre opzioni, il “prezzo psicologico” (tipo 9,99 Eur), il “prezzo di confronto”, che prevede l’immissione sul mercato di due articoli comparabili, uno dei quali artatamente valorizzato mediante il prezzo (alto o basso in relazione all’obiettivo), il “price lining”, con riferimento a fasce di prezzo correlate a specifiche linee di prodotto, il “prezzo obiettivo”, che viene attentamente studiato, in funzione a quanto il consumatore si mostri disposto a pagare, il “bundle pricing”, che consiste nell’offrire più prodotti aggregati, ad un unico prezzo riconosciuto come conveniente, il “premium pricing” che il cliente accetta di buon grado, in nome di una qualità percepita superiore (le cui connotazioni però possono variare sensibilmente da paese a paese).
Gran parte delle suddette strategie (e non sono le sole), vengono preferenzialmente attuate nella sfera del marketing indirizzato al consumatore finale ma, in una certa misura, possono trovare spazio anche nel B2B, pur mediate da filtri tecnici e psicologici meno palesi.
Naturalmente, per funzionare, le stesse devono non solo essere inglobate in un progetto strutturato e sostenute da varie attività propedeutiche, ma anche contemplare possibili cambi di rotta e rettifiche tempestive, se e quando necessari.
Va infine tenuta in debita considerazione l’attuale potenza dei media, che sono in grado di veicolare le preferenze, fare percepire vantaggi competitivi veri o presunti, formare o distruggere una reputazione e/o una moda, e a tutti gli effetti, generare un bisogno, in tempi rapidissimi, impensabili in passato.
L’impatto della concorrenza
Quando ci si affacci ad un nuovo mercato, che lo si faccia in punta di piedi, ovvero che si abbiano il proposito e le risorse per farlo con forza, non si può trascurare una ricerca sui prezzi praticati dalla concorrenza presente; fatti salvi i casi, attualmente piuttosto rari, di incarnare il ruolo del pioniere per un certo bene, o di disporre di un prodotto senza alcuna concorrenza reale, nemmeno surrogata, in quel particolare mercato.
Il cosiddetto “benchmarking” risulta sicuramente più attendibile e funzionale quando condotto su imprese, non solo concorrenti, ma con simile dimensione e struttura dei costi alla nostra (assumendo i loro calcoli come idonei).
Facendo tesoro delle conclusioni dell’indagine menzionata, la direzione della nostra condotta complessiva, in termini di offerta, di comunicazione, di servizio, ma evidentemente anche, se non soprattutto di prezzo, dovrà indirizzarsi alla conquista di una quota di mercato, il che potrà avvenire tipicamente proprio a spese della concorrenza, sebbene in qualche misura, con adeguati messaggi e caratteristiche distintive, talvolta sia possibile attrarre anche nuove categorie di clienti tout court.
Alcune delle scelte tattiche improntate sulla concorrenza, quando sussistano i presupposti di sostenibilità finanziaria, possono contemplare l’allineamento ad abitudini già consolidate e remunerative, stabilendo un “prezzo di consuetudine”, oppure un prezzo lievemente inferiore o superiore a quello mediamente accettato, a seconda delle finalità perseguite, o persino un “prezzo civetta” (ovviamente in caso di B2C), che richiami l’attenzione del consumatore sulla nostra azienda e sulla nostra proposta commerciale complessiva.
Naturalmente le opzioni di cui sopra, qualora dovessero farci meritare visibilità, potrebbero indurre reazioni da parte della concorrenza, che legittimamente tenterebbe di salvaguardare le proprie posizioni. Chiaramente, nel medio-lungo periodo, il mercato tende ad assorbire questi meccanismi autoregolamentandosi, e si va a costituire un sistema di competizione dinamica, fisiologico e caratteristico, nel quale, il nostro compito diventa quello di ritagliarci uno spazio stabile.
Più nutrita e consolidata si palesa la presenza di concorrenza, in condizioni di libero mercato, più si delinea la tendenza all’insorgenza di un effetto di “perceived value pricing”, per un certo bene, da parte dei consumatori. E’ un elemento che sfugge al controllo dell’impresa, e che rende la curva della domanda più rigida alle variazioni di prezzo, ma tale orientamento può essere anche sfruttato dall’azienda a proprio vantaggio (introduzioni di migliorie, valore aggiunto tecnologico, servizi), per sparigliare il quadro.
Variabili e obbligazioni
In teoria, l’impresa potrebbe scegliere di determinare il prezzo anche sulla base di specifici traguardi di profitto, e anche in questa evenienza si declinano vari approcci e relative tecniche, da quella del “profitto obiettivo” a quella del “return on sales” fino al metodo del “return on investment”. Non indugio in delucidazioni, in merito, anche perché per le PMI che si approccino ad un mercato estero, questi ultimi restano criteri tendenzialmente velleitari.
E’ invece di rilievo trasversale e imprescindibile, la verifica ed il conseguente adeguamento, della presenza di eventuali vincoli legislativi in merito alla fissazione del prezzi, che possono avere carattere generale, oppure riguardare selettivamente alcuni mercati, canali di vendita, categorie merceologiche. A titolo esemplificativo, si possono incontrare limiti alle vendite promozionali, oppure vi possono essere prezzi calmierati o imposti per alcuni generi, o può sussistere l’obbligo di esibizione dei prezzi, talora anche il divieto di imposizione di prezzi di vendita ai distributori.
Non di rado, vengono effettuate verifiche anche su pratiche di dumping, possibili accordi di cartello, prezzi ingannevoli o “predatori”, e “discriminazione dei prezzi” che, in qualche caso, adombrano un retrogusto protezionistico. Esistono poi veri e propri mercati statalizzati o fortemente regolamentati (tabacchi, alcolici, ecc…), dove sostanzialmente scompaiono gli eventuali vantaggi competitivi e la partita si gioca su principi totalmente differenti.
Si è volutamente trascurato di trattare il “tranfer pricing”, in questo elaborato, essendo un concetto un po’ collaterale alla “galassia prezzo”, che verosimilmente verrà approfondito in altre occasioni.
Conclusioni
In buona sostanza, tanto per cambiare, è sempre bene muoversi preparati e studiare preventivamente, non limitandosi ad agire secondo le regole che magari abbiano pagato, fino ad oggi, per la nostra attività domestica, ma essere flessibili, talora sacrificare una parte di marginalità o accettare che il break-even point possa configurarsi relativamente lontano nel tempo.
Ciò detto, bisogna anche essere pronti ad accettare il fatto che laddove non esistano le condizioni per renderci competitivi, e con prospettive concrete di marginalità accettabile, almeno nel medio-lungo periodo, sia preferibile rinunciare, piuttosto che scegliere di sbattere la testa infinite volte, come una mosca sui vetri in estate, e a consuntivo dover fare i conti con danni economici significativi.
Saverio Pittureri
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La timeline per rappresentare l'azienda, nel sito e non solo
Cos’è la timeline?
E’ la rappresentazione grafica di una sequenza di eventi significativi, che abbiano caratterizzato la vita dell’azienda nel corso degli anni, e rientra nella categoria delle iconografiche.
La struttura può essere più o meno complessa, ma normalmente è caratterizzata da una linea retta o curva, orizzontale o verticale, lungo la quale si snodano date che corrispondono ad avvenimenti, i quali vengono narrati tipicamente attraverso un’immagine, accompagnata o meno da una breve didascalia.
In alternativa all’immagine, possono essere presenti anche link, video, pop-up, tuttavia evidentemente, con tali scelte, lo strumento tende a ridurre uno dei suoi maggiori pregi, ovvero l’immediatezza.
A cosa serve?
Definisce con istantaneità e grande efficacia comunicativa il percorso aziendale, attraverso i momenti più emblematici e qualificanti, che a titolo di esempio, possono essere l’uscita di prodotti di successo, l’acquisizione di nuovi strutture o nuovi processi produttivi, brevetti, certificazioni, premi, contratti, aperture di mercati, e molto altro.
In sintesi, è un mezzo versatile, plastico e personalizzabile per raccontare l’impresa in pochi istanti, che può avere anche notevole capacità attrattiva estetica, in base alle scelte grafiche.
Si può utilizzare certamente nella sezione “chi siamo” del sito, accanto o in sostituzione del tradizionale “story telling”, non sempre gradito ai frettolosi navigatori contemporanei, ma si può impiegare efficacemente anche in altri contesti on-line e off-line, come ad esempio, il company profile, l’introduzione del business plan ad uso esterno, la parete dello stand di una fiera, e tutte quelle circostanze dove risulti utile veicolare in pochi istanti una percezione di esperienza, evoluzione tecnologica, crescita, professionalità.
E’ bene seguire regole fisse?
In realtà no.
Acquisito che si tratti di una modalità squisitamente visuale, quando si opti, ovvero sia necessario per la comprensione, inserire anche testo, va da sé che nell’assecondare il principio di sintesi ampiamente illustrato, detto testo debba essere breve e incisivo. Fatto salvo questo principio di buon senso, i soli limiti sono la creatività e naturalmente la forza persuasiva del messaggio.
Non vi è una regola precisa anche per quanto riguarda la densità di avvenimenti rispetto alle date ma, in linea di principio è preferibile che si trasferisca una sensazione di continuità e omogeneità, senza importanti interruzioni o periodi lunghi senza accadimenti di rilievo. Si può, anzi si deve aggiornare nel corso del tempo, poiché diversamente, una timeline datata, costituirebbe un boomerang.
Una volta compresi gli obiettivi peculiari, occorre soprattutto sapere selezionare i contenuti e definirne al meglio la rappresentazione grafica. La gerarchia delle scelte dovrebbe tenere conto di cosa distingua maggiormente e valorizzi in maniera eloquente l’azienda, agli occhi del pubblico target, in quel determinato contesto.
Conclusioni
Come si sarà intuito, sono un fan della timeline, al punto che non solo la propongo sempre convintamente alle aziende clienti, ma per conto di queste, mi faccio spesso parte diligente nella progettazione e costruzione.
Nell’attuale ecosistema di comunicazione, dove siamo sovraesposti ad informazioni di ogni tipo, tendiamo istintivamente a difenderci risparmiando tempo ed evitando di leggere quanto più possibile, ovvero privilegiando i messaggi visivi.
La timeline, se ben fatta ovviamente, aiuta a superare questa resistenza e a descrivere con estrema efficacia, in pochi istanti, un universo valoriale complesso e articolato, che non di rado pilota l’interessato all’approfondimento e finalmente alla lettura dei contenuti.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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Fiere ed eventi digitali e in presenza: come sarà il futuro
E’ sotto gli occhi di tutti la trasformazione digitale dell’ecosistema business nei paesi sviluppati, così come è innegabile l’accelerazione che l’emergenza pandemica ha imposto. Tuttavia, non è né il primo salto tecnologico né operativo, al quale assistiamo ed è bene valutarne con lucidità vantaggi e limiti.
Innovazione e rivoluzione
Solo per citare alcuni dei precedenti enormi progressi, ricordo l’avvento del trasporto multimodale e dei container refrigerati, la rete internet, l’introduzione dei voli low cost, i telefoni cellulari e successivamente gli smartphone, le e-mail, i pagamenti elettronici. Per ogni singola, pur portentosa, innovazione è stato spesso usato (e talvolta abusato) il termine “rivoluzione”.
Si tratta evidentemente di fattori che hanno impattato enormemente sul commercio internazionale e hanno costretto i professionisti del settore ad una progressiva e significativa revisione delle competenze, delle strategie e dell’approccio complessivo alla materia, fermo restando che, come è sempre stato, sussiste la necessità di disporre di ampie e articolate abilità trasversali e “tradizionali” di ordine culturale, linguistico, tecnico, relazionale e negoziale, che nessuna attività digitale è in grado di surrogare.
Futuro digitale
In relazione a quanto sopra, sono in molti a profetizzare che, poco alla volta, gli eventi virtuali e in particolare le fiere on-line, sostituiranno completamente quelli in presenza con palesi benefici nel risparmio di costi, tempi, energie e semplificazione dei processi, ad esempio procedure documentali, doganali, fiscali, ecc..
Tutto fondato e plausibile, almeno teoricamente. Per altro, essendo io uno dei 100 senior digital export manager, selezionati e formati da ICE su tutto il territorio nazionale, nel 2020, dovrei sostenere questa teoria a spada tratta anche per autopromozione.
In realtà, se da un lato ritengo convintamente che vi saranno svariate nuove abitudini che, fortunatamente, si consolideranno fino a diventare irreversibili, dall’altro, continuo a pensare che esistano sia fattori squisitamente tattici che antropologici, insostituibili e ineludibili, dei quali sia bene tenere conto nei nostri piani strategici futuri.
Ovvero, nella pratica, da ora in avanti, verosimilmente, videochiameremo i nostri clienti molto più spesso di quanto gli telefoneremo, parteciperemo sempre più ad aventi formativi virtuali e aderiremo a piattaforme di business matching; inoltre entreranno a fare parte della nostra quotidianità aziendale, strategie di inbound marketing, lead generation, marketing automation, che estendono e amplificano le opportunità, ma scommetterei anche che, quando saranno ripristinate adeguate garanzie sanitarie, le fiere classiche, torneranno floride e frequentate quanto e più di prima.
Le fiere
La fiera è la più antica forma di marketing conosciuta ma resta ancora oggi uno dei mezzi più potenti di cui un’azienda possa disporre. E sottolineo ancora oggi, a ragion veduta, e con il conforto dei numeri, dei quali si può trarre un’impressione probante dalla tabella qui di seguito, prodotta del CEIR, la più importante fondazione al mondo per l’analisi delle fiere B2B.
Le fiere complessivamente generano un PIL indotto di 197,5 miliardi di dollari, se ne contano circa 32.000 ufficiali, nel mondo, e da quando esistono moderni strumenti di censimento, il numero è costantemente aumentato anno dopo anno. Ad oggi si contano 1.217 sedi con un minimo di 5.000 mq di spazio espositivo e moltissime altre più ridotte. L’Europa, per altro, è in cima a tutte le classifiche di settore, comprese quelle per tasso di crescita.
Abbiamo dunque a che fare con un mondo di cavernicoli che negano l’avanzare della storia?
Non esattamente, se da statistiche ufficiali risulta che circa il 50% del fatturato internazionale delle PMI italiane si genera in correlazione alla partecipazione a fiere, e oltre il 75% del complesso di visitatori e espositori, afferma di avere aumentato il proprio volume d’affari, a seguito della frequentazione di una fiera.
La forza della presenza
Le ragioni sono forse meno immediate e note di quanto si possa immaginare, lo scopo principe dell’esposizione ad una fiera è infatti comunicare. E’ la comunicazione la chiave, non la vendita immediata, ed è evidentemente d’uopo che cerchiamo di farlo nel modo più funzionale e proficuo possibile. Un’adeguata comunicazione, principalmente allo stand, ma anche in senso più estensivo e complesso, durante la manifestazione, ci porterà ad avviare o consolidare la presenza nei mercati esteri e a migliorare l’immagine dell’azienda innescando un effetto domino, spesso di lunga durata.
Si possono infatti elencare numerosi risvolti commerciali, promozionali e persino psicografici, che una fiera in presenza permette di attivare mentre, per il momento, la versione virtuale non è grado di offrire o non certamente con lo stesso impatto.
Sopra ogni cosa, la crescita della rete di contatti personali, che porta sovente all’identificazione di nuovi clienti, fornitori, distributori, ma anche la raccolta dei informazioni sul settore e sulla filiera, con un immediato confronto di competitività e capacità di innovazione, nonché la presa di coscienza di orientamenti e tendenze dei clienti in quel paese. In buona sostanza, una sintetica ma efficacissima ricerca di mercato con annesso benchmark.
Si aggiungono poi, l’occasione di ottenere riscontri significativi e rapidi sui prodotti e servizi proposti, la raccolta di spunti per lo sviluppo di nuovi prodotti, servizi ed idee, l’eventuale emersione di alleanze strategiche e sinergie, e i riverberi sul mercato domestico di tipo reputazionale oltreché commerciale, insiti nella partecipazione ad una fiera internazionale.
In ultimo sottolineo quattro aspetti tipicamente “umani”, raramente richiamati, ma oggettivamente fondamentali per comprendere il valore aggiunto di una fiera in presenza, e che chiamano in causa una certa esperienza e un evoluto grado di consapevolezza dei contesti interpersonali e identitari.
Il primo, è il fattore prettamente relazionale che, pur declinato nelle significative dissonanze culturali fra le persone provenienti da diverse aree del mondo, in presenza, se ben interpretato, rimane decisivo, e continua a fare la differenza fra il successo e l’insuccesso di un affare.
Il secondo è legato al fatto che il visitatore che per raggiungere il luogo della fiera, investa un certo tempo e sopporti spese e fatica, più o meno consapevolmente, risulti più motivato a concretizzare e dare quindi un senso ai propri sforzi, rispetto a colui che si colleghi facilmente da un terminale nel proprio ufficio.
Il terzo non va sottostimato, ed è un ingrediente di attrattiva esotica o “paraturistica”, che deposita naturalmente nell’atto di viaggiare verso altri paesi,, spezzare la routine, e concedersi qualche piccolo diversivo di interesse personale, compatibile con la missione professionale. E’ un ingrediente sempre esistito e che potrebbe conoscere un importante rimbalzo a seguito delle lunghe restrizioni forzate, e che dispone le persone in uno stato particolarmente favorevole ad esplorare nuove opportunità.
L’ultimo si riferisce ad una mia abitudine, che consiglierei di prendere in considerazione, ovvero di prevedere un soggiorno di un paio di giorni, oltre il termine della manifestazione che, solitamente, riesco ad utilizzare per fare visita ai potenziali clienti incontrati allo stand, la cui sede sia a distanza ragionevole. E’ un’abitudine acquisita negli anni, che mi ha portato sovente notevoli risultati, potendo “battere il ferro finché è caldo” e dandomi l’occasione di verificare le reali caratteristiche dell’azienda interessata, e magari di riconoscere un potenziale inespresso durante la chiacchierata in fiera.
Saverio Pittureri
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Il marketing internazionale, una chiave del successo sui mercati
Una piccola premessa
Proviamo per un momento ad immaginare che, per capacità tecniche, senso della rete e magari anche personalità in campo, il più dotato calciatore al mondo non sia Leo Messi, né Ronaldo, o Neymar, o chi altri ciascuno preferisce…. ma magari un ignoto ragazzo di un villaggio africano, andino, oppure del sud-est asiatico. Qualora questo ragazzo non avesse la possibilità di essere notato, valorizzato e mostrato nel giusto contesto, qualcuno lo riconoscerebbe mai quale il miglior giocatore potenziale del pianeta? Ovviamente no.
Allo stesso modo, anche il miglior prodotto del mondo, quando non posizionato strategicamente, comunicato, e messo in risalto in modo adeguato, quasi certamente passerebbe inosservato su qualsiasi mercato. Nell’era della comunicazione digitale, tale complesso di attività è certamente più possibile, economico e rapido di quanto non sia mai stato fino ad ora nella storia, tuttavia resta un’operazione da effettuarsi con assoluto rigore scientifico, oltre che creatività e originalità, se si vuole sperare di trarre un risultato concreto dai nostro sforzi.
In altre parole, comunicare in modo corretto (e leale verso il destinatario…), ciò che nella nostra proposta di prodotti e servizi effettivamente funziona, in un determinato contesto e verso un precisato pubblico, ci piaccia o no, è diventato tanto importante quanto la qualità stessa del prodotto o servizio! Tutto ciò implica avere un’idea chiara degli obiettivi da raggiungere, degli strumenti da utilizzare, e del target di riferimento, che esprime o sottende specifici bisogni, per la cui soddisfazione dobbiamo cercare di orientare il cliente verso la nostra soluzione rispetto a quella di un concorrente, decifrando intelligentemente le leve da innescare.
Il Marketing tradizionale
La definizione tratta da Wikipedia recita quanto segue: “Il marketing è un ramo dell’economia che si occupa dello studio e descrizione di un mercato di riferimento, ed in generale dell’analisi dell’interazione del mercato e degli utenti di un’impresa…”. In altre parole è quella disciplina in grado di sviluppare in prima battuta analisi preventive razionali e successivamente strategie di ordine commerciale, per amplificare e ottimizzare le attività di vendita e di penetrazione di un mercato, mettendo sempre al centro il cliente.
Convenzionalmente si colloca l’origine del marketing, negli USA, agli inizi del secolo scorso. Si tratta quindi di un orientamento di pensiero non così recente come si potrebbe pensare, ma che ha conosciuto un’evoluzione portentosa dal secondo dopoguerra in avanti, e che oramai rappresenta una componente imprescindibile del piano commerciale per qualsiasi azienda, di qualsiasi dimensione. Non si tratta più solo di avvantaggiarsi sulla concorrenza ma di sopravvivere nel mercato.
Diventa evidentemente una dottrina fondamentale, a maggior ragione, quando ci si rapporti ad un mercato internazionale dove l’impresa italiana ha tendenzialmente meno esperienza e capacità di comprensione delle dinamiche mercantili, dei canali di vendita, delle abitudini di acquisto, delle barriere culturali e psicologiche, della sfrenata competizione, ecc… Ciascun mercato e ciascun settore si caratterizzano evidentemente per diverse e peculiari modalità di entrata e occorre studiare e fare propri alcuni concetti cardine che aiutino a capire come adattarsi al precipuo agone commerciale, aggiungendovi possibilmente un tratto innovativo.
Senza addentrarsi nel dettaglio dei meccanismi esecutivi, che potranno essere oggetto di altra discettazione futura, il marketing moderno, come accennato, si può distinguere in analitico e strategico/operativo, può riguardare qualsiasi genere di prodotto o di servizio, e può anche distinguersi in “business to business” e “business to consumer”, evidentemente a seconda del destinatario.
Probabilmente risulta utile anche aggiungere che esistono dei capisaldi di riferimento molto popolari, fra i quali l’analisi “swot”, volta a far affiorare i punti di forza e debolezza, nonché le opportunità e minacce più rilevanti di un prodotto o di un’impresa, oppure il postulato principe del marketing mix, la regola delle 4 “p” (product, promotion, price, place), alle quale negli anni più recenti se ne sono aggiunte altre 3 (positioning, people, packaging) e, non certo meno importante, l’adozione di strumenti di monitoraggio costante che possano misurare oggettivamente le azioni messe in campo.
Tutto questo (insieme a molto altro), costituisce ancora oggi una base estremamente valida ed efficace di partenza per approcciare la materia, ma si deve ineluttabilmente combinare in modo sinergico con i nuovi strumenti di cui disponiamo che stanno trasformando drasticamente l’orizzonte conosciuto.
La rivoluzione digitale
L’impatto della comunicazione digitale sulle nostre vite credo sia chiaro a tutti, ma talvolta aggiungere qualche numero può aiutare a chiarire ulteriormente l’esplosione sbalorditiva di tale fenomeno. E’ uno sviluppo non solo inarginabile e imparagonabile a quello di qualsiasi altro strumento precedente, ma talmente in divenire, che i numeri esposti di seguito, possono essere interpretati unicamente come una fotografia del momento.
Si calcola che 4,66 miliardi di persone nel mondo siano attualmente connesse al web, con un incremento di circa 1 milione di persone in più, al giorno. Il traffico da telefonia mobile, calcolato sul numero di pagine web aperte, interessa il 55,7% dei collegamenti ed ha ampiamente superato quello da postazioni fisse, che si ferma al 41,4%, la percentuale residua coinvolge invece dispositivi diversi (tablet, game station, ecc..)
La media oraria mondiale spesa in collegamento è di 6,54 ore al giorno, quella dedicata ai social, per ciascun individuo tocca le 2,25 ore, di conseguenza, stanno anche modificandosi rapidamente i paradigmi di utilizzo. Il 48% degli utenti nel mondo, ad esempio, cerca non più attraverso i motori tradizionali, quanto attraverso i social media, Il 45% “parla” con il proprio dispositivo. E’ in crescita il numero di navigatori che utilizza il riconoscimento delle immagini che raggiunge il 33% complessivo, ma in alcune aree del mondo ha un impatto molto superiore. Il 76% delle persone collegate fra i 16 e i 64 anni, ha effettuato almeno un acquisto on line nell’ultimo mese.
Non a caso Jeff Bezos è ampiamente l’uomo più ricco al mondo…
In aggiunta, giova ricordare che alcuni recenti studi hanno evidenziato come il 55% dei consumatori globali dichiari di acquistare solo da siti che diano informazioni nella propria lingua madre, e il 56% che il trovare informazioni nella propria lingua sia un fattore più importante del prezzo! Mentre in ambito B2B ben il 51% delle aziende interpellate predilige un sito nella propria lingua, anche se con qualità di localizzazione medio-bassa, rispetto ad uno alternativo più raffinato ma, con contenuti solo in inglese.
Cosa, dunque, possiamo e dobbiamo fare?
Dobbiamo prendere atto che il mondo sta cambiando vorticosamente e cavalcare l’onda, ma dobbiamo anche tenere conto delle molte variabili e velocità diverse con cui gli stessi cambiamenti stanno avvenendo. Essere disposti a mettere in discussione certi modelli consolidati ma mettere anche a frutto la nostra esperienza.
Per quanto riguarda l’internazionalizzazione, una delle prime scelte, in conseguenza a quanto sopra significato, è dare un ordine di priorità ai mercati, evidentemente per potenziale attrattivo e minori ostacoli, in modo da poter focalizzare gli sforzi in modo progressivo laddove sono attese le maggiori risposte.
A tali scelte dovremmo conformare le modalità e i contenuti ad hoc. Più precisamente, le attività di comunicazione dovranno tenere in conto una molteplicità di fattori socioculturali. Partendo dai costumi e le tradizioni, le caratteristiche intrinseche e i valori intangibili di un Paese, ma anche i sentimenti e l’identità collettiva, lo status del segmento target, le eventuali barriere culturali (rappresentazione del corpo o dei ruoli di genere e sociali, interpretazioni di colori, simboli, gestualità e molto altro).
Considerazioni antropologiche ed etnografiche di livello avanzato che sono tutt’altro che eccessive e che, se sottostimate o malintese, aprono la porta a tonfi epocali.
Il sito e gli altri strumenti web
L’architettura dell’informazione andrà pertanto interamente progettata per il pubblico di riferimento in modo molto preciso e con contenuti su misura. Il sito web, che quasi sempre rimane al centro del progetto comunicazione, dovrà essere semplice ed immediato da navigare, con un layout e dei contenuti che, come detto, possano raggiungere utenti magari molto diversi da noi, per approccio, gusti e capacità di comprensione del mondo. Visti i dati riportati sopra, dovrà naturalmente essere “responsive” e pensato prima di tutto per la navigazione mobile, con informazioni chiare sull’azienda e tutti i dati di contatto bene evidenti, ad infondere fiducia e trasparenza.
La lingua, come già argomentato, è un fattore cruciale, l’inglese americano, ad esempio, è diverso da quello britannico o di altri Paesi madre lingua, così come lo spagnolo o altre lingue ubiquitarie, lo sono da un Paese all’altro. Le traduzioni letterali e/o poco accurate impattano molto negativamente, più di quanto si creda, sulla “brand reputation”, e ostacolano l’ottenimento di risultati. Quindi si dovrà tendere ad una lingua evidentemente corretta ma magari anche con espressioni idiomatiche efficaci, ovvero dovremo curare le traduzioni in modo non solo professionale ma anche commerciale (cosa cercano i consumatori e come?). Si dovrà adottare uno stile comunicativo che il visitatore percepisca come accattivante e messaggi che trasmettano certezza e solidità; evidentemente anche l’uso delle parole chiave dovrà essere adattato alla realtà locale.
Come già ricordato il sito è certamente, quasi sempre, il perno basilare, ma va contestualizzato all’interno di un progetto peculiare di comunicazione più ampio e articolato, ne vanno quindi adeguate le funzionalità e l’espressione, oltre che secondo i dettami del mercato anche in funzione di una strategia sovrastante di marketing e vendite. Tenendo conto infine, di normative locali e internazionali alle quali occorre conformarsi (ad esempio paesi in cui è consentita la pubblicità comparativa, altri quasi “publifobici”).
Verosimilmente esisterà un piano editoriale coerente che probabilmente integrerà il sito diverse altre azioni proattive. Si potrà prevedere l’invio di newsletter e una regolare presenza sui social network, è verosimile che si investa in campagne di content marketing e/o direct e-mailing, agganciate a landing page accuratamente studiate, oppure sofisticate azioni di marketing automation e, talvolta, perché no, blog e canali video. I meccanismi e le impalcature funzionali creative possono essere quasi infinite, ma sempre improntate ad una personalizzazione spinta verso il target di riferimento, e con l’opportunità di verifica e quindi di eventuali modifiche, in tempi realmente brevi.
Anche Google, il motore di ricerca per antonomasia, come tutto l’ecosistema web è in continuo divenire e da qualche tempo oltre a premiare contenuti logici e interessanti, ricompensa particolarmente anche vitalità e dinamismo. Tutto questo descritto fino ad ora infatti da un lato tipicamente produce miglior lead generation e miglior tasso di conversione, ma dall’altro impatta proprio sul posizionamento SEO in un circolo virtuoso, che infine si traduce in fatturato e possibilmente marginalità, che restano gli obiettivi finali veri di tutta l’operazione, e senza i quali resterebbe un esercizio sterile di maniera.
Saranno proprio l’analisi dei risultati di traffico e gli indici di redemption, per le varie “call to action” che attiveremo, a darci informazioni per validare o rettificare le operazioni compiute. Senza numeri, qualsiasi pretesa valutazione si ridurrebbe ad una mera opinione… Fortunatamente la misurabilità dell’efficacia nelle attività digitali è perlopiù estremamente precisa e circostanziata, tanto che è più facile anche calcolare un ROI realistico rispetto a quanto accada per molti altri investimenti di marketing tradizionali.
Si è fatto cenno all’importanza di perseguire alcune tattiche ai fini SEO, alla luce di questo dobbiamo tenere in debito conto che da alcuni anni Google “geolocalizza” automaticamente le ricerche, per cui tende a far prevalere quelle nazionali, o addirittura locali, ragione per cui, in aggiunta a quanto già esposto, se si dovesse focalizzare l’attenzione verso un Paese od un’area omogenea ben precisa (scelta consigliabile), potrebbe avere, ad esempio, una notevole valenza strategica un “mini-sito”, con dominio e registrazione distintivi del Paese traguardo, che implica costi decisamente accessibili e può fare davvero molta differenza, soprattutto in alcune regioni del pianeta.
Una certa attenzione va dedicata anche ad eventuali motori di ricerca e social network diversi da quelli più diffusi che tutti conosciamo, che trovano larga diffusione in alcuni Paesi, ad ex. Baidu, Wechat e Weibo per la Cina, Yandex, Vukontakte, Rutube nell’area ex-sovietica, solo per citare qualche esempio. Talvolta alla base di questi disallineamenti, esistono ostacoli di natura geopolitica, con veri e propri oscuramenti degli strumenti “mainstream”, in altre situazioni invece sono libere scelte degli utenti. Qualunque sia la ragione, la nostra risposta deve essere quella di applicare i necessari provvedimenti e lavorare al meglio con lo scenario disponibile.
Conclusioni
Il marketing e in particolare quello digitale è l’arma definitiva dell’imprenditore. Sarebbe infinito l’elenco di piccole aziende da menzionare, che in pochi anni si sono costruite un impero commerciale soprattutto grazie ad un eccellente piano di marketing. Non dobbiamo ovviamente eccedere nelle aspettative ma, disponendo di qualche capacità ed esperienza, mettendo in campo strumenti appropriati ed effettuando una programmazione congrua, i ritorni di investimento sono altamente probabili, senza dimenticare che oltre all’aspetto prettamente finanziario, chiaramente prioritario nel breve-medio periodo, se ne avrà un altro, di crescita percepita, che genera solidi dividendi diretti e indiretti anche nel lungo periodo.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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