Fare business nella regione del MENA. Rapporti interculturali, economici e commerciali con il mondo arabo e gli altri Paesi dell’area – Parte I
Alcune premesse orientative
Quando si parla di MENA, ovvero l’acronimo che identifica l’insieme dei Paesi del Nord Africa e dell’area Mediorientale, per altro non da tutti identificato con gli stessi confini e membri, da sempre i malintesi, i pregiudizi, o ben che vada il folclore, prevalgono largamente sui fatti oggettivi.
Il risultato di una simile percezione, che si assomma ad una oggettivamente problematica decrittazione interculturale vicendevole, ha storicamente prodotto una distorsione della realtà, e una dissonanza di risposte, nell’interazione fra gli occidentali e gli abitanti della regione, fino alla frequente deriva di un rifiuto reciproco, aprioristico.
Negli ultimi venti anni, per altro, la distanza culturale e ideologica, fra mondo occidentale e mondo arabo si è notoriamente inasprita, e la frattura innescata da una cascata di celebri eventi traumatici e da scelte politiche discutibili, ha innalzato un muro, senza precedenti, di sospetto e discredito da ambo i lati, tanto che capita frequentemente che non sia semplice generare un rapporto personale confidente.
Evidentemente, detti sbarramenti relazionali producono importanti ripercussioni sui risultati commerciali delle nostre imprese, in quella porzione di mondo. Un buon rapporto di business, infatti, difficilmente decolla in un clima antropologico così compromesso, o quantomeno occorrono molto più tempo e cautela, rispetto al passato, perché prenda piede.
Andremo ad sviscerare, in due (o forse tre) articoli concatenati, questi temi tratteggiati, insieme a vari altri, la cui cognizione, di fatto, risulta necessaria, tanto quanto le informazioni economiche e finanziarie, per affrontare i mercati MENA con qualche speranza di successo.
E’ quasi pleonastico ricordare che, per quanto una regione tanto vasta presenti dei tratti omogenei (e pertanto venga presa in considerazione come tale), le differenze fra i diversi popoli e Paesi, siano spesso molto significative e bersaglio di generalizzazioni grossolane, propedeutiche ad ulteriori errori fallimentari.
Nell’immagine rappresentata qui di seguito, i Paesi identificati con un colore più scuro sono universalmente percepiti come appartenenti al MENA, mentre l’inclusione di quelli in colore più chiaro, per varie ragioni, non è unanimemente accettata.
Numeri, popolazioni e (false) credenze
Cominciamo a dirimere i primi fraintendimenti macroscopici, forse ovvi per molti ma non per tutti, e via via andremo a raffinare, per quanto possibile, l’analisi.
Gli abitanti del MENA, non sono esclusivamente arabi, benché certamente lo siano in numero preponderante, non lo sono naturalmente gli israeliani, ma non lo sono nemmeno gli iraniani, tantomeno i turchi. Cionondimeno la cultura islamica, di matrice araba, impatta grandemente anche nei Paesi non arabi dell’area.
I musulmani, d’altro canto, non coincidono con gli arabi. I primi sono, la grande comunità Ummah, in costante crescita, che conta quasi 2 miliardi di fedeli nel mondo, un quarto della popolazione del pianeta, mentre gli arabi, secondo i numeri più recenti diffusi dalla Lega Araba, sono “solo” intorno a 450 milioni, e sono comunque una delle comunità umane più vitali e in più rapida espansione.
Il colore della pelle può essere di tutte le gradazioni e non dipende solo dal Paese di provenienza. Per quanto riguarda le lingue, l’arabo classico è relativamente poco diffuso, e praticato tipicamente dalle persone più erudite, mentre le variazioni locali e i dialetti, sono così numerosi e diversi, da rendere possibile che un nordafricano e un mediorientale, fatichino a capirsi. In Iran invece si parla persiano non arabo, in Turchia naturalmente il turco, e in Israele l’ebraico.
L’arabo però rimane la lingua eletta dell’Islam, la sola che possa esprimere la sacralità del Corano, quindi ogni buon musulmano si sforzerà di impararla, per poter recitare le preghiere nel modo più indicato. Questo rende l’arabo una lingua molto rilevante, per diffusione e numero di persone coinvolte nel mondo. Considerazione che ha una ricaduta commerciale e di comunicazione aziendale non trascurabile.
Somiglianze e differenze
Sono anche significative le differenze di costumi nazionali, la gerarchia dei valori e delle aspirazioni, e l’approccio con il quale le persone affrontano il mondo contemporaneo, di conseguenza pur avendo un background parzialmente condiviso, capita che gli abitanti del MENA, provenienti da contesti nazionali distinti, non diversamente da qualsiasi altra area del mondo, apparentemente omogenea, non sempre si stimino reciprocamente.
Vi sono paesi che applicano la legge coranica e altri aperti ai sistemi internazionali. Allo stesso modo, vi sono governi che incoraggiano il turismo occidentale e altri che lo inibiscono senza compromessi.
Negli ultimi 20 o 30 anni, abbiamo visto monarchie assolute, dittature spietate, regimi patriarcali, repubbliche socialiste, e persino caute riforme democratiche. C’è chi tollera vini e liquori e chi frusta i trasgressori sulla pubblica piazza, c’è chi fa nascondere anche gli occhi alle donne e chi consente l’uso del bikini sulle spiagge.
I contrasti più drammatici però rimangono quelli economici. Dieci milioni di persone sono miracolate dal petrolio e altre cento languono nelle aree rurali o nelle periferie urbane a sopravvivere. La crescita demografica è imponente quasi ovunque, per esempio, in Egitto nasce un bambino ogni 20 secondi. Il Qatar è uno dei Paesi più ricchi al mondo, e il Sudan uno dei più poveri.
I’Islam, il fattore aggregante
Che cosa unisce allora i Paesi del MENA? Forse l’elemento più caratterizzante è proprio l’Islam (eccetto parzialmente in Israele, ovviamente), il credo largamente prevalente e disciplinatamente praticato in ogni Paese. In nome di Allah, i musulmani si ritrovano fratelli, anche se non tutti lo invocano allo stesso modo. in molti Paesi, tutto si ferma 5 volte al giorno, all’ora della preghiera, e tutte le sfere della vita quotidiana, in un modo o nell’altro, sono permeate dal sentimento religioso.
Islam in arabo significa: sottomissione (alla volontà di Dio), e questo concetto, pur con declinazioni distinte, investe in modo determinante le abitudini quotidiane, ed è il filtro attraverso il quale affrontano l’esistenza, quasi tutte le comunità nazionali della regione. Non a caso, l’espressione “Inshallah”, (se Dio vuole) è una delle più frequenti e note, nei dialoghi fra musulmani. Le altre religioni sono variamente ammesse o represse, a seconda del Paese preso in esame, ma comunque residuali come numero di praticanti.
Tahar Ben Jalloun, lo scrittore e intellettuale marocchino, ebbe a dire che “il sacro Corano è scritto in un arabo di tale splendore, di una così profonda ricchezza e poesia che anche se ci si attiene scrupolosamente alla lettera del testo non si riesce a renderne il lirismo, le metafore; tutt’al più si può parlare di interpretazioni. Maometto era l’inviato di Dio, ma era un uomo, non faceva miracoli. Il vero miracolo è il Corano”.
Tutto ciò, oltre a rendere molto complessa qualsiasi traduzione in altre lingue, accende il confronto, sul tafsīr ovvero l’interpretazione autentica, data dai dotti musulmani, agli ardui passaggi del Corano, con finalità di esegesi. Si tratta di un tema profondo, estremamente sentito, che continua a suscitare un dibattito ardente, e detta disputa si spinge molto oltre il mondo musulmano.
Qu’ran in arabo vuol dire testualmente recitazione, e difatti si legge ritualmente ad alta voce, salmodiando. Il Libro Sacro è diviso in 114 sure o capitoli, in ordine di lunghezza, in tutto 6200 versetti, 77.934 parole. Vi sono gare internazionali di interpretazione che si tengono alla Mecca annualmente, e molti dei partecipanti conoscono a memoria il testo integrale.
Un piccolo riassunto storico (senza pretese…)
Per capire il MENA di oggi, è utile, se non indispensabile, avere un’idea del percorso tortuoso che ha prodotto la realtà con la quale ci rapportiamo.
Le prime tracce di civiltà della regione, risalgono al II° millennio a.C., con il favolistico regno di Saba e altre culture discendenti. Per molti secoli, la struttura sociale è rimasta pressoché immutata, da un lato, nella porzione meridionale della penisola arabica, si costituirono nuclei stanziali che disponevano di conoscenze sorprendentemente avanzate tecniche e idrauliche, e si dedicavano ai commerci di spezie e resine, dall’altro, a settentrione, si muovevano tribù nomadi, prevalentemente beduini (ovvero letteralmente “uomini del deserto”), che erano allevatori di ovini e dromedari, e percorrevano le steppe seguendo le esigenze delle greggi, ma erano anche piuttosto bellicosi, non disdegnando di assaltare altri gruppi nomadi o carovane di mercanti per depredarli.
L’antica struttura tribale, ulteriormente suddivisa in clan e quindi famiglie, in qualche modo, riverbera tutt’ora nei rapporti sociali e professionali di buona parte del mondo arabo, ove vi è una cognizione della famiglia e dei legami di sangue, molto allargata rispetto ai costumi occidentali. Si pratica abitualmente una forma di mutua solidarietà e supporto personali fra i membri, ma vengono favoriti anche i contatti d’affari e la spartizione del potere politico in ambito intratribale, fino ai massimi livelli.
Nel 610, il profeta Maometto (traslitterato dall’arabo come Muhammad ma anche con varianti lievemente diverse), dopo essersi ritirato sul monte Hirà, durante la notte del destino, ebbe diverse visioni suggerite dall’Angelo Gabriele, e cominciò così a professare quella che considerava la religione originaria dell’uomo: l’Islam. Il 622, segna l’inizio formale dell’era islamica, con il tortuoso viaggio del Profeta, di quasi 500km, fra deserti inospitali e aspre montagne, da Mecca a Medina, noto come l’Egira, “la migrazione”. Per il calendario islamico perciò, il ventesimo secolo si inaugurerà solo fra seicento anni.
Non fu immediata, né sempre pacifica, l’accoglienza dell’Islam, presso tribù da secoli politeiste e non tutte originariamente arabofone, e dovette passare attraverso una campagna determinata di battaglie e conversioni. All’inizio del VII secolo, infine, il Profeta riuscì nell’intento di fare degli arabi una nazione, fondando uno stato teocratico nel quale ogni arabo musulmano si potessero riconoscere.
Sviluppo dell’Islam e espansione territoriale
Alla morte di Maometto, gli arabi vararono l’istituto califfale e, in un primo tempo, le energie si concentrarono nel consolidamento della struttura politica e sociale del nuovo Stato dei fedeli, successivamente si inaugurò l’era delle conquiste espansionistiche, che fu fortunata e poderosa.
La diffusione del dominio arabo-musulmano tuttavia, non fu solo dovuta a successi militari, diverse popolazioni precedentemente assoggettate ai bizantini o ai persiani, preferirono sottomettersi agli arabi piuttosto che continuare a pagare i gravosi tributi imposti dai dominatori antecedenti.
Nelle zone conquistate, il potere politico era riservato ai nuovi occupanti, ed era normalmente praticata la schiavitù, tuttavia, secondo la legge coranica, i convertiti ottenevano pieni diritti civili, ed erano obbligati unicamente al versamento di modeste tasse personali, mentre coloro che preferivano non convertirsi, erano soggetti ad una tassazione superiore, sebbene non esorbitante, ed è rilevante osservare che gli era concesso mantenere libertà di culto e una qualche autonomia nei diritti civili.
Intorno al 661, i musulmani cominciarono a differenziarsi. Dapprima con il kharigiti, con l’alidismo (poi evoluto nello sciismo), con il mutaziliti e da ultimo il sunnismo. Il sunnismo, oggi è la corrente largamente maggioritaria, seguita numericamente dallo sciismo, e infine dall’Ibadismo. A loro volta, le correnti citate si distinguono in numerose scuole, componendo, nell’insieme, una galassia molto articolata e realmente difficile da comprendere per un europeo. Fra queste distinte concezioni dell’Islam, nel corso della storia, la convivenza non è sempre stata facile, ed è tutt’ora è motivo di divergenze profonde.
Nello stesso anno 611, a seguito di sanguinose battaglie intestine, il califfato divenne un’istituzione ereditaria, e la capitale si spostò prima a Damasco poi a Baghdad, per volontà di due diverse dinastie che si susseguirono alla guida della Nazione Araba.
Le campagne di conquista
Accanto ai frequenti riassetti di forze interne, proseguivano intanto le conquiste militari di ampliamento territoriale, e dopo aver sconfitto l’impero bizantino e quello persiano, gli arabi allargarono la propria influenza in Nord Africa fino al Marocco, e a nord est fino all’Armenia, fra la fine del settimo e l’inizio dell’ottavo secolo.
Nel 711 i berberi entrarono in Europa e si impadronirono della Spagna, scalzando i Visigoti, e venendo chiamati “mori” o “saraceni” dagli europei. Sono ancora presenti meraviglie architettoniche, un ampio retaggio culturale e, non ultimo, anche un certo influsso genetico, in Spagna in particolare, e più in generale nelle aree mediterranee raggiunte dall’occupazione saracena.
E’ del 717 il celebre assedio di Costantinopoli, nel corso del quale però, la flotta araba soccombette, dovendo temporaneamente rinunciare alle mire verso la penisola balcanica. Dalla Spagna, si insediarono in Sicilia, nei primi anni del nono secolo, dove rimasero oltre 200 anni, con frequenti incursioni e scorrerie verso le coste della Sardegna, Corsica, Provenza, e di buona parte dell’Italia meridionale e insulare, dando vita talvolta ad insediamenti stabili, che fusero le proprie tradizioni e conoscenze con quelle preesistenti greco-latine, producendo in quei territori indubbi progressi, in molti campi
La resa dei conti in Europa
I mori tentarono la sorte anche attraverso la terra ferma, e con il proposito di sottomettere altri Paesi europei, oltre alla Spagna, valicarono i Pirenei, conquistando ampi distretti della Francia meridionale, ma l’esercito di Ab dar-Rahman, venne definitivamente fermato dai franchi di Carlo Martello, nella celeberrima battaglia di Poitiers, a 300 km da Parigi, ovvero nel pieno cuore dell’Europa occidentale. Secondo molti storici, un esito diverso di quello scontro, avrebbe condizionato significativamente la futura storia europea.
Non a caso, il re merovingio arruolò anche contingenti di sassoni, gallo-latini e altri popoli germanici, con lo spauracchio di una sorta di minaccia “continentale” alla tradizione cristiana. Per altro, si diffuse proprio nel Medio Evo, dopo le suddette campagne di conquista, la prima forma di narrazione distorta e fuorviante sull’indole degli arabi. Quando i soldati europei, si trovarono di fronte nemici barbuti, esaltati, che non avevano paura della morte, e si lanciavano senza armatura negli scontri ravvicinati, non pensarono ad una radicale differenza culturale (anche in ambito bellico), ma ad una sorta di possessione innaturale e quasi demoniaca.
In sostanza, per secoli, la Nazione Araba riuscì ad ampliarsi, resistette alle Crociate e all’invasione dei mongoli, conobbe lo splendore di Costantinopoli, di Isfahan e del Gran Mogul, e nell’epoca d’oro islamica, l’impero era più vasto di quello di Alessandro Magno, estendendosi dall’Atlantico al sub-continente indiano.
La decadenza dell’impero Islamico e la parabola Ottomana
Nei secoli successivi però, seguendo un destino comune ad altri imperi nella storia, l’ampiezza smisurata fece progressivamente collassare il sistema, con un’amministrazione sempre meno efficiente, rivendicazioni nazionali in molte province, un contrasto crescente fra il potere centrale e le periferie sfruttate, e forze armate pletoriche e relativamente coese. Tutto ciò favorì la disgregazione del potentato arabo e l’ascesa dell’impero ottomano, il quale, in un tempo relativamente breve, conquistò buona parte dei territori del califfato, e durante il sedicesimo secolo, ridisegnò totalmente la mappa del potere in Medio Oriente.
Quindi, salvo alcune porzioni (i territori degli attuali Iran e Marocco), che per vari motivi riuscirono a conservare una propria indipendenza, gran parte degli arabi divennero di fatto sudditi ottomani, e in quella condizione restarono fino alla prima guerra mondiale, quando l’impero ottomano venne radicalmente smembrato, sotto i colpi degli alleati, dopo essere arrivato. all’acme dello splendore, fra il XVI e XVII secolo, a occupare dall’Algeria all’Azerbaijan, controllando gran parte delle regioni balcaniche a nord, e avere assediato Vienna, senza però riuscire a prenderla.
Con la caduta dell’impero ottomano, il mondo arabo precipitò in una crisi senza precedenti. Le potenze vincitrici si divisero le spoglie e, quasi tutti i Paesi arabi, dal Marocco all’Iraq, divennero colonie, protettorati o zone di influenza occidentali. Il colonialismo formale o economico si impose spesso con brutalità, e le popolazioni locali vennero soggiogate e depredate, talora per decenni.
Colonialismo ed età moderna
Il processo di liberazione per l’ottenimento dell’indipendenza, occupò un arco temporale importante, fra gli anni ’20 e gli anni ’60, del novecento, quando la Francia, per ultima, lasciò i territori nordafricani. Non sarebbe appropriato generalizzare, in quanto le forme di colonialismo inflitte, furono abbastanza diverse, le une dalla altre, qualche volta lasciando un’eredità di infrastrutture, sistemi pubblici e servizi, e qualche altra meramente spogliando le risorse locali.
Anche il post colonialismo, è stato mal gestito, e di frequente ha visto dilatarsi gli squilibri, le diseguaglianze sociali e l’arretratezza economica; un insieme di condizioni che ha portato, come effetto collaterale, un esodo di popolazioni rurali verso la aree urbane, e una polveriera di tensioni interne, generate dall’aspirazione, spesso frustrata, ad una vita migliore.
In buona sostanza, la storia del novecento nella regione, è complessa e controversa, sfortunatamente costellata di molte prevaricazioni ed errori da parte di tutti gli attori in campo, e ha gettato le basi per il panorama accidentato dei rapporti attuali. La costituzione dello stato di Israele, infine, nel 1948, che non ha visto il contemporaneo riconoscimento internazionale di uno stato palestinese (riconoscimento tutt’ora limitato), ha ulteriormente esacerbato i rapporti regionali e internazionali, suscitando dissidi che rimangono all’ordine del giorno nelle cronache dell’area.
La liberazione dal giogo straniero, e il ripudio di tutti i modelli importati, i codici, e i comportamenti occidentali, interpretati come portatori di dissolutezza e minaccia per l’identità culturale dei popoli arabi, sono diventati perciò obiettivi essenziali del rinascimento islamico degli ultimi decenni. Sono stati i fallimenti politici, sia delle potenze internazionali che dei governi locali, a portare alla ribalta l’integralismo. In qualche modo, è stata una risposta populista, che chiunque potesse capire, ad un malcontento stratificato, alla povertà, alla privazione di democrazia, la corruzione, alle ingiustizie, ma soprattutto alla mancanza di prospettive realistiche e credibili.
L’epoca contemporanea e il quadro socio-economico attuale
E’ evidente che la stabilità politica di una regione tanto strategica, influenzi i destini e gli equilibri politici ed economici del mondo. Non a caso, per ottenerla, quasi tutti gli scranni dei capi di governo sono stati, a lungo, più o meno apertamente difesi dai servizi segreti occidentali e, non a caso, la guerra in Iraq del 2003, e le crisi siriana e libica, hanno impattato in modo fragoroso sugli equilibri economici planetari, anche, ma non solo, per le ripercussioni sul mercato globale dell’energia.
Naturalmente non tutti, nel corso del tempo, hanno lavorato “contro” la pace e l’interesse dei popoli del MENA, ma purtroppo, a dispetto dei molti volenterosi tentativi di mediazione, conciliazione e dialogo, il destino della regione rimane tutt’ora precario e mutevole.
L’esplosione violenta del fondamentalismo islamico, seguita all’attentato dell’11 settembre 2001, ha rafforzato la polarizzazione e la diffidenza reciproca, fra occidente e mondo arabo (uno dei veri obiettivi del terrorismo, purtroppo centrato), portando non solo una parte di popolo, ma anche alcuni noti pensatori arabi a giudicare la globalizzazione come un demone imperialista da respingere, mentre altri, per contro, vedono in una parte del modello di vita occidentale, alcune delle risposte alla risoluzione dei problemi, in parte sopra descritti, che affliggono storicamente la regione (la disoccupazione, per dirne una, in alcuni stati, supera il 40%).
Sono gli arabi stessi le prime vittime di questi contrasti, e di questa cornice apparentemente cristallizzata, tutto il mondo ne ha preso atto nel 2011, quando le piazze si sono riempite dell’energia naturale delle nuove generazioni, alla ricerca di una affermazione, di lavoro, libertà individuali e di una via allo sviluppo propria, non necessariamente ispirata ad un modello precostituito. Il fenomeno della cosiddetta “primavera araba”, che per una breve stagione ha travolto tutta l’area del MENA.
Purtroppo, gli effetti dei venti di rinnovamento sono calati abbastanza rapidamente, lasciando il senso di una situazione gattopardesca, dove pareva cambiasse tutto e ha finito per non cambiare quasi nulla; con qualche eccezione virtuosa, come la Tunisia, dove qualche seme si direbbe aver germogliato.
Nel 2018, infatti, è stata eletta la prima sindaca nella storia del mondo arabo, a Tunisi, mentre da pochi giorni, Najla Bouden Romdhane, è ufficialmente la prima premier della storia, in un Paese arabo. Secondo alcuni si tratterebbe solo un’operazione di facciata, ma comunque importante, tanto che, ad oggi, non sarebbe stata praticabile in molti altri Paesi della regione, né tantomeno del resto del Pianeta.
Conclusioni
Alla luce di quanto sopra, dovremmo aspettare una definitiva modernizzazione sociale e istituzionale per relazionarci con questi Paesi e farvi business? O magari dovremmo arrenderci allo stereotipo apocalittico, ora abbastanza condiviso; ovvero quello di una parte di mondo “perduta”, oscurantista e segregazionista, affollata di martiri della Jihad, la cui meta ideale rimane la restaurazione dell’antico califfato?
Naturalmente no! Ribadisco con forza che l’incomprensione e la riduzione a cliché preconfezionati, sono i veri nemici, dell’una e dell’altra parte. Si usa dire che faccia molto più rumore un albero che cada di quanto non ne faccia un’intera foresta che cresca, e questo adagio ben si applica alla realtà del MENA.
A dispetto di tutti gli errori storici, remoti e contemporanei, e delle operazioni politiche talora mirate a distruggere più che a costruire, la regione del MENA, nel 2021, si presenta come un’area popolata in gran parte da giovani, con talenti, aspirazioni e imprenditorialità, non diverse da quelle dei giovani europei, i quali non aspettano altro che un’opportunità per sviluppare le proprie idee di business e far crescere il proprio Paese.
Evitare di proporsi a questi mercati, di dialogare con le imprese locali, in questo momento storico, sarebbe un grave errore strategico commerciale. Rappresentano il futuro, da molti punti di vista, e la crescita vorticosa in termini numerici, dalle cifre di PIL a quelle delle movimentazioni di import-export, parlano chiaro.
Nella seconda parte, entreremo approfonditamente proprio negli aspetti più strettamente correlati alle relazioni business.
Saverio Pittureri
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Agente o distributore internazionale?
Considerazioni preliminari
La necessità di vendere e concretizzare gli investimenti effettuati e, non di rado, le lunghe attese per vedere qualche risultato, conducono spesso le piccole imprese a scelte precipitose di acquiescenza rispetto alle poche proposte pervenute dai Paesi bersaglio.
Nel legittimo timore di perdere i potenziali interessati, si pongono poche domande e condizioni all’interlocutore, e talora non si stabilisce nemmeno un rapporto contrattuale formale.
E’ assolutamente vero poi, che esista quasi sempre uno scarto fra l’ideale ed il reale, e che siano molto comuni i rapporti commerciali ibridi o non ortodossi, fondati su accordi peculiari e difficilmente riconducibili ad una precisa fattispecie giuridica.
Queste “invenzioni” possono funzionare bene anche a lungo (ma anche farci perdere anni senza riscontri), se si sviluppano sull’esperienza di persone capaci e con conoscenza del mercato, tuttavia rimane preferibile conoscere, e quando possibile orientarsi, sulle opzioni formalmente riconosciute e più confacenti ad una certa realtà aziendale e settore merceologico.
Forme di promozione e distribuzione
Tecnicamente esiste un numero piuttosto ampio di rapporti commerciali inquadrabili in una cornice legislativa accreditata, che spaziano dalla grande distribuzione, alla vendita al dettaglio con punti vendita propri o altrui, alla vendita on-line, alle trading company, la compartecipazione con aziende locali, i consorzi e le ATI, le agenzie governative, i franchising, i “piggy-back” e svariati altri.
Non esiste invece una soluzione migliore tout court, piuttosto ciascuna forma presenta evidentemente vantaggi e punti deboli sia in termini assoluti che in rapporto ad un determinato contesto, ma anche un diverso grado di impegno finanziario, di risorse umane, una diversa necessità di know-how organizzativo e diversi esiti attesi in termini di volumi e di tempi.
Come è intuibile poi, non tutte le tipologie di rapporti menzionate, si prestano indistintamente ad ogni prodotto ed ogni mercato, ed è compito dell’azienda esportatrice identificare il canale e/o l’intermediario più adatto alla propria proposta di prodotto e servizio, e compatibile con la propria politica commerciale.
Può avvenire, e non è una decisione peregrina, che un’impresa scelga di “assaggiare” un mercato, attraverso un approccio poco impegnativo in termini finanziari e, solo successivamente, alla luce delle risultanze emerse, passi ad una forma di penetrazione più coinvolgente, ovvero che opti di attuare contemporaneamente più di una strategia alternativa e/o complementare, diversificando investimenti e rischi.
Agente o distributore?
Premesso quanto sopra, in questo scritto ci concentriamo solo sulle due figure centrali, sia nei desiderata che nella concreta operatività quotidiana delle piccole imprese: il distributore e l’agente internazionali. Indipendentemente da quale delle due strade si scelga di percorrere, vorrei rimarcare alcune distinzioni e alcune accortezze, che si rivelano universalmente e trasversalmente nodali.
La precipua e preminente differenza fra le due figure riguarda il legame con l’azienda italiana. Il distributore o concessionario tratta in nome e per conto proprio, acquistando e rivendendo i prodotti del cedente italiano, a propri clienti, per i quali risulta normalmente il solo interlocutore, quindi il solo ad averne la gestione.
L’agente invece, pur conservando una propria piena autonomia, agisce per conto del preponente e quando sia dotato di potere di rappresentanza, anche in nome dello stesso, e funge meramente da intermediario nei confronti degli acquirenti, che rimangono tecnicamente clienti dell’azienda mandante italiana.
Il quadro giuridico
Essendo le due figure radicalmente diverse (per quanto non manchino casi di operatori promiscui), e ai distinguo generali, si sommano quelli declinati e moltiplicati per i diversi mercati mondiali, il risultato è che il tema del confronto risulti di una vastità disarmante. Non possiamo quindi che fornire alcuni consigli e ammonimenti, fatalmente generici e incompleti, sperando tuttavia, che in qualche modo si dimostrino funzionali, ai fini di un primo orientamento.
Caldeggiando in ogni caso, il ricorso ad un professionista preparato, che possa supportare adeguatamente l’azienda culturalmente, commercialmente e giuridicamente, in un determinato contesto e con una determinata controparte.
Il primo punto raccomandabile riguarda il privilegiare sempre i rapporti regolati da contratti in forma scritta, ovviamente coerenti con l’impianto giuridico del mercato di riferimento, e caratterizzati da obbligazioni precise per le parti, obiettivi ben definiti e previsioni nel caso di mancato raggiungimento degli stessi.
Alcuni riferimenti importanti, in linea generale, per la disciplina dei contratti, sia di distribuzione che di agenzia, si possono trarre da varie convenzioni internazionali, norme comunitarie, norme transnazionali, usi e prassi; fra questi, certamente la Convenzione di Vienna del 1980, quella di Roma del 1980 e quella di Bruxelles del 1968, nonché i principi UNIDROIT e dagli INCOTERMS (applicabili ai singoli acquisti e non all’impianto contrattuale d’insieme) contengono i collegamenti più significativi.
Sono però soprattutto da considerare gli specifici diritti nazionali, che possono riservare sorprese non gradite, anche quando contrattualmente dovessimo concordare foro e legge italiana, sia per l’eventuale non riconoscimento delle sentenze, che per la prevalenza del diritto locale su quello scelto dalle parti, ad esempio nei casi ove viga la Sharia, ma non solo.
Consideriamo inoltre che, poiché ci poniamo nella posizione di azienda venditrice, tipicamente la “prestazione caratteristica” che contraddistingue il rapporto commerciale, si svolga nel Paese della controparte acquirente, dunque in linea di massima, in mancanza di pattuizione scritta, questo aspetto fa sì che si applichi la giurisprudenza di detto Paese.
In questa brevissima disamina, infine, non dimentichiamo che in molti Paesi (fra di essi i grandi Paesi europei) l’agente ha diritto ad un’indennità di fine rapporto e, talora per “fatti concludenti”, quando gli vengano concessi un compenso fisso e/o alcuni benefit possa rivendicare di fronte ad un giudice, un rapporto occulto di dipendenza.
Le decisioni più opportune
Alla luce di quanto sopra rappresentato, con tutti i limiti menzionati, e in funzione delle strategie configurate, andiamo a sintetizzare quali possano essere i più caratteristici e significativi pro e contro delle due figure, nell’ottica del fabbricante italiano.
Si è già fatto cenno al controllo sui clienti, che tipicamente il distributore esercita, il quale, in tal modo, ha di fatto in mano il mercato e, in caso di risoluzione del rapporto, può riuscire a veicolare gran parte dei suddetti clienti verso un nuovo prodotto . Detto controllo tuttavia implica anche il farsi carico di servizi post-vendita, assistenza tecnica, garanzia, procedure e spese di incasso e rischi di insolvenza.
Alcune delle incombenze sopraelencate, possono essere parzialmente ribaltate sul produttore ma restano rischi imprenditoriali in capo al concessionario, di cui evidentemente si sgrava la controparte italiana, il principale dei quali è la giacenza della merce sulla quale il distributore investe.
Il distributore, salvo eccezioni, si occupa anche di tutte le pratiche di sdoganamento, ottenimento di eventuali concessioni e licenze, attività promozionali precipue (per prevenire l’invenduto di cui sopra) e raccolta di informazioni sul mercato e sulla concorrenza.
Il contratto frequentemente prevede obbligazioni articolate e vicendevoli fra le parti, tipicamente ve ne sono di acquisto, di esclusiva, di formazione, di partecipazione ad attività di marketing, ecc… che possono essere modulate in funzione del tipo di mercato in questione e delle esigenze specifiche.
Quando, per entrambe le parti, sussistano la buona fede e l’aspettativa verso il successo del prodotto, diventa interesse comune instaurare una collaborazione sinergica e un programma strategico condiviso, nonché applicare una certa flessibilità soprattutto nelle prime fasi di apertura del mercato, quando lo sforzo e l’investimento, normalmente prevalgono sui guadagni.
Nel rapporto con l’agente invece, sia le possibilità di collaborazione che i vincoli contrattuali sono normalmente più ridotti. Il rischio di inadempimento del cliente finale si riverbera direttamente sul preponente (salvo alcune singolarità locali), tuttavia si possono prevedere anche clausole per coinvolgere l’agente nell’azione di recupero del credito. L’impresa mandante è abitualmente responsabile sia delle operazioni inerenti il recapito della merce, che della garanzia e del servizio post vendita.
La fattispecie dell’agente però, può presentare gradi molto diversi di organizzazione e complessità, soprattutto per quanto riguarda i rapporti di agenzia internazionali, per cui, oltre all’ovvio raggiungimento di obiettivi di vendita, talora possono essere previsti anche impegni più ampi, fra i quali la raccolta di informazioni sul mercato, l’assistenza ai clienti, la pubblicizzazione dei prodotti, il deposito e la consegna ai clienti per conto del preponente, l’aggiornamento sulle normative e la già citata assistenza sui crediti.
Nei suddetti casi, si tratta solitamente di strutture abbastanza grandi e composite, che si servono di più persone o anche di subagenti, e che, nella pratica operativa, si collocano un po’ a metà strada fra l’agente e il distributore. In tali circostanze però, è bene definire formalmente e con estrema chiarezza i compiti e i limiti dell’intermediario, a maggior ragione, quando detta agenzia rappresenti anche prodotti e società diverse.
All’altro estremo, esistono soggetti per i quali si adatta maggiormente un rapporto episodico o occasionale, che possono essere segnalatori, broker o procacciatori, i quali implicano costi molto limitati per l’impresa e minori vincoli (quali ad esempio il trattamento di fine rapporto). Queste figure possono rivelarsi particolarmente utili nell’esplorare un determinato mercato che conosciamo poco, nel quale successivamente si può scegliere di immettere un maggiore impegno o meno, con maggiore cognizione di causa.
conclusioni
Come ricordato nelle premesse, è frequente il caso in cui si debba guardare oltre la formalità “scolastica” sulla classificazione dell’intermediario incaricato, e valutare piuttosto l’efficacia dell’azione.
Andrebbero tuttavia investigati alcuni capisaldi sostanziali, quali la consapevolezza delle caratteristiche di mercato, delle preferenze e degli umori della clientela, la determinazione nella diffusione dei prodotti ed insieme del nome e del marchio, con obiettivi di fidelizzazione diretta o indiretta, la capacità di prevenzione e la risoluzione di problemi commerciali, tecnici e amministrativi. Tali requisiti dovrebbero essere la nostra bussola, nella scelta di coloro che si mostrino più in sintonia coi nostri desiderata e successivamente nella costruzione di accordi coerenti.
L’altro consiglio fondamentale è quello di non abbandonarsi all’inerzia e attendere che le cose succedano ma, viceversa, con qualsiasi interlocutore e in qualsiasi mercato si agisca, essere sempre proattivi e partecipi nelle attività impostate, insistere fino a rischiare di sfiorare l’invadenza, per condividere le informazioni e le strategie con l’intermediario, e naturalmente confrontarsi sui risultati che via via maturano.
E’ il solo modo per ottenere diversi effetti virtuosi contemporanei: aumentare il proprio grado di consapevolezza del mercato, fare sentire all’intermediario la nostra partecipazione e motivazione, e magari la nostra fiducia, ed eventualmente, rendersi conto precocemente se questi sia o meno il partner più adatto per noi.
Saverio Pittureri
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Il piano export, cos’è e a cosa serve
Se per le grandi imprese costruire un business plan export è pratica normale, non altrettanto si può dire per le piccole imprese, dove l’imprenditore, il più delle volte, lo percepisce come un’enunciazione altisonante e vuota o, nella migliore delle ipotesi, una mera esercitazione formale, buona per chi faccia fumo e non arrosto.
Provo qui di seguito a spiegare perché, a mio avviso, non è così.
Cos’è un piano export?
Il piano export o business plan export, è uno strumento che parte da una approfondita auto-analisi del merito aziendale, e si sviluppa in un’articolata e realistica proiezione di attività interconnesse e relativi investimenti, sviluppati nel medio periodo, al fine di avviare e successivamente consolidare un processo di internazionalizzazione di impresa, precedentemente identificato.
Per la realizzazione del suddetto complesso di attività, occorre sapere determinare i mezzi, le risorse finanziarie, tecniche, produttive e il capitale umano necessari, mettendo in luce i benefici e le potenziali minacce, in modo da ottimizzare gli sforzi e prevenire, per quanto possibile, errori e sprechi.
Com’è fatto nella pratica?
Premesso che la forma ha scarsa importanza e non esiste un modello unico per redigerlo, tuttavia genericamente sarebbe preferibile che la stesura non superasse le 20 pagine, e dovrebbe essere costituito sia da una componente descrittiva che riguardi l’analisi precedentemente accennata, ma anche la pianificazione strategica e gli obiettivi stabiliti, che da una porzione, strettamente correlata, prettamente economico-finanziaria.
Nel piano export non dovrebbero essere nascosti i problemi ma al contrario, fatti emergere ed associati, se possibile, a soluzioni percorribili.
A cosa serve?
Serve sia per finalità “esterne” che “interne” all’impresa.
Quelle esterne possono riguardare l’ottenimento di un finanziamento pubblico o privato la cui richiesta, associata ad un buon piano export, risulta normalmente molto più convincente (nel pubblico talora è condizione necessaria). Ugualmente serve ad illustrare efficacemente il progetto a soggetti terzi che possano partecipare in qualità di soci, partner commerciali, sponsor o ad altro titolo.
Evidentemente la forma ma anche alcuni contenuti del piano, devono tenere conto del destinatario, aggiungendo ad esempio qualche nota sulle caratteristiche dell’impresa, e sul perché si intenda esportare, nonché specificatamente perché sviluppare e gestire quel determinato piano.
Quelle interne invece, oltre a rendere più chiaro il progetto a chi non vi abbia direttamente partecipato, mettono in moto l’autocoscienza, e rendono consapevole l’impresa su quali passi, attività, tempi, difficoltà, effettivamente comporti attuare il processo delineato.
Un risvolto meno esplorato, è che spesso il piano export possa rivelare aspetti inattesi e nascosti, legati alle possibilità dell’impresa, e crei, di conseguenza, l’occasione per impostare un lavoro proficuo in una nuova direzione, autonoma e indipendente dal piano.
Le caratteristiche tipiche strutturali
Presumiamo che si sia già individuato un Paese (o un’area omogenea), sulla base di valutazioni razionali e di reali attrattiva, ovvero dove si presentino le maggiori opportunità e i minori rischi, per le caratteristiche dell’impresa e del prodotto/servizio.
Detta scelta, particolarmente critica, implica indagini a 360°, che investano ricerche e considerazioni macroeconomiche, culturali, ambientali, sociali, congiunturali, fiscali, logistiche, doganali, giuridiche, documentali, settoriali, sulla concorrenza, ecc… e ovviamente l’esito di questa analisi, determina l’impalcatura del piano export che si conforma peculiarmente su quel mercato.
Si procede quindi alla configurazione strategica che, sulla base delle informazioni raccolte, individua un pubblico target, a cui si armonizzino sia la modalità di ingresso che le campagne di comunicazione.
Vengono costruite le caratteristiche della proposta di prodotto e/o servizio, con eventuali adattamenti, che esaltino il vantaggio competitivo e, in parallelo, si definisce un budget di spesa appropriato e sostenibile, tenendo ben presente che l’azienda sia nelle condizioni per sopportare l’investimento, durante un periodo medio-lungo, diciamo 3/5 anni (a tal proposito è bene verificare le fonti di finanziamento).
La successiva fase operativa prevede naturalmente l’applicazione di quanto teorizzato, con attività commerciali, promozionale e strategiche, coerenti al progetto, e il perseguimento di obiettivi che devono essere evidentemente stimolanti ma realistici.
E’ fondamentale il monitoraggio costante non solo dei risultati, ma anche delle condizioni di mercato che, se mutate, devono trovare risposta pronta e congrua. Senza indugio occorre modificare le iniziative poco funzionali e/o redditizie, ovvero eccessivamente onerose o rischiose, ma al tempo stesso capire lucidamente dove invece sia opportuno perseverare nonostante il ritardo sulle aspettative.
Un buon piano export deve cioè essere dinamico e costantemente aggiornato, in funzione, come detto, sia delle evoluzioni inevitabili del mercato, che della crescita di esperienze e conoscenze aziendali attraverso le quali, non di rado, vengono suggerite piccole o grande correzioni di rotta.
Chi lo dovrebbe scrivere e poi gestire?
La persona deputata a compilare il piano export, e verosimilmente ad attuarlo e gestirlo, dovrebbe avere capacità ampie e trasversali, essere in grado di avere una visione d’insieme, sapere coordinare altre persone, possibilmente conoscere la lingua e la cultura del mercato bersaglio, contare su una buona preparazione commerciale ed economica, ma anche di marketing e comunicazione.
In sintesi, le competenze da mettere in campo affinché il progetto possa andare a buon fine, non sono affatto trascurabili.
In linea di massima, la figura in grado di corrispondere a questo profilo, è un export manager con buona esperienza, che si coordini strettamente con la proprietà o con i responsabili dei vari comparti aziendali; può essere anche un consulente esterno, purché empatico e ben integrato con l’azienda.
L’incarico può essere ugualmente affidato ad un gruppo di lavoro ma, per esperienza, anche in questi casi, funziona meglio quando si elegga comunque un responsabile, che inevitabilmente incarni il motore del progetto.
Si può esportare senza un piano export?
Ovviamente sì.
E’ la modalità che tutt’ora adotta gran parte delle PMI italiane. Scegliere uno o più mercati, secondo criteri più o meno razionali (più spesso in maniera improvvisata), e fare qualche tentativo navigando a vista, partecipando, ad esempio, in modo estemporaneo a qualche fiera o assecondando vere o presunte opportunità casuali.
Le incognite che comporta questo approccio sono palesi. Grande spreco di tempo e denaro in direzioni e attività scarsamente strategiche, enormi ritardi di reazione in caso di insorgenza di difficoltà, alle quali non si è preparati, assoluta incertezza in termini di costi e ritorni attesi.
Gli imprenditori non sempre ne sono consapevoli, ma puntualmente se ne rendono conto, retroattivamente, nel momento in cui finalmente accettino di operare diversamente.
Conclusioni
Il piano export non deve essere considerato un gravame inutile, né un paludato esercizio accademico fine a sé stesso, viceversa, come per qualsiasi altro strumento, se lo si adatta alle proprie esigenze e lo si interpreta con la giusta flessibilità e professionalità, può costituire realmente un grande aiuto anche per le piccole imprese, sia in termini di cognizione di causa che di concreto risparmio di tempo e di denaro.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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Il Temporary Export Manager: perché ricorrervi e come sceglierlo
Cos’è un Temporary Export Manager?
Il TEM è un professionista con una comprovata esperienza chiamato a mettere le proprie capacità al servizio dell’azienda committente, tipicamente una piccola o media impresa, al fine di avviare un processo di internazionalizzazione o più semplicemente di aumentare le vendite sui mercati esteri. E’ quindi un soggetto capace di produrre un valore aggiunto sia di tipo economico che organizzativo.
Quali caratteristiche deve avere?
Si possono fare importanti distinzioni a seconda del contesto e dei propositi dell’impresa nella quale si inserisce. In linea generale è comunque opportuno che si tratti di una figura capace di comprendere e adattarsi rapidamente agli orientamenti aziendali e all’ambiente dove si trova ad operare, con disponibilità, qualità relazionali e cultura.
Nel contempo però, soprattutto se bravo, il TEM è destinato fatalmente a stimolare un qualche cambiamento nell’ecosistema aziendale, e spesso a produrre un impatto virtuoso sulle risorse che vi operano, ma data la resistenza al cambiamento abbastanza diffusa, deve avere l’autorevolezza per argomentare adeguatamente la propria visione strategica, supportata da elementi di concretezza, di serietà e di facile comprensione degli obiettivi, nonché l’abilità di fare tesoro del proprio osservatorio di terzietà.
L’internazionalizzazione implica un notevole arsenale di competenze che idealmente dovrebbero essere incarnate da soggetti diversi con un percorso peculiare.
Competenze di carattere commerciale, di comunicazione, di ordine giuridico, doganale, fiscale, finanziario, logistico, ecc…non ultima anche una acclarata dimestichezza nell’uso degli strumenti informatici. Il TEM pertanto, pur non potendo evidentemente sostituire delle professionalità specifiche, è tenuto ad avere una preparazione multidisciplinare approfondita, che possa orientare correttamente le attività e prevenire errori sanguinosi, ma possa anche dialogare e interfacciarsi con cognizione di causa, con specialisti delle singole discipline (avvocati, doganalisti, ecc..)
L’insieme delle prerogative brevemente riassunte, delineano il tratto identitario di una figura senior di alto profilo, chiara levatura tecnica, personalità e con esperienze comprovate in molte realtà diverse.
Quale Temporary Export Manager per quali prospettive?
Vi sono numerosi scenari possibili che si possono realizzare e che suggeriscono su quale tipo di offerta sia preferibile propendere, a titolo esplicativo ne riportiamo solo alcuni fra i più comuni, con la chiara consapevolezza però, che il criterio guida debba essere quello di una risposta su misura.
Nel caso, per esempio, in cui dall’azienda non sia mai stata intrapresa alcuna attività strutturata di esportazione, il TEM prescelto dovrebbe auspicabilmente associare, alla ovvia dimestichezza nella ricerca di clienti, abilità progettuali e analitiche, per sapere individuare i mercati più idonei, definire il piano strategico di entrata coerente con i molti fattori incidenti, e prevedere un appropriato piano di comunicazione che accompagni efficacemente le azioni commerciali.
Laddove invece sussista già una certa attività di vendita internazionale, che per qualche ragione occorra rilanciare e innervare di energia, si faranno preferire soggetti abituati ad un approccio prettamente operativo che, senza trascurare il contributo strategico e l’applicazione di eventuali correttivi, possano, intervenendo in prima persona nell’esecuzione quotidiana, e in tempi relativamente brevi, ottenere l’impulso desiderato.
Qualora infine l’impresa si trovi a voler affrontare un salto di qualità, passando da una prima fase di esportazione ad una seconda di internazionalizzazione vera e propria, il TEM interpellato è bene che abbia un rilevante background specialistico, in linea con le esigenze puntuali del committente, come ad esempio l’apertura di filiali, la capacità di negoziare accordi di joint-venture, l’accesso a finanziamenti precipui, l’identificazione di strutture produttive e un know-how complessivo tutt’altro che banale.
Quanto a lungo può durare la collaborazione?
La definizione contenuta nel nome “Temporary” presupporrebbe un rapporto di durata limitata, in realtà però sarebbe più corretto, coerentemente con quanto ricordato sopra, armonizzare la durata con le caratteristiche dell’intervento e con gli obiettivi fissati.
Quando, per ipotesi, l’azienda abbia come obiettivo prioritario quello di rivitalizzare il proprio export “incagliato” ecco che la collaborazione può svolgersi in un arco di tempo relativamente breve, un orizzonte semestrale o annuale, in modo particolare se il Temporary Export Manager ha già conoscenza del prodotto o almeno del settore merceologico, e possibilmente delle lingue dei mercati di riferimento.
Se viceversa la società richiedente, abbia in animo di avviare da zero, operazioni di esportazione con aspettative di consolidamento progressivo delle partnership con distributori o agenti esteri e un progetto coordinato di comunicazione, è verosimile che i tempi richiesti possano essere più lunghi, nell’ordine di almeno due o tre anni, salvo che non si disponga di risorse ingenti e svariate persone dedicate, che evidentemente in qualche modo possono catalizzare i processi e frequentemente accorciare i tempi.
Naturalmente anche nel caso di prospettive di internazionalizzazione complessa e articolata, accennata in precedenza, i tempi, di norma si prospettano abbastanza lunghi.
Senza contare che una volta realizzato il progetto di esportazione strutturata ovvero di internazionalizzazione sia necessario gestirlo, accompagnarlo e implementarlo, assumendosi responsabilità e prendendo le decisioni giuste per il consolidamento.
Non a caso è abbastanza frequente nella pratica che, nelle suddette circostanze, generandosi un rapporto di fiducia e stima, l’accordo fra l’azienda e il TEM si prolunghi “sine die”, trasformandosi di fatto in una condizione di export management in outsourcing, che presenta comunque alcuni significativi vantaggi rispetto ad un equivalente rapporto di dipendenza.
Chi può avvantaggiarsi dalla collaborazione con un Temporary Export Manager?
Generalmente ne può trarre vantaggio l’azienda che non abbia al proprio interno le risorse adatte ad affrontare i mercati in modo adeguato oppure che, pur avendo addetti interni competenti, si trovi in uno stato di stagnazione e intravveda l’opportunità di offrire un supporto di idee, di esperienza e di operatività qualitativa, al proprio ufficio estero.
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Cosa significa internazionalizzare una PMI
Definizione di internazionalizzazione e motivazioni
Da diversi anni a questa parte il termine internazionalizzazione è diventato molto popolare. In parte perché le altre classiche leve di espansione macroeconomica, nel nostro Paese, sono strutturalmente ingessate da decenni, e in parte perché la globalizzazione, che non riguarda più le singole imprese ma l’intero sistema economico, dalla quale quindi, volente o nolente, nessuno è escluso, ha obbligato anche le aziende più refrattarie a fare i conti con i mercati o quantomeno con i concorrenti internazionali. Lo scenario vede, infatti, molti players di altri Paesi, anche di dimensioni medio-piccole, muoversi ubiquitariamente con organizzazione e determinazione, senza inibizioni riguardo ai confini nazionali, includendo ovviamente nel proprio raggio d’azione anche il nostro Paese.
In risposta a quanto sopra, per mantenere competitività e assicurarsi un futuro sano e prospero, una parte sempre crescente (ma tutt’ora limitata) di aziende italiane lungimiranti, si sta attrezzando per raccogliere la sfida, secondo il principio incontrovertibile che, non sarà mai il mercato ad adattarsi all’offerta dell’azienda, ma sempre viceversa. E’ facile prevedere che nei prossimi anni la prima discriminante di successo fra le impese, depositerà non tanto nella dimensione, ma proprio nella capacità di internazionalizzare e garantirsi un vantaggio competitivo chiave per lo sviluppo, ma anche per la resistenza alle future crisi, alle mode e a qualsivoglia avversità socio-politica.
Per internazionalizzazione, tuttavia, si deve intendere qualcosa di molto più esteso e ramificato del semplice commercio. Le definizioni “scolastiche” disponibili sono molte e tutte quante, in qualche modo, insufficienti a tracciarne in modo esauriente i confini. A mio giudizio , una delle più indovinate è la seguente: “…definire quel complesso di scelte e di operazioni da attivare affinché si instaurino e successivamente sviluppino rapporti complessi e duraturi con partner di uno o più Paesi nel mondo, al fine di favorire una presenza stabile ed efficace dell’impresa sui mercati esteri.”
Le imprese che hanno avviato i suddetto percorso, sono anche quelle che, statistiche alla mano, hanno spostato maggiormente i propri investimenti dai puri beni strumentali, all’organizzazione, alla formazione, all’applicazione strategica e al know-how, ovvero puntando sul capitale umano e sul servizio in tutte le possibili accezioni, ferme restando le qualità competitive del bene prodotto. Alla luce di quanto sopra, risulta peraltro ineluttabile un costante innalzamento dell’asticella, ovvero il fabbisogno di un aumento progressivo del numero di informazioni da acquisire e di capacità da mettere in campo, per avere buone probabilità di riuscita sui mercati.
Le modalità
Non viene mai ripetuto a sufficienza come, nella nostra epoca, internazionalizzare non coincida esclusivamente e nemmeno necessariamente con esportare, viceversa le modalità operative sono molte e diverse. In futuro probabilmente tratterò la materia in modo più dettagliato, ma in questa sede, solo per limitarsi alle attività più praticate, a grandi linee si possono richiamare quelle rappresentate qui di seguito.
E’ indubbio, tuttavia, che la maggior parte delle imprese italiane ritengano l’esportazione la più interessante delle opzioni di internazionalizzazione, quando non l’unica meritevole della loro attenzione, ignorando o comunque sottovalutando quanto la stessa esportazione sia, ora, molto più ardua, quando non sia accompagnata da una convincente presenza sul territorio. Presenza che può essere diretta o indiretta, a seconda delle scelte strategiche e della cornice finanziaria sostenibile, ma comunque governata o attentamente supervisionata dall’azienda stessa. Nel medio-lungo periodo vi è una elevata e chiara correlazione, facilmente dimostrabile dai numeri, fra operazioni di consolidamento della presenza locale e affermazione nelle esportazioni.
Per lunga consuetudine, un buon numero di PMI nostre antagoniste insediate in altri Paesi, si avvantaggiano rispetto alla gran parte delle realtà italiane, per la dotazione di prodotti finiti, semilavorati, materie prime ed anche forza lavoro di provenienza extranazionale. Le imprese autoctone invece restano tipicamente ancorate alla convinzione che si tratti di una politica oscura e genericamente pericolosa, oppure al di fuori della loro portata, o semplicemente psicologicamente disagevole per disabitudine, e sopportano così costi talvolta spropositati rispetto a quelli proposti dal palcoscenico globale. Niente di più irrazionalmente pregiudizievole e fallace, evidentemente e con friabili giustificazioni di presunta qualità superiore, spesso puramente soggettive.
Per fortuna, pur lentamente, qualche segnale in controtendenza si rileva, e un crescente numero di piccole imprese italiane avvedute, cominciano a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento o addirittura si organizzano con accordi di produzione delocalizzata, divenendo tendenzialmente molto più concorrenziali.
L’impresa nel processo di internazionalizzazione
Una delle fasi preliminari più importanti è quella di identificare le risorse disponibili, i vantaggi competitivi dell’impresa, e la possibilità di valorizzarli in un determinato contesto, nonché mettere a fuoco i rischi e le ricadute che ciascuna azione intrapresa potrebbe comportare. Questa disamina che, per ovvie ragioni, dovrebbe essere la più obiettiva possibile, è auspicabile possa beneficiare di un soggetto esperto, esterno all’azienda, meno influenzato dal vissuto e dai giudizi di parte, e in grado possibilmente di dare anche un’indicazione preventiva sul mercato più idoneo.
Stabilito che al termine della valutazione propedeutica venga confermata la sussistenza di presupposti confacenti, e che il check-up preventivo delle risorse tangibili e intangibili, necessarie al progetto, le identifichi come presenti o reperibili, e sostenibili nel tempo, (comprese le competenze delle risorse umane dedicate), si può fare un passo avanti, avviando un’indagine più accurata del mercato obiettivo.
Definito poi, che i fattori esogeni, insiti in un determinato mercato (contesto socio-economico, attrattiva rispetto al mio prodotto/servizio, accoglienza culturale, assenza di barriere doganali o giuridiche, possibili commercializzazione e redditività, concorrenza superabile, ecc), risultino compatibili con il progetto, si può finalmente procedere nel definire un plausibile percorso da intraprendere più in dettaglio, prevedendo una strategia di ingresso e un’ipotesi graduale di implementazione della presenza, con eventuale radicamento nel tempo, e investimenti progressivi in ragione dei risultati ottenuti. In altre parole, si redige un business plan.
Il business plan internazionale
Anche questo argomento, come la più parte dei capoversi di questo articolo, meriterebbe (e verosimilmente otterrà) una disamina a parte, per la vastità e poliedricità delle declinazioni che può assumere. In breve però, il business plan è un documento che raccoglie le caratteristiche di un piano imprenditoriale articolato, e coinvolge numerosi risvolti: economico-finanziari, strategici, commerciali, operativi, etc. legati l’uno all’altro e nessuno dei quali superfluo (se il piano è ben fatto).
Non è un mero esercizio convenzionale, per seguire i dettami dei manuali, tanto che non hanno alcuna importanza la struttura, la forma espressiva o la lunghezza del documento ma evidentemente solo la sostanza. Invito caldamente a prenderlo in considerazione perché serve, prima ancora che come spartito operativo, per autocoscienza, costringendoci a pensare ed agire secondo logica e a fare valutazioni strategiche realistiche e non istintive.
Un buon piano dovrebbe, in definitiva, contenere tutti gli elementi necessari allo sviluppo e gestione del progetto internazionale, i mezzi necessari, le professionalità richieste e le modalità applicative, e dovrebbe metterne in luce i benefici attesi e consentire di limitare gli errori, non nascondendo i potenziali problemi ma, al contrario, facendoli emergere associati, se possibile, a soluzioni percorribili. Dovrebbe essere uno strumento flessibile e non dogmatico, soggetto ad adeguamenti e variazioni in funzione delle mutate circostanze o di possibili errori di giudizio.
E’ importante mettere in risalto il fatto che il responso strategico, al termine della redazione di un business plan sviluppato correttamente, che comprenda quindi anche l’analisi oggettiva dei rischi, possa talora essere negativo, ovvero capita di evincere che nonostante si abbia già svolto un certo lavoro e alcuni assunti apparissero favorevoli, sia consigliabile desistere, in quanto non sussistono le condizioni essenziali, in un determinato momento, e stanti determinati approfondimenti analitici, per ottenere un certo risultato. Al solito, meglio prevenire che curare.
Creatività, metodo e coraggio
Dopo la rivoluzione agricola e quella industriale, la rivoluzione delle comunicazioni, tuttora in corso, è l’evento più impattante sull’economia che la storia abbia conosciuto. Sono proprio la rapidità, la facilità e la diffusività delle comunicazioni (e dei trasporti) che rendono possibili l’esplorazione e la scelta dei prodotti e dei servizi ovunque nel mondo, sulla base di regole dettate in gran parte dal libero mercato. In altre parole la nostra impresa, anche piccola, se abbiamo sufficienti abilità di marketing può essere vista ai quattro angoli del globo.
Sul piano commerciale ciò apre possibilità inimmaginabili alle PMI che sappiano diversificare e innovare o che magari sappiano scovare, fra gli spazi aperti dalle grandi aziende, quegli “interstizi” che non sono percorribili dalle stesse, per motivi dimensionali e rigidità strutturale. La parola chiave è distinguersi, ricavare una nicchia nella quale vi sia meno concorrenza, ed essere nel contempo efficaci nel trasmettere il valore aggiunto e originale della propria proposta, attraverso un piano di comunicazione ben articolato.
Vitalità, inventiva, idee, flessibilità, sono peculiarità che fanno parte storicamente del nostro patrimonio imprenditoriale nazionale e sono armi potenti che possiamo e dobbiamo valorizzare nel panorama internazionale. Detto questo, le virtù succitate non vanno confuse con inaffidabilità e approssimazione.
Nell’affrontare un progetto di internazionalizzazione, infatti, non è pensabile procedere in modo improvvisato, pena il fallimento. E’ richiesto invece che, l’intera impresa si configuri e determini, affinché un certo disegno possa riuscire. Le persone che se ne occupano devono essere preparate e impegnate costantemente, devono perseguire l’obiettivo con determinazione e metodo, essere pronte a confrontarsi quotidianamente con la realtà del mercato e abbandonare il solco confortevole dell’autoreferenzialità.
Nell’aggregazione un’opportunità
Il superamento del limite dimensionale, per sviluppare progetti più incisivi nello scenario internazionale, è un obiettivo che le nostre istituzioni si pongono da anni, incoraggiano nuove relazioni di filiera sia orizzontali che verticali, ma anche collaborazioni diverse e trasversali, purché efficaci e competitive, con diverse vesti giuridiche snelle ed economiche. Si tratta di una sfida enorme, che si scontra con un certo approccio culturale conservatore, con le rivalità personali e professionali e con l’egocentrismo narcisista di molti imprenditori.
Le nuove relazioni fra imprese, per cominciare dovrebbero liberarsi dei rigidi vincoli localistici ed orientarsi invece puramente alla credibilità, all’efficienza, all’integrazione e all’ottenimento di economie di scala. In altre parole, l’orizzonte che andrebbe perseguito necessiterebbe di lasciarsi alle spalle pregiudizi e consorterie, per aprirsi a un tipo di appartenenza sinergico e lungimirante, “di sistema”, migliorando insieme la qualità e perseguendo la completezza dell’offerta, accrescendo la massa critica dove abbisogni e colmando auspicabilmente il gap finanziario e organizzativo rispetto ad altre realtà internazionali. Per quanto non manchino gli sforzi, la mia sensazione è che siamo ancora piuttosto lontani dalla meta.
Gli obiettivi
Evidentemente un piano di internazionalizzazione deve precipuamente fissare degli obiettivi rapportati ad un tempo. Tali obiettivi devono essere misurabili, verificabili e possibilmente riproducibili. E’ pertanto un esercizio utile il segmentarli, così come si fa per le categorie di clienti o per le aree geografiche di mercato. Per semplicità, nel grafico sottostante, restringiamo la prospettiva alle aspirazioni più caratteristiche per le PMI, quindi eludendo, per questa volta, gli approfondimenti sulle joint-venture internazionali, gli apporti di capitali esteri, l’impianto di unità produttive, le ottimizzazioni finanziarie e fiscali, ecc..
Senza dimenticare che, se pure sia lapalissiano che, per le PMI, gli obiettivi commerciali ed economici risultino prioritari, si dovrebbero valutare contestualmente anche alcuni obiettivi di natura diversa, quali quelli di reputazione, affidabilità o la somma di percezioni valoriali e di posizionamento cosiddette “psicografiche”. Nei limiti del possibile si dovrebbe tendere a raggiungere questi traguardi, tanto quanto quelli più ovvi e materiali, in quanto, indirettamente, in prospettiva, altrettanto redditizi.
Di importanza fondamentale, anche per quanto concerne gli obiettivi finali, come si è già riferito per i passaggi del piano esecutivo, risulta il fissare dei traguardi nodali intermedi, con funzione di verifica e riconferma, ovvero prevedendo quando necessario l’applicazione di correzioni e la ridefinizione degli scalini successivi.
In concomitanza con detti momenti di verifica, deve essere sempre contemplata anche l’eventualità di una “exit strategy” qualora sfortunatamente subentrino fattori di ostacolo oggettivamente insuperabili che rendano gli obiettivi irrealizzabili o quando l’ottenimento degli stessi dischiuda possibili effetti collaterali, eccessivamente rischiosi, a maggior ragione a fronte di investimenti significativi da immettere. Parafrasando un motto degli alpinisti: il miglior “scalatore” è colui che capisce se necessario abbandonare anche quando sia a un passo dalla vetta e abbia la forza di pianificare una nuova scalata in condizioni più favorevoli.
Fra gli obiettivi “indiretti” non sono trascurabili i riverberi di know-how recepito, acquisizione di nuove competenze commerciali, probabile crescita tecnologica e produttiva e, non ultimo il notevole potenziamento di immagine e reputazione, che si riversano sul mercato domestico. Sono riflessi gradevoli e tangibili quanto solitamente inattesi dall’imprenditore, dell’internazionalizzazione di impresa, ma per esperienza, mi assumo la responsabilità di testimoniare che si verifichino quasi sempre!
Un ultimo, ma non certo meno importante possibile obiettivo, come già più volte sottolineato, potrebbe consistere nell’elaborare anche una strategia lungimirante di internazionalizzazione degli approvvigionamenti, che consenta più o meno sistematicamente di ottenere prezzi sensibilmente inferiori su materie prime, semilavorati, componenti, e talvolta di trovare nuove soluzioni e prodotti, senza dover rinunciare agli standard desiderati (L’Italia, per altro, non ha grandi risorse naturali e nella stragrande maggioranza dei casi, il nostro abituale rivenditore italiano di materie prime, acquista su altri mercati applicando naturalmente un margine).
I rischi
Come qualsiasi decisione imprenditoriale importante e destinata ad avere impatto significativo sull’attività di impresa, l’internazionalizzazione affrontata con preparazione inadeguata, risorse finanziarie mal calcolate e forse, soprattutto, addetti non all’altezza, può presentare incognite anche di una certa consistenza.
Si può incappare in rischi correlati al Paese, di carattere politico o sociale, legati per esempio ad azioni mal consigliate per ignoranza o mal interpretazione degli usi e del pensiero locali. Non sono rari gli errori nella scelta dei canali di vendita adottati e ancora più comuni risultano i rischi di ordine prettamente commerciale, come le fluttuazioni nella domanda di beni, di prezzi, o legati alla presenza pervasiva di concorrenti ben attrezzati, e varie altri tipi di incognite di mercato.
Si presentano con qualche incidenza anche rischi di tipo tecnico, legati alle caratteristiche del prodotto o, per esempio, di inidoneità alle normative che ne regolano la messa in commercio. Così come si può essere costretti a fare i conti con rischi di tipo giuridico, doganale, monetario o fiscale, solo per citarne alcuni.
Non sempre, ma in buona percentuale, la genesi di questi incidenti si può ricondurre a maldestra sottovalutazione o trascuratezza preliminari. In larga parte, quindi, si riescono a prevenire con l’organizzazione, la conoscenza, le competenze tecniche, in una parola con una approccio professionale a tutto tondo. Per ulteriori approfondimenti sull’argomento si suggerisce l’articolo “Gli errori più frequenti nell’affrontare i mercati esteri”.
Conclusioni
Per chiudere questo scritto, anziché un tradizionale ricapitolo, per una volta, preferisco prendere a prestito un paio di citazioni molto calzanti, che, combinate, rappresentano ugualmente un’ottima sintesi. La prima è di Peter Ferdinand Drucker, un brillante economista attivo per gran parte del ventesimo secolo, che a grandi linee recita questo: “Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa.” Mentre la seconda è di Warren Buffet uno degli imprenditori di maggiore successo al mondo, tutt’ora attivo a pieno titolo: “L’investimento deve essere razionale. Se non lo capite non lo fate”.
Saverio Pittureri
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I 13 errori più frequenti nell’affrontare i mercati esteri
Gli scambi commerciali globali e i ritmi di crescita
E’ interessante osservare che a dispetto di qualsiasi congiuntura, anche la più imprevedibile e negativa, quale quella pandemica, i numeri ci mostrino inequivocabilmente che, il volume dei commerci mondiali possa subire una battuta d’arresto ma, non appena si ricreano le condizioni minime, ricominci immancabilmente a salire. Ragione per cui, per quanto gli scenari previsionali possano essere discordanti e talvolta tetri, e la contingenza appesantita da un quadro di emergenza straordinaria, è ragionevole pensare che per le imprese internazionalizzate e dinamiche, le prospettive possano essere incoraggianti già a breve-medio termine.
All’interno di questo scenario globale, è possibile poi fare molti distinguo, nelle diverse velocità con le quali i singoli paesi, riprendendosi, contribuiscono al dato, e ancora più puntualmente, per quali settori, in funzione delle aree geografiche emergano prospettive più invitanti e propulsive.
Guardando poi oltre l’orizzonte del momento, i vantaggi molteplici che porta l’internazionalizzazione di un’impresa sono oramai molto noti, e riguardano sia l’aspettativa di aumento del fatturato che la diversificazione del rischio, ma anche la crescita culturale e tecnologica, l’incremento di competitività, e i riverberi virtuosi che tutti questi assets generano sulla salute dell’azienda.
In ogni caso, rimane il fatto che l’eventuale scelta di asserragliarsi nella propria sfera abituale, evitando il confronto con gli altri mercati, per certo, precluda l’interazione con il restante 99% di possibili clienti non residenti nel nostro Paese (l’Italia conta infatti poco meno dell’1% della popolazione mondiale).
La fotografia nazionale
Assodato quanto sopra, verrebbe da chiedersi perché in Italia, su oltre 6 milioni di imprese attive, se ne contino solamente circa 140.000 esportatrici, il 90% delle quali con meno di 15 dipendenti, e di queste solo 20/25.000 si possano definire a pieno titolo esportatrici abituali.
Perché tanto potenziale inespresso, quando vi sono brillanti e oggettive capacità di produzione, di know-how e di inventiva, nel tessuto nazionale?
Una risposta dettagliata sarebbe molto complessa ma, per semplicità, si potrebbe riassumere nel concetto che esportare sia certamente possibile e molto benefico, ma non banale, quindi occorrono una serie di requisiti, valutazioni, adattamenti, che non si improvvisano, ma di cui viene spesso ampiamente sottostimata l’importanza da parte degli imprenditori, il che, nel caso, li indirizza verso un più che probabile insuccesso.
Veniamo dunque all’elenco dei 13 errori da evitare nella strategia d’internazionalizzazione.
1. Sottovalutare i tempi e i costi
Cominciamo con il ricordare che l’affermazione in uno o più mercati esteri comporti quasi sempre qualche sforzo economico, che non solo va pianificato, ma anche mantenuto per un certo tempo, prima di poter raccogliere risultati strutturati e duraturi. Molti imprenditori dimenticano l’impegno, i sacrifici, le risorse immesse, le attese e i cambiamenti, che hanno dovuto applicare, prima di riuscire ad realizzarsi nel mercato domestico e si creano parametri e aspettative inappropriate verso l’internazionalizzazione.
Non si vede, in effetti, perché dovrebbe essere più facile o rapida la conquista di un mercato estero ove, in aggiunta agli ostacoli nazionali, dobbiamo confrontarci con importanti differenze di varia natura rispetto alla realtà italiana e, normalmente, non possiamo presidiare il territorio quotidianamente. Ha quindi senso darsi obiettivi realistici e misurabili, ma soprattutto di medio-lungo termine, piuttosto che immediati o quasi.
2. Presumere che l’esportazione possa risolvere i problemi finanziari in breve tempo
Correlato al punto precedente, non va dimenticato un diffuso malinteso. E’ senza dubbio vero che l’esportazione possa dare un grosso impulso alle entrate di un’azienda, fino a cambiarne radicalmente i destini, ma questo, quando accade, è il coronamento di un percorso tipicamente abbastanza lungo e talvolta purtroppo, a tratti, accidentato. Quindi non è esattamente come andare a riscuotere una vincita.
Avventurarsi in un progetto di internazionalizzazione in un momento di seria difficoltà economica, tendenzialmente non solo non risolleva l’attività, ma può addirittura rischiare di affossarla. Non si escludono naturalmente, sporadici casi fortunati, in particolari categorie merceologiche, nei quali, con un approccio molto aggressivo in termini di prezzo, si riesca talvolta ad ottenere un risultato rapido, una sorta di “mordi e fuggi”, che tuttavia si rivela fatalmente labile e vincolato a condizioni raramente riproducibili.
3. Non studiare i mercati
L’analisi dei mercati è un aspetto determinante. Ciò che funziona in Italia o anche in un altro Paese può non funzionare in un terzo mercato. Internazionalizzare non significa cioè fare copia/incolla di un modello, magari anche di successo, nemmeno significa dirigersi verso chimere esotiche, perché si è “sentito dire” che qualcuno vi abbia fatto grandi affari, o ancora seguire l’istinto per convinzioni effimere. Significa viceversa, avere un approccio assolutamente razionale e raccogliere la maggior quantità di dati possibile, veritieri e oggettivi, prima di agire.
Una ricerca di mercato approfondita, deve tenere conto di una enorme quantità di fattori, non a caso quelle svolte da istituti specializzati possono raggiungere costi veramente rilevanti, tuttavia, grazie al web e ad alcuni accorgimenti strategici, l’impresa avveduta, oggi è nelle condizioni di ottenere comunque un quadro sufficientemente indicativo per potersi orientare, senza spendere un capitale e comunque di ridurre sensibilmente le probabilità di naufragio. In sintesi: studiare, studiare sempre.
4. Non predisporre un piano operativo o business-plan
Al fine di non sprecare sforzi e denari, è necessario pianificare le azioni da intraprendere in modo accurato e lungimirante, con un piano di impresa specifico per ogni mercato. Un’impostazione organizzativa integrata e globale, che comprenda evidentemente lo sviluppo di un budget per i costi stimati e i tempi presunti, ma anche i processi di vendita identificati e i flussi attesi, il posizionamento del brand, una proposta di valore chiara, i costi di logistica, l’integrazione con una campagna di marketing e comunicazione adeguate, ed ogni altro aspetto che impatti sul progetto. E’ fondamentale poi predisporre dei modelli di analisi e verifica misurabili e non limitarsi a sensazioni percettive.
Bisogna inoltre essere flessibili e coraggiosi nell’apportare correttivi, o addirittura cambiare rotta, se si evidenziano errori, inefficienze e omissioni, ma al tempo stesso conservare la tenacia per non fermarsi alle prime difficoltà e sviluppare la capacità di reagire per non vanificare gli sforzi fatti fino a quel momento. E’ un equilibrio fluido e sottile, demandato ad esperienza e sensibilità, ed è pertanto auspicabile, evidentemente, incaricare persone dedicate realmente competenti, informate e motivate, in grado di attuare tattiche logiche e credibili e disposte a perseverare nel tempo, ma senza celebrare presuntuosamente le proprie scelte.
Infine si raccomanda di non escludere eventuali aggregazioni o collaborazioni con altre aziende italiane o estere, che possano portarci sinergie sotto vari punti di vista.
5. Non considerare adattamenti di prodotto e di servizio
Con l’eccezione di pochi articoli fortemente standardizzati o di alcune categorie di beni strumentali, che hanno una consolidata diffusione transnazionale, la regola è che occorra qualche adattamento di prodotto, talvolta di carattere prevalentemente formale, ovvero di confezionamento, colore, documentazione accompagnatoria, ecc.. molto più spesso invece con un impatto decisamente sostanziale. Solo per fare qualche esempio, possono riguardare alcune caratteristiche tecniche e funzionali peculiari del prodotto, gli accessori e i servizi correlati, i vincoli tecnologici, fino talvolta alla destinazione d’uso.
In altre parole, quando l’imprenditore orgoglioso del proprio prodotto, in perfetta buona fede, si determini ad imporlo tout court, senza tenere conto dei connotati del mercato di destinazione, quindi del peculiare incontro fra domanda e offerta, può pagare caro l’inevitabile disinganno. In molti casi è consigliabile operare una selezione dal catalogo, per quel mercato, e in particolari frangenti potrebbe anche risultare vantaggioso rinunciare al proprio marchio ed entrare, propedeuticamente, o persino definitivamente, in modalità “private label”.
Sono molte le potenziali dissonanze rispetto al mercato domestico; possono essere diversi i clienti, il processo di acquisto, i vantaggi competitivi premianti, il posizionamento, il ciclo di vita, le necessità di customizzazione, i canali distributivi, ma anche le normative e le certificazioni richieste. Tutto ciò, in qualche caso, richiede non solo flessibilità, ma investimenti significativi in R&D, riprogettazione e riconsiderazione dei caratteri distintivi. Si rende evidente come una adeguata indagine di mercato preliminare, fra gli altri basilari benefici, generalmente renda anche in grado di prevenire una sanguinosa presa di coscienza successiva..
6. Non focalizzarsi su un giusto numero di mercati
Quando si scelga di essere proattivi e di tentare di determinare il proprio destino di espansione internazionale, sulla scorta di quanto rappresentato nei precedenti capoversi, emerge chiaramente quanto occorra organizzarsi, attrezzarsi e impiegare risorse, per affrontare consapevolmente ed efficacemente anche un singolo mercato.
E’ pertanto intuibile che, per una PMI, sia preferibile concentrare la propria attenzione su uno o pochi Paesi ovvero area omogenee, alla volta, con un ovvio criterio di priorità attrattiva, accessibilità e potenziale di successo. Una volta raggiunti gli obiettivi principali, ci si può poi dedicare a nuovi mercati target, forti anche delle abilità verosimilmente acquisite durante la precedente esperienza.
A mio avviso, non esiste un numero ideale di mercati, in senso assoluto, sebbene sappia che circolino anche teorie più schematiche su questo tema, piuttosto vi è un numero ideale per ciascuna azienda, e le caratteristiche che presenta. In senso generale, nel medio periodo, è preferibile non dipendere da un solo mercato, per i rischi assortiti di instabilità economica, politica, normativa, o magari legata a perturbazioni commerciali. Per altro verso, anche eccedere nel numero di Paesi target, almeno fino ad un’eventuale consolidata crescita dimensionale dell’azienda, può essere controproducente per l’impossibilità di applicare adeguate strategie di pianificazione, presenza e gestione, e come conseguenza produrre una verosimile dispersione di denaro ed energie.
7. Sottovalutare la concorrenza
Nel mondo globalizzato contemporaneo, non esiste sostanzialmente più alcun mercato privo di concorrenza. Tale concorrenza può ovviamente essere sia locale che internazionale. Qualora il nostro prodotto e/o servizio non abbia specifiche caratteristiche di unicità, valorizzabili anche nel contesto in oggetto, e adeguatamente tutelate in termini di proprietà intellettuale, dobbiamo sempre considerare con attenzione e rispetto le proposte della concorrenza, a maggior ragione se sono arrivate sul mercato prima della nostra.
Per altro è consigliabile destituire la convinzione che basti l’appeal del “made in Italy” per farsi preferire, poiché se è vero che, in alcuni settori e mercati, questo ingrediente continui a rappresentare un vantaggio di partenza oggettivo, normalmente, nel ventunesimo secolo, occorre persuadere il cliente con argomenti più puntuali e tangibili, quando non vincere resistenze, coi fatti, in relazione ai presunti pressapochismo e inaffidabilità italiani.
Solo con la conoscenza delle offerte esistenti e dell’accoglienza delle stesse, disponiamo delle credenziali per enfatizzare il nostro valore aggiunto e predisporre prodotti, servizi e condizioni attraenti. Oltre al web, e alla raccolta di informazioni da tutte le fonti attendibili possibili, un ottimo catalizzatore di indicazioni è la frequentazione delle fiere, ove si raccoglie un’importante concentrazione di operatori, e gli espositori sono portati, per ruolo, a mostrare prodotti, pubblicizzare servizi e fornire informazioni apertamente.
8. Non conoscere i clienti e/o non ascoltarli e non fornire servizi
Una pietra miliare dell’internazionalizzazione razionale consiste nell’adeguarsi agli usi e costumi, alle culture differenti e alle diverse abitudini di acquisto, nonché alle specifiche mentalità e prassi nel fare business. Come già accennato, scegliere il canale sbagliato, il segmento sbagliato o un posizionamento improprio, anche quando tutte le altre valutazioni siano corrette, possono fare tutta la differenza fra l’ottenere o meno un risultato. La WTA sostiene che, il 50% delle trattative in tutto il mondo, fallisca per incomprensioni culturali a prescindere dalle differenze linguistiche. Io azzarderei anche una quota superiore.
Un altro degli errori più diffusi, che non risparmia nemmeno alcune grandi società, è quello di porre al centro dell’attenzione il proprio prestigio aziendale, e “l’irresistibile potere seduttivo” dei propri prodotti invece dei bisogni del cliente, mentre è proprio la comprensione di questi ultimi a rappresentare la chiave del successo in una trattativa, ed è la percezione di trarre qualche vantaggio per sé, quale che esso sia, l’unica vera ragione a spingere il cliente all’acquisto, mai l’ammirazione verso il prodotto o il produttore.
Nell’ambito B2B poi, che è ampiamente il più diffuso nell’export delle PMI italiane, nell’ansia di trovare uno sbocco commerciale che giustifichi gli sforzi, non è raro legarsi al partner sbagliato, i cui interessi non siano realmente convergenti con i nostri, e tenda magari a “sequestrare” il nostro marchio, con rapporti di esclusiva sterili. Un po’ di esperienza e capacità di analisi, possono aiutare molto a cercare nelle direzione giusta, evitare fraintendimenti e proteggersi da vere e proprie “trappole”.
Altra questione nodale, consiste nell’identificare i servizi (che non di rado determinano le preferenze del cliente) più apprezzati, ad esempio, in alcuni mercati e settori, possono focalizzarsi maggiormente sulla formazione di prodotto, mentre, in altri, sulle garanzie o il sostegno tecnico. In tutti i casi, indistintamente, fornire il prodotto tout court e non associarvi alcun servizio, nel ventunesimo secolo, è perdente!
Un’ulteriore modalità di facilitazione, si sostanzia nel proporre forme di pagamento che certamente ci salvaguardino, ma nel contempo non scoraggino il cliente (quindi non solo ed esclusivamente pagamento anticipato) e agevolare i primi ordini, proponendo condizioni complessivamente favorevoli e minimi d’ordine accessibili.
9. Omettere l’assistenza post-vendita
E’ indubbio che il cliente, soprattutto nelle prime fasi della collaborazione, debba essere aiutato perché, a sua volta, possa ricavare un utile dal business, e vada sostenuto con un’appropriata assistenza post-vendita. Non è semplice costruire un rapporto solido e soddisfacente con un cliente affidabile, e quasi sempre tale rapporto è il distillato di una lunga ricerca, di scarti, delusioni e inceppi e conseguentemente di tempi e costi. Sarebbe molto ingenuo perderlo per trascuratezza, frenesia o calcoli poco lungimiranti.
Una volta avviata la relazione, è fondamentale creare un rapporto personale con il cliente, possibilmente programmando anche incontri, di tanto in tanto. In tal modo si gettano le basi per il più efficace “customer care” esistente, quello della fiducia, che permette, in molti casi, di prevenire o risolvere agevolmente frizioni e criticità. In aggiunta, frequentare l’azienda del cliente, consente di monitorarne lo stato di salute del suo business, rendersi conto di possibili opportunità aggiuntive, e magari scoprire precocemente l’ingresso di un concorrente.
Al contrario, adottare un atteggiamento predatorio e magari sovraccaricare il cliente che abbiamo temporaneamente convinto, quando questi poi non riesca a rivendere, o almeno a farlo in tempi ragionevoli, è doppiamente negativo, poiché da un lato il cliente stesso non ricomprerà, e dall’altro, ai nostri prodotti si potrà associare la reputazione di incommerciabilità, che ci precluderà anche futuri rapporti con altri soggetti.
10. Non curarsi della comunicazione e del marketing
E’ acclarato come nel ventunesimo secolo, la comunicazione aziendale non sia più semplicemente un “valore aggiunto”, ma una componente imprescindibile del piano commerciale. Potremmo anche avere il migliore e più originale prodotto al mondo, ma se non siamo in grado di comunicarlo appropriatamente, difficilmente andremo lontano. In un ecosistema, nel quale la presenza articolata sul web, la riconoscibilità di un marchio, e la fiducia che si genera sulla continuità, orientano le scelte del consumatore più delle virtù oggettive del prodotto, sottovalutare questo aspetto può costituire un errore esiziale.
Nell’era del digitale poi, se non esistiamo sul web, ai fini dell’internazionalizzazione non esistiamo affatto. Un sito vecchio, statico, tradotto male o solo in italiano, comunicano comunque, ma comunicano disvalori e mediocrità. Anche per una piccola azienda, è quindi vitale mostrare “una vetrina” seducente e possibilmente strutturare, a latere, un piano editoriale sostenibile, che preveda un’alimentazione regolare e interessante dei social network, le newsletter, campagne pubblicitarie mirate e attenzione agli accorgimenti SEO. Le spese sono oramai realmente accessibili, e il rapporto fra costi e benefici è enormemente superiore a quello offerto da qualsiasi altro strumento, si tratta soprattutto di organizzazione e buona volontà.
Nella stessa ottica di trasferimento di un’immagine professionale e rassicurante, si inquadra anche la produzione di adeguati strumenti commerciali fisici, quali cataloghi, company profile, listini, documentazione commerciale e tecnica, anch’essi tradotti correttamente e impostati in modo chiaro, preciso e accattivante.
11. Disinteressarsi del quadro legislativo e di eventuali barriere strutturali
Capita a molte aziende, comprese alcune grandi e ben strutturate, di dimenticare l’approfondimento della legislazione vigente. Qualunque avvocato ci racconterebbe che, anche in campo giurisprudenziale, in tutto il mondo, sia infinitamente meglio prevenire che curare, e quindi arrivare in un nuovo mercato ben preparati sulle regole del gioco operanti.
E’ pertanto altamente raccomandabile, redigere contratti congrui, che tengano conto delle legislazioni nazionali e transnazionali, delle eventuali convenzioni sussistenti, dei riconoscimenti delle sentenze, delle clausole inapplicabili, dei vincoli sulle esclusive e penali, delle responsabilità del produttore, delle certificazioni e permessi, delle normative di settore, della protezione della proprietà intellettuale, etc.
Evidentemente, allargando la visuale, si esorta caldamente a raccogliere informazioni fondate, anche sulla struttura fiscale vigente, sulle regole connesse al rimpatrio di capitali, la presenza di eventuali vincoli finanziari, di dazi o barriere particolari, nonché sui possibili limiti connessi al trasporto, alla logistica e alla conservazione delle merci.
12. Scaricare le responsabilità all’ufficio estero
Un altro malinteso piuttosto comune, è la supposizione miope che le attività di export siano di esclusiva pertinenza dell’ufficio estero, sia dal punto di vista squisitamente operativo che da quello del coinvolgimento motivazionale. In realtà, senza la collaborazione dell’intera azienda, e la convergenza verso un comune obiettivo, che significa responsabilizzazione e consapevolezza dell’importanza del risultato, è improbabile farcela. Sarebbe pertanto lungimirante illustrare appropriatamente ai collaboratori la portata dell’iniziativa intrapresa, e valorizzare il contributo di ciascuno.
Per altro, ci si trova molto spesso a dover immettere un impegno supplementare nel progetto internazionale, ed uscire dalla propria zona di comfort, per rispettare, per esempio, una consegna tassativa, adattare un prodotto, organizzare un evento, e molte altre evenienze, ed è quindi auspicabile che le varie funzioni aziendali vengano non solo informate e coinvolte fin dall’inizio, ma invitate a contribuire anche dal punto di vista delle idee e delle strategie praticabili.
13. Confondere la raccolta di ordini con l’internazionalizzazione
Capita di ascoltare imprenditori che evadendo qualche richiesta, nata da occasioni fortuite ed episodiche, da uno o più paesi oltre confine, dichiarino di “vendere all’estero”, quasi si trattasse di un’unica entità omogenea e indistinta. Il più delle volte non hanno alcuna cognizione del mercato di destinazione, né hanno mai visitato l’azienda cliente, o conoscono le ragioni per le quali questa acquisti. Il risultato è che potrebbero perdere da un giorno all’altro detto cliente, senza avere la più pallida idea del perché.
Evidentemente, sono relazioni generatesi più o meno incidentalmente, che hanno poco o niente a che vedere con l’internazionalizzazione, e non nascono da una scelta strategica. Nessuna impresa, giustamente, disdegnerebbe un cliente (solvibile) che si proponga da qualsiasi angolo del mondo ma, salvo che non divenga l’innesco per un approccio organizzato a quel mercato, generalmente tale rapporto non si trasforma in una dote, sulla quale si possa fare affidamento, per un piano di crescita aziendale di lungo periodo.
Quindi, quando si abbia la fortuna di arruolare un cliente con poco sforzo, non solo è auspicabile andare a conoscerlo sul posto e curarlo con premura, ma magari, indagando sulle ragioni della sua predilezione verso di noi, farne una “rampa di lancio” per un progetto organizzato in quel mercato, se sussistano i presupposti.
Conclusioni
Al termine di questa lettura, immagino che, a prima vista, l’internazionalizzazione razionale potrebbe sembrare un’impresa insormontabile, in realtà resta l’arma più potente e stimolante in mano alle aziende per una crescita solida e robusta. Le chiavi del successo sono chiare e relativamente accessibili, e si riassumono nella conoscenza, nelle attitudini professionali e in una certa capacità di comprensione del mondo, dopodiché le operazioni opportune diventano una conseguenza naturale del metodo di lavoro e quasi un automatismo.
Voglio aggiungere che questo sintetico e, inevitabilmente inesausto, elenco di “errori” caratteristici, non ha chiaramente la pretesa di rappresentare un salvacondotto, con il quale, l’aspirante esportatore supererà ogni ostacolo, potrebbe però costituire un modesto promemoria di riferimento per approfondire, rivolto a tutti coloro che, senza troppa esperienza, si approccino alle attività di internazionalizzazione, con la disposizione di farlo con metodo, mentalità aperta e attraverso le dovute attenzioni e dotazioni.
Saverio Pittureri
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