Breve presentazione per ICE
Propongo questo breve video di presentazione, richiestomi da ICE, al termine di un progetto ambizioso, attraverso il quale, l’istituto ha selezionato100 professionisti senior, dell’internazionalizzazione, su tutto il territorio nazionale, formandoli e diplomandoli “Digital Temporary Export Manager“.
Ho il piacere di fare parte di questo qualificato gruppo.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
Fare business in Sudafrica. Risvolti interculturali, economici e commerciali – Parte II
Una unicità che parte da lontano
Riprendiamo oggi il racconto, per sommi capi, delle caratteristiche del Sudafrica, e per quanto possibile, di quali siano gli elementi di attenzione per un’impresa italiana che voglia approcciarne il mercato. Per farlo, facciamo un passo indietro, alle caratteristiche del cammino coloniale nel Paese.
Benché già alla fine del XV° secolo, il portoghese Bartolomeo Diaz, avesse scoperto il Sudafrica, il primo insediamento stabile fu ad opera degli olandesi, solo nel 1652, nella Penisola del Capo, che probabilmente doveva essere favolosa, ma anche piuttosto inospitale. Dapprima, tale avamposto, ebbe la funzione di stazione di rifornimento per i bastimenti della Compagnia olandese delle Indie orientali (VOC) poi gradualmente prese ad ingrandirsi. I coloni olandesi si dedicavano principalmente all’agricoltura e all’allevamento, e ricevettero il nome di boeri, “contadini” (in seguito sarebbero stati definiti afrikaner).
I boeri, benché continuassero ad espandersi, per quasi due secoli mantennero rapporti sostanzialmente buoni con le popolazioni locali. Fino a che sorsero contese per l’uso di vasti pascoli, e si scatenarono vere e proprie guerre, in particolare con la tribù degli Xhosa (quella di Nelson Mandela). Nel contempo venivano importati in gran quantità schiavi dall’Indonesia, dal Madagascar e dall’India, per lavorare la terra. Cosa che proseguirono a fare anche gli inglesi, successivamente. La ragione principale deposita nel fatto che i locali, pur robusti e ovviamente adattati all’ambiente, risultavano difficilmente assoggettabili, rispetto ai più docili orientali.
I risultati di queste deportazioni, sono molto evidenti ancora oggi. Il protratto melting pot genetico fra coloni, discendenti di schiavi e popolazioni indigene, ha generato una etnia peculiare, frequentemente denominata “cape coloured”, che costituisce la componente predominante della popolazione della provincia del Capo.
Così come nel KwaZulu-Natal, e in particolare nell’area di Durban sono numerosissimi gli abitanti di chiara origine indiana.
Lo stesso giovane avvocato Gandhi, futuro Mahtma, vi trascorse 22 anni, fra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso, cruciali per la sua formazione umana e la sua coscienza politica. Fu costernato, vedendo il diniego delle libertà civili e dei diritti politici verso gli immigrati indiani, ed incominciò a protestare e fare pressioni, contro la discriminazione legale e razziale subita dagli indiani in Sudafrica, tanto da essere incarcerato nel 1913.
Ufficialmente, l’attuale ripartizione delle comunità etniche vede gli africani all’80,2%, i bianchi all’8,4%, i “coloured all’8,8% e gli indiani al 2,5%. In realtà però, si presenta una situazione molto più fluida, complessa e variegata, di quanto cerchino di riassumere le statistiche, anche, se non soprattutto, in termini di retaggio culturale, e non è un caso che il Paese sia noto come Nazione Arcobaleno. Questa articolata eredità, che impatta significativamente sulla società contemporanea ha un riverbero essenziale anche sull’ecosistema business.
L’avvento degli inglesi
A partire dalla fine del diciottesimo secolo, gli inglesi tentarono più volte di occupare la colonia del Capo, fino a riuscirvi nel 1797, per un’annessione formale che ebbe luogo nel 1806. Pur con diversi scontri sanguinosi, inglesi e boeri continuarono per lungo tempo a convivere, in qualche modo, ma i boeri non si adattarono mai all’occupazione britannica, in modo particolare da quando il Regno Unito dichiarò formalmente l’abolizione dello schiavismo nel 1833.
La scoperta di miniere di diamanti e oro, incoraggiò ulteriormente l’immigrazione e l’interesse dell’Impero Britannico per l’area del Capo, ma anche per l’entroterra, colonizzato dai pionieri boeri, chiamati voortrekker. Ne sfociarono due successive guerre boere, nell’ultimo ventennio del diciannovesimo secolo. La prima della quali vide gli inglesi a mal partito, per la scelta infelice di divise color rosso vivo, che li rendeva facili bersagli.
Nonostante l’orgogliosa resistenza boera, e la ricerca di un’alleanza con i tedeschi, che controllavano l’attuale Namibia, alla fine, gli inglesi, come in molte circostanze della propria storia coloniale, ebbero il sopravvento. Non mancarono certo pagine cupe, nel corso delle guerre, con la creazione di veri e propri campi di concentramento, e strategie estreme, in nome delle quali vennero compiute razzie e devastazioni, e si presero le popolazioni nemiche, indistintamente, per fame.
Con il trattato di Vereeniging, il Regno Unito si assicurò formalmente il controllo dell’intero Paese, nello stesso documento viene specificato che le persone di colore non avrebbero avuto diritto di voto in nessuna delle province del Sudafrica, eccetto la Colonia del Capo.
La gestione britannica, come di prassi, tentò una anglicizzazione della popolazione boera, con l’insegnamento obbligatorio della lingua inglese nelle scuole, e l’istituzione delle caratteristiche strutture amministrative e burocratiche inglesi, oltre alla costruzione di infrastrutture secondo il modello del Commonwealth; questo programma, però ottenne il risultato di alimentare ulteriormente il rancore della comunità boeri. Quando i liberali ottennero il potere in Gran Bretagna (1906), il programma fu abbandonato, e l’afrikaans venne rapidamente riconosciuto come una delle lingue ufficiali del Sudafrica.
Il novecento e l’arrivo dell’indipendenza
L’Unione Sudafricana prese parte alla prima guerra mondiale a fianco del Regno Unito. Poco dopo, ottenne un mandato della Società delle Nazioni per il controllo dell’Africa del Sud-Ovest (oggi Namibia), strappata ai tedeschi. Nonostante l’aumento del suo prestigio internazionale, l’Unione stava attraversando un periodo di forte crisi interna, con attriti sempre più violenti fra i nazionalisti boeri e la rappresentanza inglese.
Nel 1931, con l’approvazione dello Statuto di Westminster, da parte del parlamento britannico, il Sudafrica ottenne una parziale autonomia. Partecipò alla seconda guerra mondiale come parte dell’Impero britannico, al fianco degli alleati, nonostante una parte significativa del National Party, il maggiore partito boero, simpatizzasse apertamente per la Germania nazista. Le truppe sudafricane combatterono in Etiopia, in Africa settentrionale ed in Europa.
Dopo la fine della guerra, nel 1948, il National Party si impose alle elezioni, instaurando il regime di apartheid che istituzionalizzava la segregazione razziale, già presente nei fatti, in larga parte del Paese, in quest’ottica furono istituiti i bantustan, ovvero i territori destinati alle popolazioni nere, delle diverse etnie, a cui complessivamente venne concesso il 13% del territorio del Sudafrica.
Il Sudafrica sprofondò in una fase buia e inqualificabile della propria storia, e venne sostanzialmente isolato dal resto del mondo. Con un visto sudafricano sul passaporto, non si poteva entrare nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Non a caso, io ho sempre avuto due passaporti, per questa e altre incompatibilità presenti in ambito internazionale (uno dei quali lascio naturalmente sempre depositato in questura e vado a sostituire, al bisogno).
Il 31 maggio del 1961, a seguito di un referendum, il Sudafrica ottenne l’indipendenza dalla corona britannica e venne espulso da Commonwealth. Cominciò la resistenza da parte dell’ANC e nel 1963 Nelson Mandela venne condannato all’ergastolo, per terrorismo. Da lì, è storia recente, abbastanza nota, fino al 1994 quando lo stesso Mandela, dopo la vittoria elettorale schiacciante dell’African National Congress, viene eletto presidente
Il nuovo Sudafrica fra luci e ombre
Con un retaggio, come quello rappresentato, si può ben capire che il periodo di assestamento successivo alla fine del potere bianco, sia stato piuttosto lungo e accidentato, e di fatto, in qualche modo permanga ancora oggi. In questi anni infatti, il paese ha perso 29 posizioni nell’indice di sviluppo umano, e il 40% della popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà. Prosegue il fenomeno dell’urbanizzazione, soprattutto nelle townships di periferia, dove fioriscono il lavoro nero e la criminalità, e non pochi bianchi hanno scelto di lasciare il Paese (una delle mete predilette, per alcuni punti di contatto nello stile di vita, è l’Australia).
L’attuale politica interna, è rivolta soprattutto alla lotta all’AIDS (una piaga spaventosa nel Paese), alla disoccupazione e alla criminalità, che ha raggiunto, specie nelle grandi città, in certe zone, livelli insostenibili. Altro tema delicato che il governo si trova costantemente ad affrontare, è quello della tutela delle diverse etnie, tutte molto orgogliose della propria identità autonoma. In questo quadro, i numerosi scandali per corruzione che hanno travolto i vertici dell’ANC, non hanno evidentemente aiutato a rasserenare il clima
In tema di disoccupazione, da molti anni è stato varato un programma, noto come black economic empowerment act, per incrementare la partecipazione dei “non-bianchi” ai settori chiave della vita economica sudafricana. A seconda del soddisfacimento di determinati criteri dettati dal BEE (assunzioni, ruoli rivestiti, ecc..), le aziende ricevono un punteggio da 0 a 100, con il quale accedono con minori o maggiori agevolazioni agli appalti pubblici. Lo spirito che ha animato il provvedimento è ovviamente condivisibile ma, come ogni misura sostanzialmente coercitiva, risulta abbastanza indigesta a molti imprenditori.
Ciò detto, con tutte le sue contraddizioni e il quadro d’insieme, a dir poco plastico, il Paese continua a costituire, e auspicabilmente costituirà sempre più, un catalizzatore formidabile di business per il continente africano. Con infrastrutture non dissimili dagli standard europei, ricco di risorse naturali, quali oro, platino, diamanti, cromo, ferro, manganese nickel, stagno, rame, uranio, vanadio, carbone, gas naturale, vede circa l’80% del proprio suolo, dedicato alle attività agroindustriali, in buona parte modernamente meccanizzate e tecnologicamente avanzate, il che rappresenta uno dei pilastri dell’economia nazionale.
Come già accennato, nell’articolo precedente, anche il manifatturiero e i servizi, in alcuni comparti, hanno conosciuto una crescita poderosa negli ultimi decenni. Il Sudafrica è però, soprattutto, per quanto possa interessare maggiormente le aziende italiane, un Paese dove la richiesta di determinate categorie di beni e servizi, proposti con standard occidentali, e a maggior ragione con peculiarità italiane, è consistente, siano essi destinati a innervare i processi produttivi domestici, oppure al consumo. Vediamo quindi alcune piccole linee guida comportamentali per rapportarsi ai soggetti locali.
Strutture aziendali e approccio, in pillole
Alla luce di quanto esposto fino ad ora, non sarà difficile cogliere la complessità della società sudafricana e conseguentemente quanto tutto ciò riverberi inesorabilmente nel mondo business.
Sia per gli influssi planetari di globalizzazione, che per un’eredità storica di concentrazione delle ricchezze, l’economia sudafricana è dominata da grandi società, mentre la quota delle piccole e medie imprese, pur crescente, risulta ancora relativamente ridotta (all’opposto del nostro Paese). Con tale background culturale, la struttura organizzativa tradizionale sudafricana, anche nelle piccole e medie imprese, appare marcatamente piramidale, o in altre parole, con una forte propensione verticistica. Per cui, parlare con qualcuno che non sia a capo di una funzione, di solito, si dimostra perfettamente inutile.
Il Sudafrica è anche permeato da una cultura collettivista, con una marcata priorità per la famiglia o altri interessi di gruppo rispetto a quelli generali. I gruppi etnici, tribali, strutturali, in Sudafrica tendono ancora a vivere fianco a fianco, piuttosto che fondersi, certo, via via, in qualche modo riescono anche a riconoscere un’identità comune, ma per mia esperienza, l’appartenenza ad un determinato cerchio sociale, etnico, culturale, è ancora una chiave interpretativa determinante, per instaurare una relazione costruttiva.
Il networking tradizionale o tecnologico, può avere molta importanza per creare collegamenti utili e qui lascio alla creatività di ciascuno pensare alle maniere per costruire il proprio. Non di rado le persone, abituate a “stare in difesa”, non si fidano istintivamente l’una dell’altra al primo incontro, per cui un lasciapassare fiduciario può fare la differenza; e la costruzione di relazioni personali stabili è fondamentale, perché ovviamente l’interlocutore sudafricano, intende fidarsi della persona con cui intrattiene affari.
Non di rado (parlo per esperienza personale), gli incontri iniziali sono utilizzati dal partner nativo, proprio per “familiarizzare” e capire se vi siano presupposti, direi quasi antropologici, per rapportarsi. Per questo raccomando tempo e pazienza, se di vuole ottenere un risultato, che però poi può diventare solido e duraturo. E anche la negoziazione vera e propria, è frequente che proceda abbastanza lentamente, rispetto ai nostri standard, e con altri accenti.
Per altro, viste anche le opportunità di impiego relativamente più ridotte, i sudafricani sono generalmente molto fedeli alle loro aziende e al loro incarico, e spesso rimangono in un’azienda per tutta la durata della loro vita lavorativa. Pertanto, quelli nelle posizioni più alte, ovvero i decisori, di solito hanno lavorato duramente e lealmente per guadagnare la loro posizione. Quindi una critica, anche scherzosa, all’impresa per la quale operano (quando anche finalizzata a valorizzare la persona in questione, nel confronto) è normalmente da evitare.
Business etiquette
Le persone tendono a parlare in modo molto diretto e trasparente, durante le trattative commerciali. Qualsiasi ambiguità o vaghezza, da parte nostra, può essere interpretata come un segno di inaffidabilità, disonestà o mancanza di impegno. Inoltre, i contratti e le condizioni dovrebbero essere esplicitamente dettagliate, già durante la negoziazione, per assicurare che l’accordo sia corretto e equilibrato. Personalmente, ho ottenuto risultati molto apprezzabili, partendo con accordi di consignment stock poi evoluti in formule più ortodosse di distribuzione.
Pur in considerazione di un’ovvia soggettività, tendenzialmente il businessman sudafricano arriva all’incontro preparato, con un obiettivo commerciale definito e un piano su come vorrebbe che si svolgesse la riunione. L’approccio di un afrikaner alle trattative, in particolare, e le sue aspettative, possono essere percepite come piuttosto unilaterali, ma tale sensazione è frutto di uno stile di comunicazione molto diverso dal nostro, non di irragionevolezza. Come ricordato apprezzano la chiarezza d’intenti, e non gli espedienti retorici, però non significa che non capiscano le nostre ragioni e prospettive.
La maggior parte dei sudafricani, di ogni etnia, paradossalmente non ama mercanteggiare. Raggiungere un risultato win-win è l’esito ideale di un incontro per un sudafricano e non solo teoricamente. Buona parte del tempo dell’incontro, in definitiva, la si investe a descrivere la proposta, i vantaggi e, con sincerità, anche gli eventuali punti deboli (preferibilmente corredati di potenziali soluzioni), quindi a conquistare l’interesse e la fiducia della controparte, e a trovare una sintesi dei punti di contatto sui quali costruire l’accordo, più che a parlare di sconti o trovare il modo di “strappare” un risultato.
Lo scontro diretto, in ogni caso, è piuttosto raro, e anche a causa del loro bagaglio socio-culturale, generalmente sgradito, quindi è preferibile non premerli su aree in cui si mostrino visibilmente a disagio o tantomeno provocarli intenzionalmente, questo riguarda le tematiche business, come ovviamente gli argomenti di pertinenza personale. Inoltre, le tattiche ad “alta pressione”, molto utilizzate in altri contesti, per ottenere un consenso, in Sudafrica generalmente non hanno successo.
Si noti che, particolarmente interagendo con i manager neri, può capitare che le scadenze temporali non vengano percepite come impegni realmente vincolanti, ma piuttosto come piuttosto orizzonti fluidi. Non si tratta di mancanza di serietà o di intenzioni fraudolente, quanto di un’eredità culturale tutt’ora molto caratterizzante. Occorre abilità di gestione e diplomazia nell’adeguarsi, e i risultati, anche davvero soddisfacenti, possono comunque arrivare.
Approcciarsi agli incontri
Gli incontri faccia a faccia sono ancora, quasi sempre decisivi, per fare affari in Sudafrica. Nonostante il covid abbia un po’ cambiato le abitudini (e nel Paese ha colpito duro), nell’ecosistema business nazionale, l’incontro rimane tutt’ora chiaramente preferito ai contatti a distanza, per quanto efficaci e funzionali, almeno quando si tratti di prendere decisioni. Allo stesso modo, il tradizionale biglietto da visita è preferito a scambi di informazioni più tecnologici.
Sarebbe di buon senso non proporre incontri, da metà dicembre a metà gennaio, ovvero in concomitanza con il picco dell’estate australe, e nemmeno durante le due settimane successive a Pasqua, soprattutto perché si tratta di periodi tipicamente di ferie, e verosimilmente troveremmo poca disponibilità dall’altra parte. E’ bene, come ovunque, presentarsi in orario, quantunque non è detto che la controparte ci ricambi la cortesia (vedi concetto del tempo sopra espresso).
Sebbene gli stili e i tempi di saluto varino considerevolmente, a seconda del gruppo etnico, la stretta di mano occidentale convenzionale è sempre ben accetta, in ogni circostanza, negli incontri d’affari. Giacca e cravatta per gli uomini e tailleur per le donne vanno sempre bene, ma è ampiamente diffusa e accettata una maggiore informalità (che io prediligo, ma ovviamente dipende anche dalle abitudini e dalla personalità dell’interessato).
Altri connotati comportamentali che si possono raccomandare, attengono prevalentemente al buon senso, e sono comuni a molte aree del mondo. Ovvero ci si aspetta che vengano salutati individualmente tutti i presenti nella stanza, anche quando numerosi, e che a ciascuno venga dato un biglietto da visita. Quando si ricevono i biglietti da visita, come segno di attenzione, è decisamente gradito se ci si sofferma un momento a leggerli e magari si chieda conferma della pronuncia del nome, talvolta abbastanza complesso.
Il rispetto è fondamentale, pertanto, durante le discussioni, si raccomanda di prestare tutta l’attenzione alla persona che parla, e non interrompere, in modo particolare quando vengano espresse emozioni accese; ascoltare con disposizione d’animo aperta e cortese, evitando, ad esempio, di armeggiare col proprio telefono, e possibilmente consiglierei di annotare quanto venga detto, anche quando di scarso interesse. Quando siamo noi a parlare evitiamo di mostrare preferenze verso una determinata persona e coinvolgiamo con lo sguardo tutti i presenti. Se si ritiene di muovere un rilievo critico a ciò che abbiamo ascoltato, questo deve essere sempre indirizzato all’idea esposta, e mai alla persona che la esprime.
Qualora si incontrino persone provenienti da culture tribali più tradizionali, che ancora osservino i propri usi, sarebbe saggio scoprire quale condotta si pratichi tipicamente. Potremmo, ad esempio, facilmente trovarci a dialogare con persone vestite con abiti tradizionali africani, anche in luoghi di lavoro, e sarebbe quasi certamente così ad una cena.
Qualche domanda rivolta al diretto interessato, sulla cultura e le tradizioni, non è necessariamente fuori luogo, al contrario, se espressa con educazione e sincero interesse, può essere letta come una manifestazione di apprezzata apertura mentale. In caso si sia invitati a cena, potremmo trovarci a consumare piatti abbastanza insoliti, che sarebbe bene almeno assaggiare.
Conclusioni
A coronamento di questo piccolo excursus sul Sudafrica e sulle opportunità di business che presenta, mi preme ribadire quanto sia fondamentale affrontare detto mercato preparati, e come eventuali tempi lunghi e taluni presumibili buchi nell’acqua, siano da mettere in conto. Ciò detto, quando si riesca a fare breccia, trovando il giusto registro, capendo come rapportarsi con le persone ancora prima che con le aziende, obiettivo tutt’altro che banale, si possono, non solo coltivare concrete speranze di costruire un business interessante, e a lungo termine, ma anche di “utilizzare” il Sudafrica come piattaforma di partenza per la vendita in vari altri Paesi dell’Africa australe, che al Sudafrica fanno abitualmente riferimento, oltre che di aprire un canele virtuoso verso l’intero continente, beneficiando di vantaggi reputazionali, daziari e logistici.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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Fare business in Sudafrica. Risvolti interculturali, economici e commerciali – Parte I
Qualche connotato identificativo…
Avendo viaggiato molto nel corso della vita, non è raro che mi venga posta la domanda su quale sia il mio Paese preferito. Onestamente, non do sempre la stessa risposta, che dipende anche un po' dal momento e dallo stato d'animo, ma diciamo che, con una certa ricorrenza, rispondo trasognato: il Sudafrica!
Una nazione con un’estensione territoriale pari a circa 4 volte quella italiana, per una popolazione invece non dissimile (intorno a 60 milioni), ma forte di una proiezione demografica molto più espansiva e vitale, rispetto alla nostra. Oltre il 65% degli abitanti è in età professionalmente attiva, e il 60% ha meno di 30 anni.
Il Sudafrica, indipendente dal 1946, è una repubblica parlamentare, benché “ibridizzata” con una caratteristica tipica di alcune repubbliche presidenziali, quella di vedere congiunte la carica di capo dello Stato con quella di primo ministro, in un solo soggetto, il che evidentemente concentra un grande potere su tale figura. La persona che incarna entrambe le cariche, dal 2018, è Cyril Ramaphosa. Da un punto di vista amministrativo, il Paese si suddivide in 9 province: Limpoo, Gauteng, Mpumalanga, Kwazulu-Natal North West, Free State, Northern Cape, Western Cape e Eastern Cape. Vi sono ben 3 distinte capitali, Pretoria è quella amministrativa, Città del Capo la centrale legislativa e Bloemfontein la capitale giudiziaria.
Abbracciato da due oceani, il Paese, ha caratteristiche climatiche davvero molteplici e singolari e, notoriamente offre, peculiarità naturalistiche pressoché uniche, con ambienti che vanno dalla foresta alla savana, dalla steppa, alla macchia di tipo mediterraneo, non mancano regioni montuose verdissime con vette oltre i 3000 metri, e vere e proprie aree desertiche di estensione non trascurabile. In molti habitat protetti e parchi nazionali, si può incontrare una incredibile moltitudine di animali, che popola le fantasie degli appassionati di mezzo mondo (me compreso).
Purtroppo, il rovescio della medaglia di un’oggettiva meraviglia abbacinante, vede Il Sudafrica (a causa di uno sviluppo disordinato e sregolato, e del poderoso processo di inurbamento), quale maggiore inquinatore del continente africano, e il quattordicesimo al mondo, in termini di emissioni di carbonio. Nel 2019, il governo ha introdotto una carbon tax per cercare di incoraggiare le imprese a compiere sforzi in tale direzione. Sebbene sostenuta dalle organizzazioni ambientaliste, questa iniziativa è ancora considerata insufficiente e poco dissuasiva.
Un Paese complesso
Ho cominciato a frequentare il Sudafrica, con discreta assiduità, fra il 2006 e il 2007, sulla scorta dell’intuizione avuta, al tempo, da una cliente e amica, sulle potenzialità del Paese, uscito da pochi anni da un incubo di spregevole inciviltà, durato 46 anni, e tristemente noto come apartheid. L’assegnazione dei campionati del mondo di calcio del 2010, e l’ingresso formale, nello stesso anno, nel novero dei Paesi emergenti più promettenti (il famoso acronimo Brics), cambiarono la percezione internazionale del Sudafrica, e non fecero che legittimare e rafforzare il suddetto progetto. Detto incarico, mi portò, per anni, a diventare un habitué delle principali città, a conoscere centinaia di persone, e a conservare un forte legame con la nazione arcobaleno, che ha resistito fino ad oggi.
A quel tempo, era un Paese luminoso e vitale, come la caldana di un vulcano, ma altrettanto rischioso e instabile. Nelson Mandela e l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, erano i due fari, ai quali la giovanissima nazione finalmente “normalizzata”, si aggrappava per superare i marosi della riconciliazione. Madiba aveva compiuto una specie di miracolo, impensabile fino a pochi anni prima, ma le grandi disparità economiche e il sordo rancore, accumulato per tanti anni di aberrante discriminazione, avevano lasciato una polveriera innescata, alla quale bastava pochissimo per generare esplosioni qua e là.
Essere bianchi e, per giunta poco esperti delle regole comportamentali locali, in detto quadro, costituiva già di per sé un gravissimo rischio, nella frequentazione di molte zone, e l’impatto con cui mi confrontai, in effetti, fu abbastanza scoraggiante.
I borghesi vivevano all’interno di compound difesi da guardie, cani e filo spinato, mentre sorgevano baraccopoli sterminate, chiamate "township" ai margini delle città. Gli esercizi commerciali, di qualunque genere, erano protetti da cancelli e vetri antiproiettile, e occorreva ottenere il benestare del negoziante per accedervi. I noleggiatori di auto, a Johannesburg, raccomandavano di non fermarsi al rosso, la notte, e la stragrande maggioranza dei miei amici e conoscenti, di ogni etnia, possedeva armi, che spesso e volentieri, teneva col colpo in canna, anche nel cruscotto dell’auto.
Il mal d’Africa
Una volta “prese le misure” però, ne fui irrimediabilmente conquistato. E’ uno dei pochi posti al mondo dove si possa partecipare ad un meeting di lavoro, in un ambiente confortevole e modernissimo e, in pausa pranzo, raggiungere i 1000 metri di quota in funivia, per percorrere un sentiero mozzafiato, oppure scegliere un giro in barca, e con un po' di fortuna, incontrare balene, squali, foche e pinguini.
Divenni amico di diverse persone incontrate per lavoro, scoprendo anche il pregiudizio “alla rovescia”, dei neri verso i bianchi. Un amico che stimo, dopo alcuni anni di frequentazione, una sera, a seguito di molte risate e molte birre, si lasciò andare, e mi definì davvero in gamba…per essere un bianco! L’amicizia, letteralmente conquistata, con alcuni sudafricani neri, mi ha permesso di conoscere il Paese da una prospettiva realistica, e inaccessibile a chi ci capiti per turismo, ma anche alla stragrande maggioranza dei sudafricani bianchi.
Si parlano 11 lingue ufficiali, due delle quali, l’inglese e l’afrikaans, scorie del colonialismo europeo. e 9 lingue indigene, che hanno areali preferenziali di diffusione, ovviamente, ma non esclusivi (oltre a molti dialetti…). Per cui può capitare che l’esordio di un incontro fra sconosciuti (neri), possa essere bizzarro, in quanto, tipicamente, uno degli interlocutori esordisce in una lingua e, qualora l’altro non ne sia ben padrone, si passa immediatamente ad un’altra, attraverso rapidi e sapienti accenni rivelatori, viene infine trovata la soluzione più confacente per entrambi; pochi secondi, in concreto, ma realmente imperdibili!
I commerci internazionali
Il Sudafrica, per varie ragioni, rappresenta un referente politico e commerciale fondamentale, per l’intero continente africano, per l’emisfero australe e per l’ecosistema Commonwealth. Con un equilibrio di contrappesi tutt’altro che banale, il Paese mantiene buoni rapporti (dal termine dell’apartheid), con gran parte del mondo. Per l’Unione Europea, ad esempio, è il partner commerciale africano più importante, grazie anche a progressive liberalizzazioni degli scambi, e benché sia stato spodestato, da tempo, dal primato continentale del PIL (ora assomma "solo" il terzo dell’Africa), il Paese continua a rappresentare un polo economico, che vale oltre un terzo del PIL dell’intera Africa australe.
Il Paese poi, riesce a mantenere una sostanziale equidistanza, fra le superpotenze economiche, e gestisce perciò rapporti saldi con gli USA, come con la Cina. Già 15 anni fa, la Cina si era mossa in forze, costruendo, per conto del governo locale, interi quartieri, autostrade, ponti, infrastrutture di vario genere, spesso accettando accordi di “counter trade”, ovvero ricevendo in cambio delle prestazioni offerte, materie prime e non denaro. Evidentemente, detta condizione vantaggiosa, insieme ad altri benefici irresistibili per l'acquirente (rapidità d'azione, scarsa burocrazia, regole molto ridotte), hanno aperto la strada ad un rapporto molto robusto e articolato e, non a caso, tutt’ora la Cina è il primo partner del Sudafrica.
Sudafrica e Italia
Detto questo, c’era è continua ad esserci, una grande curiosità verso l’Italia, e beneficiamo di un'indubbia fascinazione "gratuita", generata dai nostri prodotti. Sono molto richiesti gli arredi, ma anche il cibo, l’abbigliamento, gli accessori di moda, e alcune eccellenze lussuose e trasversali. Godono tuttavia di ottima reputazione, anche molti prodotti di tecnologia, di meccanica, del settore automotive, prodotti farmaceutici e dispositivi medicali, fertilizzanti, prodotti ceramici, cosmetici di alta qualità, attrezzature agricole, oltre a vari altri.
In termini meramente percentuali, l’Italia, come aggregato, non ha un peso particolarmente significativo, per le esportazioni verso il Sudafrica ma, come accennato, sono presenti alcune realtà di vasto e consolidato successo, e certi settori sono indubbiamente più prosperi di altri. L’Italia, mantiene anche un notevole appeal per quanto riguarda le arti, la cultura e lo sport (in modo particolare il calcio). Le stagioni, come noto, sono invertite, il fuso orario è identico, il che offre rilevanti vantaggi nelle comunicazioni. Johannesburg e Cape Town, sono raggiunte regolarmente da alcune compagnie aeree europee, dall’Italia il volo dura circa 10/12 ore.
Nonostante le buone premesse di cui sopra, il successo nel mercato sudafricano, è tutt’altro che semplice. Sia per ragioni di intricata interpretazione interculturale, come di avvicinamento ad un ambiente business con caratteristiche e paletti, molto diversi e lontani dalle nostre abitudini. E’ da segnalare che il Paese rappresenta un hub di riferimento per tutta l’Africa subequatoriale e, per certi aspetti, per l’intero continente, quindi riesporta una porzione non irrilevante dei beni importati dall’Italia, in quanto può vantare strutture logistiche, organizzazione imprenditoriale e know-how adeguati, e non altrettanto presenti in altri mercati della regione.
Verso l’Italia invece, il Sudafrica esporta principalmente risorse naturali, fra le quali materie prime di varia natura, minerali, molti metalli, pietre preziose, prodotti alimentari, pellami, prodotti energetici, lana, frutti e cereali, e persino numerosi sottoprodotti. Sono infine presenti anche particolari nicchie di eccellenza assoluta, in grado di attirare attenzione planetaria, quindi anche dell'Italia.
Conclusioni
Ho cominciato, un po’ in ordine sparso, a presentare un Paese che conosco bene e amo profondamente. Un Paese certamente complicato, ma che offre opportunità straordinarie per le imprese italiane; a condizione, evidentemente, che comprendano alcune criticità molto incidenti, e sappiano proporsi con prodotti, servizi e, soprattutto, un approccio consono al contesto economico e socio-culturale che incontrano.
Nonostante le oggettive difficoltà incontrate dal Sudafrica, negli ultimi anni, sia per motivi “endogeni” che “esogeni”, Goldman Sachs, la terza banca d’affari, più importante al mondo, ha scelto, di recente, di investire colossali capitali nel Paese, ritenendolo ancora un mercato emergente di enorme potenziale, e in questo momento sta difendendo la propria scelta, a colpi di studi e proiezioni scientifiche. Riprenderò, nel prossimo articolo, da dove ci interrompiamo oggi.
Saverio Pittureri
Easy Trade
La concorrenza sui mercati internazionali
La concorrenza e i mercati
Per qualsiasi prodotto o servizio decidiamo di proporre, in qualsivoglia mercato, uno dei fattori più impattanti con cui dobbiamo invariabilmente confrontarci è rappresentato dalla concorrenza. Se già l’attenzione sugli antagonisti costituisce una molla decisiva ai fini tattici, sul mercato domestico, quando si sposti l’ottica sul piano internazionale, tale cura va evidentemente amplificata e resa ancora più minuziosa e rigorosa.
In altre parole, sia in proiezione teorica, quando costruiamo la nostra strategia di penetrazione in un determinato Paese e canale di vendita che, all’atto pratico, quando ci misuriamo nella tenzone commerciale quotidiana, le attività della concorrenza devono essere monitorate con costanza e precisione. Non solo, si tratta anche di interpretare correttamente le informazioni raccolte e trarne le giuste indicazioni.
A tal proposito, ritengo molto importante presidiare personalmente, con una certa continuità, quel determinato mercato e, per quanto possibile, integrare le informazioni istituzionali o comunque canoniche, con le inclinazioni tangibili e persino gli umori “della piazza”, rispetto ad un prodotto o un servizio presenti. Ogni fonte, può essere preziosa per un confronto e per rintracciare dati e notizie, per quanto talvolta si possa cadere vittima di fraintendimenti, legati a stati d’animo e percezioni personali di taluni interlocutori, che non hanno evidentemente carattere di oggettività.
In primo luogo, naturalmente dovremo preoccuparci di studiare i soggetti già insediati da tempo e in concorrenza diretta con la nostra proposta, e via via gli altri più dissimili per una ragione o per l’altra. Qualora i concorrenti diretti, ad esempio, fossero totalmente assenti, non si tratterebbe necessariamente di una buona notizia, anzi il più delle volte decisamente non lo è.
Chiaramente, fa un’enorme differenza che la concorrenza principale sia costituita da players locali o piuttosto sopranazionali, la presenza di questi ultimi, in modo particolare quando si sostanzino in grandi imprese o addirittura multinazionali, condiziona invariabilmente e significativamente l’ecosistema settoriale e, con esso, i presupposti di competitività. Il che non significa che le nostre possibilità, in un quadro simile (molto comune, per altro) siano precluse, ma certamente si dovrà tenere in debito conto lo stato del mercato, e magari sfruttarne le falle e le nicchie in ombra.
Gli aspetti giuridici, di politica economica e di rapporti fra gli stati
Altri fattori di grande impatto, sono costituiti dalla cornice giuridica, dagli accordi di politica commerciale transnazionali, dal grado di regolamentazione o viceversa di liberalizzazione del mercato in oggetto (tipicamente in alcuni settori strategici, gli ostacoli regolatori si inaspriscono), o addirittura dalla presenza di forme più o meno palesi di protezionismo, in quanto, evidentemente, detti assunti, favoriscono una condizione piuttosto che un’altra in termini di attività della concorrenza.
L’orientamento generale o per meglio dire uno dei principi guida, dell’Organizzazione mondiale dei Commerci, alla quale aderisce gran parte dei Paesi del mondo (e altri 26 stanno negoziando l’ingresso, che permetterà di raggiungere la quasi totalità di quelli esistenti) prevederebbe un graduale abbattimento delle barriere tariffarie e daziarie, al fine di incentivare gli scambi internazionali. La WTO appoggia quindi il crescente ampliamente di aree sottoposte ad accordi di libero scambio, nelle quali la concorrenza internazionale possa evidentemente partire da condizioni di maggiore tutela e equità competitiva. Se i Paesi aderenti ne seguissero genuinamente lo spirito, il futuro sarebbe già delineato.
In verità, purtroppo, la materia è un po’ più complessa di così, e la disciplina internazionale è connotata dalla presenza di innumerevoli normative generali e locali, con differenze profonde, generalmente legate alle politiche economiche dei singoli Stati. In alcuni ordinamenti, ad esempio, la tutela della concorrenza si accompagna a norme antitrust, in altri, tende a privilegiare l’efficienza produttiva, in altri ancora, protegge le piccole imprese, talvolta anche a scapito della qualità oggettiva dei prodotti.
In ultimo, le relazioni fra i Paesi e le aree di influenza geo-politica, com’è tremendamente evidente nell’inquieta fase storica che stiamo vivendo, possono determinare categoricamente la possibilità di approcciare o meno un determinato mercato, a prescindere dall’adesione a trattati commerciali o dall’eventuale presenza di caratteristiche predisponenti verso il nostro prodotto. Su questo aspetto, sfortunatamente, possiamo farci poco se non attendere tempi migliori.
Un piccolo vademecum
Senza dimenticare quanto sopra, proviamo a ipotizzare una situazione abbastanza caratteristica di sostanziale libero mercato, nella quale aspiriamo a giocare un ruolo piccolo o grande, con la nostra proposta di prodotto e/o servizio.
Sarà bene essere insieme prudenti e risoluti, a seconda dei frangenti, ma soprattutto reagire con risposte dinamiche e tempestive alle sollecitazioni provenienti dai competitors che, come detto, dovremo tenere d’occhio costantemente e diligentemente.
Un canovaccio schematico, inevitabilmente approssimativo, per l’osservazione dei concorrenti, in estrema sintesi, potrebbe essere il seguente.
– quali concorrenti
– quanti
– da quali Paesi
– caratterizzazione
– da quanto tempo sono sul mercato
– ricerca di strategie commerciali, pubblicitarie, prezzi
– area di mercato in cui operano
– dimensione e forza finanziaria
– modalità di distribuzione
– prezzi di vendita
– costi stimati o noti (marginalità presunta)
– quali sono i nostri punti di forza (vantaggi competitivi da valorizzare e difendere)
– quali sono i nostri svantaggi (e come ovviare)
– nostre performances complessive rispetto alla concorrenza
– presenza di fattori impattanti endogeni o esogeni
I dati raccolti, costituiranno una base di studio parametrale fondamentale, che andrà però anche correttamente interpretato, e tradotto in azioni conseguenti, concrete e sostenibili nel tempo.
Conclusioni
Tanto più accurate saranno state la raccolta e l’elaborazione delle informazioni sui competitors, e migliore sarà stata la preparazione del progetto, e più determinata la messa a terra delle iniziative afferenti, quanto maggiori saranno le nostre probabilità di successo, senza tuttavia dimenticare la caratteristica plasticità di questo tragitto, che non prevede un punto di arrivo specifico, ma sostanzialmente l’identificazione di un’onda che andrà armonicamente cavalcata nel corso del tempo.
In ogni passaggio del nostro percorso, occorrerà sempre valutare ogni segnale e ogni indizio dell’attività dei concorrenti, per comprendere, migliorare e trovare la giusta collocazione, e le giuste modalità, in ogni senso, per la nostra offerta. Si dovrà altresì fare attenzione anche a parare le presumibili mosse di soggetti, per i quali costituiremo una minaccia che, con maggiore esperienza specifica, rispetto a noi, probabilmente si adopereranno in ogni modo per contrastare il nostro ingresso nel mercato.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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I risvolti dell'internazionalizzazione aziendale sul mercato domestico
Quando soffia il vento internazionale…
In vari interventi precedenti, ho richiamato ripetutamente, come l’esperienza sui mercati esteri possa riverberare, in modo fruttuoso, sul complesso della vita aziendale. La sola impagabile contaminazione culturale, già di per sé, motiverebbe l’intraprendenza internazionale, ma più pragmaticamente, è anche assodato che tale bagaglio si possa spendere efficacemente sul mercato domestico, attraverso azioni concrete, ottenendo risultati tangibili in termini di efficienza, successo e, in ultima analisi, di fatturato.
Mi piace portare ad esempio, un fenomeno curioso ed apparentemente eccentrico rispetto al tema. Gli iniziati dell’arte della vela, avranno senza dubbio sentito nominare il Café Saint Paul, un locale attivo in un porto delle isole Azzorre, nel mezzo dell’Oceano Atlantico. In questo luogo isolato, si ritiene che venga prodotta e scambiata, la più alta e innovativa conoscenza velistica al mondo, proprio perché vi si concentrano le migliori barche, di transito, provenienti da ogni angolo del pianeta, impegnate nella navigazione atlantica, che non è evidentemente una pratica di per sé banale. In quel locale, i valenti navigatori si raffrontano sulle rispettive teorie ed esperienze e da questo scambio fiorisce la magia.
Non occorrono grandi sforzi di astrazione, per comprendere come il modello sopra raffigurato, evidentemente declinato su un’angolazione peculiare, si possa adattare perfettamente alle arene economiche internazionali. Queste sono rappresentate, in massimo grado, dalle fiere, così come da ogni altra circostanza che preveda una certa aggregazione di operatori, senza trascurare, naturalmente, anche ogni singola interazione, con aziende clienti o fornitrici, che possa comunque offrirci come “effetto collaterale”, spunti interessanti e costruttivi, a patto di mantenersi aperti mentalmente e disponibili ad un confronto vero (le intenzioni, spesso purtroppo divergono dalle azioni).
I vantaggi trasferibili sul mercato nazionale
Vado ad elencare, in breve, i benefici più comuni che tipicamente si possono “incassare” sul mercato domestico, in conseguenza alle attività di internazionalizzazione, specialmente se ben svolte!
– vantaggi culturali e tecnologici: i possibili vantaggi tecnologici sono lapalissiani, quelli culturali possono riguardare l’organizzazione aziendale, le modalità logistiche e distributive, le competenze desiderabili delle risorse umane, ma anche le tendenze globali, gli orientamenti produttivi e molto altro.
– ricadute sull’immagine e sulla comunicazione: è evidente che la presenza su altri mercati trasferisca sull’impresa un aura di dinamismo e modernità, oltre che, evidentemente, di successo. Un insieme di impressioni e suggestioni, che esercitano un impatto virtuoso sull’immagine aziendale, sulle scelte dei clienti, nonché sui contenuti e l’efficacia della nostra comunicazione domestica e non.
– economie di scala: al netto di eventuali adattamenti di prodotto, è altamente probabile che l’aumento dei volumi venduti, possa generare vari tipi di economie di scala, comprese le condizioni negoziate con i fornitori, la riduzione dei costi unitari, l’accelerazione degli ammortamenti, ecc… voci che consentono maggiori marginalità e/o maggiore competitività sul mercato nazionale
– percezione di capacità e di forza: associato a quanto richiamato sull’immagine poco sopra, quasi sempre si genera anche una percezione di forza e solidità, che tendenzialmente si rivela suffragata dai fatti, e tale percezione può aiutare sensibilmente nell’ottenimento di finanziamenti, nel reclutamento di professionalità eccellenti, nella valutazione dell’azienda, sia sul mercato azionario, quando sussistano le condizioni, che in funzione di una eventuale stima di quote o assets.
– possibile innesto di nuovi prodotti: gli inputs provenienti da altri mercati, possono suggerirci l’immissione in commercio di nuovi beni, che in alcuni casi ci mettiamo nelle condizioni di produrre direttamente e in altri, magari, possiamo acquistare dai fabbricanti, con condizioni protette per il nostro mercato nazionale.
– possibili sinergie con altre imprese di filiera: da diversi anni, le istituzioni nazionali incoraggiano, in vari modi, l’aggregazione fra le imprese, con l’obiettivo di proporre consociazioni virtuose e funzionali ad offrire prodotti e tecnologie di filiera, e/o a creare una certa “massa critica”, in grado di competere con concorrenti esteri, tendenzialmente di maggiori dimensioni. Tali alleanze, possono trasferirsi, con varie modalità, anche sul mercato domestico, con ottimi riscontri per i contraenti.
– maggiore potere contrattuale con le catene distributive: è abbastanza intuitivo, come l’accresciuta forza e l’accresciuto appeal dell’impresa, possano spostare determinati rapporti di forza, a suo vantaggio, a maggior ragione quando le catene distributive operino su un piano internazionale, e quindi abbiano interesse ad una collaborazione ampia e articolata, di tipo win-win, con il produttore.
A fronte degli indubbi giovamenti afferenti al processo di internazionalizzazione, è corretto riferire contestualmente anche l’esistenza di qualche potenziale rischio, che prevalentemente si può innescare in fase di investimento, ovvero prima di ottenere dei ritorni di una certa consistenza. Detta alea di rischio, si sostanzia, soprattutto qualora il business plan non sia ben calibrato, in una inevitabile distrazione di risorse dal mercato interno, che può, in particolari casi, impattare negativamente sulla salute dell’azienda.
Conclusioni
In conclusione, le attività di internazionalizzazione, programmate e gestite appropriatamente, non solo si confermano raccomandabili, per le ovvie finalità di espansione e consolidamento della crescita aziendale, ma anche per le molte possibili ricadute, di grande rilevanza, sul mercato interno.
Il mondo economico, comunque la si pensi, da molti anni, non funziona più a compartimenti stagni, nemmeno per le piccole realtà, e la loro capacità di adattarsi ai nuovi scenari geopolitici, la loro flessibilità, la loro capacità di innovazione, la loro cultura business, possono fare la differenza, sia per quanto concerne il conseguimento di risultati su scala internazionale, che in modo correlato e conseguente, anche sul palcoscenico nazionale.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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E’ meglio un solo listino prezzi adattabile o listini diversi per ciascun mercato estero?
Cosa scegliere
Da quando la globalizzazione interessa anche le piccole e medie imprese, è diventato motivo di confronto frequente se sia conveniente proporre, in ambito b2b, un solo listino prezzi per tutti i Paesi del mondo, sul quale operare adattamenti, o viceversa, si ottengano migliori risultati diversificando di partenza i listini. Non esiste una “regola giusta” e vi sono esempi di aziende capaci di realizzare crescite impetuose nell’uno e nell’altro modo, con entrambi gli approcci, percepite come corrette e moderne.
La scelta, in verità, non è sempre possibile, e vi sono mercati e/o circostanze per cui ci viene espressamente richiesto un listino di prezzi netti o un listino comunque personalizzato secondo determinati dettami, per ragioni di strategia commerciale. Detta linea di condotta è più comune nei mercati del nord Europa, rispetto ad altre aree del mondo, ma non si può escludere anche altrove. In altri casi, tipicamente settoriali, o legati ad un determinato canale di vendita, vigono strutture di sconti consolidate, alle quali è più o meno inevitabile conformarsi, e questo requisito condiziona giocoforza la costruzione del listino.
Allo stesso modo, per evidenti motivi, non è possibile, o meglio è molto complesso, gestire listini diversi, quando si venda mediante e-commerce internazionale, sia con iniziativa diretta che mediata da piattaforme specializzate.
Di cosa tenere conto
Qualora invece, vi sia la facoltà di decidere la linea di condotta , il più delle volte, io propendo per adottare lo stesso listino, nei vari mercati, naturalmente plasmato e “ammortizzato” attraverso una attenta, e non casuale, politica personalizzata di sconti, abbuoni, offerte, premi, “pacchetti” di acquisto, riduzioni proposte sulle quantità, sulle forme di pagamento, su particolari condizioni commerciali, ecc..
La controindicazione principale della diversificazione, deriva dal sostanziale agio con il quale i nostri clienti possano venire in possesso di un listino applicato in un altro Paese, ovvero possano incontrarsi personalmente in ambiti di concentrazione di operatori, come le fiere o i congressi e, confrontandosi, venire a conoscenza delle condizioni vigenti in altri mercati.
La scoperta della probabile sperequazione fra i listini, potrebbe facilmente dare adito a contestazioni e fratture insanabili, dalle quali dobbiamo cercare di difenderci con ogni mezzo, considerando che un distributore estero affidabile, formato e fidelizzato, è un patrimonio inestimabile e che non possiamo permetterci di sperperarlo per una leggerezza.
L’adozione di un unico listino viceversa, se ben gestito, ci concede l’opzione di appropriate individualizzazioni sui prezzi, mediante i provvedimenti sopra visti ma, nel contempo, ci consente anche di motivarle con ragioni solide che trascendano ogni possibile confronto transnazionale.
I riferimenti utili
Evidentemente, nel momento i cui si debba costruire un listino, che questo sia formalmente specifico, come invece “mascherato” all’interno di una sola intelaiatura omogenea, bisogna tenere conto di molti fattori per calibrarne appropriatamente i valori, in modo che la nostra proposta risulti sostenibile, congrua per la qualità percepita, e con gli obiettivi strategici prefissati, per il mercato in questione.
Senza ripetere concetti già sviscerati nel precedente articolo. incentrato proprio su come definire i prezzi di vendita, ci limitiamo a evidenziare che l’utilizzo di un listino unico, renda più semplice, in ogni senso, anche l’introduzione di eventuali aggiustamenti, in una direzione o nell’altra, attraverso banali correttivi peculiari, non di rado necessari, in un nuovo mercato o in una situazione economica instabile.
Fatte salvo le valutazioni puntuali sul contesto, dalle quali non possiamo prescindere, alcuni parametri qualificati di ordine generale, sul costo della vita e l’indice dei valori locali, potrebbero aiutarci ad orientarci sui prezzi più idonei, soprattutto in una prima fase, senza evidentemente considerare di rimettervisi pedissequamente.
Uno fra i più noti ed affidabili fra i suddetti parametri, è il “big mac index”, inventato dall’Economist nel 1986, per stabilire se il tasso di cambio valuta vigente, sia corretto, partendo dall’assioma che tale indicatore dovrebbe progressivamente spostarsi, verso il tasso che eguaglierebbe i prezzi di un identico paniere di beni e servizi (in questo caso, un hamburger), in due paesi qualsiasi.
E’ interessante osservare, come per un bene di larga diffusione, quale il celeberrimo panino, costituito da identici ingredienti, consumato con le stesse modalità, in ambienti sostanzialmente comparabili, ma in ecosistemi macroeconomici molto diversi, possano sussistere variazioni davvero significative nei prezzi proposti, (vedi tabella) i quali, per convenzione e comodità di confronto, vengono tradotti in un’unica valuta: il dollaro USA.
Conclusioni
La scelta fra un listino unico flessibile o vari listini calibrati sui diversi mercati, salvo alcune circostanze, solitamente non è tassativa, e può risentire anche di abitudini specifiche di settore o di mercato, che trascendono le nostre considerazioni tattiche e/o razionali.
Una delle strategie maggiormente consigliabili, in ogni caso, per un determinato mercato, è quella di generare un qualche tipo di distinzione nelle caratteristiche del prodotto, e/o dei servizi annessi, che spesso è richiesta al fine di fare breccia, e adeguarsi al tipo di domanda presente e, nel contempo, può giustificare una legittima calibrazione ad hoc del prezzo.
Quando non emerga un motivo di intervento (ma, ripeto, quasi sempre un adattamento si rivela opportuno a prescindere dalle politiche di prezzo) potrebbe essere sufficiente operare sull’imballo, oppure su una caratteristica fisica o tecnica marginale del prodotto, cercando naturalmente di non scompensare il giusto equilibrio, fra l’impatto di costi ed energie che possa richiedere una qualsivoglia modifica, ed il beneficio generato in termini di libertà commerciale.
Saverio Pittureri
Easy Trade Srl
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I prezzi di vendita per i mercati esteri
Di cosa tenere conto
Come stabilire un prezzo ottimale, rimane una questione di assoluta centralità, per qualunque mercato, segmento, e Paese si affronti, nonché per qualunque prodotto o servizio si intenda proporre. Esiste una vera e propria pletora di opzioni e formule, più o meno complesse, alcune delle quali complementari, altre alternative, per formare il prezzo di vendita.
In senso generale, è beninteso che esso si determini in primo luogo sulla base dei costi complessivi, ai quali venga assommato un margine di guadagno ammissibile, ma è fondamentale che sia strutturato contestualmente, ed in congruenza, anche ad altre decisioni strategiche, e tenendo conto di un gran numero di variabili, scaturite sia dal mercato, che dalle condizioni e dalle aspettative dell’impresa, a breve, medio e lungo termine.
Ciascuno dei suddetti fattori infatti, riverbera in qualche modo, e si può sostanziare, ad esempio, in un servizio fornito, un progetto di comunicazione peculiare, uno stratagemma commerciale, e in molti altri tipi di spese e rischi, espliciti od impliciti (ciclo di vita del prodotto, struttura e requisiti del mercato, tipo di partner e di canale, segmento bersaglio, forma di ingresso, interventi sul prodotto e sul packaging, classificazione doganale a destino, e/o altri oneri applicabili, utilizzo di depositi, logistica, margini di filiera, programmazione delle vendite per volumi e periodicità, marchio, trasporti, mix di prodotti esportati, valuta e cambio, eventuali forme di finanziamento, forme di pagamento, tempi di consegna, termini di resa, rischi dell’operazione, barriere non tariffarie, potenzialità commerciali in prospettiva, e l’elenco potrebbe continuare).
Prezzi e strategia
In conseguenza a quanto sopra, si evince che l’appropriatezza di questa scelta, da un lato discenda da numerosi e articolati risvolti, ma dall’altro abbia poi anche ricadute, a consuntivo, su ogni aspetto della vita aziendale: sulle finanze, il flusso di cassa, la possibilità di sostenersi e di investire. E’ dunque una decisione ad alto coefficiente di difficoltà e responsabilità, estremamente strategica e, talvolta, davvero creativa, se non quasi visionaria.
Devo aggiungere che, nella pratica quotidiana delle PMI, che sono la mia platea di riferimento, il più delle volte, il prezzo viene attribuito, e magari periodicamente aggiustato, sulla base di considerazioni meno lungimiranti, ovvero tenendo conto, essenzialmente in modo lineare, esclusivamente dei costi visibili e della presunta marginalità,
Benché in termini diversi, e con distinte logiche, il tema del prezzo mantiene la sua rilevanza, sia quando si parli di B2B che di B2C, e in entrambi gli ambiti, non sarebbe da affrontarsi una sola volta o sporadicamente, quanto piuttosto seguire dinamicamente, quasi come un metronomo, le risposte del mercato e l’idoneità progressiva del nostro business-plan, nella ricerca un equilibrio sequenziale, intelligente e funzionale.
Costi fissi e variabili
Ho accennato come la base di partenza per il calcolo, dovrebbe essere un’elevata consapevolezza dei costi, e resta ovviamente fondamentale, anche qualora vi si applichino le menzionate considerazioni aggiuntive. Notoriamente, esistono costi fissi e variabili, ma mentre i primi, solitamente risultano sostanzialmente chiari agli imprenditori, sui variabili, come già ricordato, spesso si riscontra una certa alea di incertezza, per via di voci in qualche modo sommerse, come il costo del tempo extra-produzione, i costi organizzativi e varie altre spese normalmente presenti. Evidentemente non è una buona premessa per un calcolo corretto del margine di contribuzione.
Nei fatti, la risposta più diffusa risulta quella di considerare un sovrappiù “di sicurezza” ai costi identificabili, e successivamente applicarvi un margine di guadagno (una sorta di declinazione delle tecniche di “cost-plus” e “mark-up standard”, piuttosto informale). E’ un approccio che sovente può funzionare, pur non restituendo un quadro preciso. Laddove però, si renda necessario adeguare il prezzo ad un contesto, per qualsiasi motivo, più sfidante, la piena cognizione della struttura dei costi agevola indubbiamente le decisioni.
Evidentemente, la citata struttura dei costi, compresi quelli fissi, viene influenzata tipicamente, in corso d’opera, dall’impatto dei riscontri reali di mercato, in una sorta di “riflesso circolare”, sia attraverso il principio delle economie di scala che quello della curva di apprendimento, secondo i quali se si riescono ad aumentare i volumi di produzione (e di vendita…), e nel contempo si acquisisce esperienza, si riducono i costi unitari, lo spreco di risorse, e si standardizzano i processi, migliorandone l’efficacia.
Orientamento alla domanda di mercato
Un primo assunto che potremmo adottare, mutuato dal mondo dello sport, recita: “primo non prenderle”; diciamo che funzionerebbe universalmente, ma diventa imperativo se ci riferiamo ad un mercato estero, dove un errore può rendere totalmente sterili i nostri sforzi e farci accusare perdite esiziali.
E’ perciò opportuno, oltre a prevedere le sopraelencate attente valutazioni sull’ecosistema economico di riferimento, identificare il break-even point, cioè il il punto di pareggio (presunto) fra costi e ricavi, dal quale si possa desumere il numero di unità di prodotto che si debbano produrre e vendere, ad un certo prezzo ,per raggiungerlo, quindi dove si verifichi l’incontro fra le curve della domanda e dell’offerta, in un intervallo di tempo definito.
Un altro concetto cardine, da mettere a fuoco, è quello del “costo marginale”, ovvero il costo da sostenersi per un’unità aggiuntiva di prodotto, utile per le stime di costo e di prezzo, a condizione che il potenziale produttivo dell’impresa non sia già pienamente espresso.
E’ lapalissiano infine, che il variare di uno qualsiasi dei fattori sopraelencati, sposti conseguentemente il break-even point
Se “non prenderle” è il risultato minimo anelato, evidentemente si possono mettere in campo molte strategie più evolute per provare anche a vincere la partita! In riferimento agli obiettivi stabiliti, si può ad esempio proporre un “prezzo di penetrazione” (molto vantaggioso per il cliente, al fine di entrare nel mercato e/o massimizzare i volumi di vendita, nel breve periodo) oppure, concettualmente all’opposto, un “prezzo di skimming” o un “prezzo di prestigio”, atti sia a selezionare un determinato segmento di clienti, che a generare un certo posizionamento, mediante le percezioni di valore ed esclusività, che si possono o meno accompagnare alla leva della scarsità (quantità ridotta o disponibilità limitata nel tempo di un bene).
Alternativamente o complementariamente, si possono utilizzare svariate altre opzioni, il “prezzo psicologico” (tipo 9,99 Eur), il “prezzo di confronto”, che prevede l’immissione sul mercato di due articoli comparabili, uno dei quali artatamente valorizzato mediante il prezzo (alto o basso in relazione all’obiettivo), il “price lining”, con riferimento a fasce di prezzo correlate a specifiche linee di prodotto, il “prezzo obiettivo”, che viene attentamente studiato, in funzione a quanto il consumatore si mostri disposto a pagare, il “bundle pricing”, che consiste nell’offrire più prodotti aggregati, ad un unico prezzo riconosciuto come conveniente, il “premium pricing” che il cliente accetta di buon grado, in nome di una qualità percepita superiore (le cui connotazioni però possono variare sensibilmente da paese a paese).
Gran parte delle suddette strategie (e non sono le sole), vengono preferenzialmente attuate nella sfera del marketing indirizzato al consumatore finale ma, in una certa misura, possono trovare spazio anche nel B2B, pur mediate da filtri tecnici e psicologici meno palesi.
Naturalmente, per funzionare, le stesse devono non solo essere inglobate in un progetto strutturato e sostenute da varie attività propedeutiche, ma anche contemplare possibili cambi di rotta e rettifiche tempestive, se e quando necessari.
Va infine tenuta in debita considerazione l’attuale potenza dei media, che sono in grado di veicolare le preferenze, fare percepire vantaggi competitivi veri o presunti, formare o distruggere una reputazione e/o una moda, e a tutti gli effetti, generare un bisogno, in tempi rapidissimi, impensabili in passato.
L’impatto della concorrenza
Quando ci si affacci ad un nuovo mercato, che lo si faccia in punta di piedi, ovvero che si abbiano il proposito e le risorse per farlo con forza, non si può trascurare una ricerca sui prezzi praticati dalla concorrenza presente; fatti salvi i casi, attualmente piuttosto rari, di incarnare il ruolo del pioniere per un certo bene, o di disporre di un prodotto senza alcuna concorrenza reale, nemmeno surrogata, in quel particolare mercato.
Il cosiddetto “benchmarking” risulta sicuramente più attendibile e funzionale quando condotto su imprese, non solo concorrenti, ma con simile dimensione e struttura dei costi alla nostra (assumendo i loro calcoli come idonei).
Facendo tesoro delle conclusioni dell’indagine menzionata, la direzione della nostra condotta complessiva, in termini di offerta, di comunicazione, di servizio, ma evidentemente anche, se non soprattutto di prezzo, dovrà indirizzarsi alla conquista di una quota di mercato, il che potrà avvenire tipicamente proprio a spese della concorrenza, sebbene in qualche misura, con adeguati messaggi e caratteristiche distintive, talvolta sia possibile attrarre anche nuove categorie di clienti tout court.
Alcune delle scelte tattiche improntate sulla concorrenza, quando sussistano i presupposti di sostenibilità finanziaria, possono contemplare l’allineamento ad abitudini già consolidate e remunerative, stabilendo un “prezzo di consuetudine”, oppure un prezzo lievemente inferiore o superiore a quello mediamente accettato, a seconda delle finalità perseguite, o persino un “prezzo civetta” (ovviamente in caso di B2C), che richiami l’attenzione del consumatore sulla nostra azienda e sulla nostra proposta commerciale complessiva.
Naturalmente le opzioni di cui sopra, qualora dovessero farci meritare visibilità, potrebbero indurre reazioni da parte della concorrenza, che legittimamente tenterebbe di salvaguardare le proprie posizioni. Chiaramente, nel medio-lungo periodo, il mercato tende ad assorbire questi meccanismi autoregolamentandosi, e si va a costituire un sistema di competizione dinamica, fisiologico e caratteristico, nel quale, il nostro compito diventa quello di ritagliarci uno spazio stabile.
Più nutrita e consolidata si palesa la presenza di concorrenza, in condizioni di libero mercato, più si delinea la tendenza all’insorgenza di un effetto di “perceived value pricing”, per un certo bene, da parte dei consumatori. E’ un elemento che sfugge al controllo dell’impresa, e che rende la curva della domanda più rigida alle variazioni di prezzo, ma tale orientamento può essere anche sfruttato dall’azienda a proprio vantaggio (introduzioni di migliorie, valore aggiunto tecnologico, servizi), per sparigliare il quadro.
Variabili e obbligazioni
In teoria, l’impresa potrebbe scegliere di determinare il prezzo anche sulla base di specifici traguardi di profitto, e anche in questa evenienza si declinano vari approcci e relative tecniche, da quella del “profitto obiettivo” a quella del “return on sales” fino al metodo del “return on investment”. Non indugio in delucidazioni, in merito, anche perché per le PMI che si approccino ad un mercato estero, questi ultimi restano criteri tendenzialmente velleitari.
E’ invece di rilievo trasversale e imprescindibile, la verifica ed il conseguente adeguamento, della presenza di eventuali vincoli legislativi in merito alla fissazione del prezzi, che possono avere carattere generale, oppure riguardare selettivamente alcuni mercati, canali di vendita, categorie merceologiche. A titolo esemplificativo, si possono incontrare limiti alle vendite promozionali, oppure vi possono essere prezzi calmierati o imposti per alcuni generi, o può sussistere l’obbligo di esibizione dei prezzi, talora anche il divieto di imposizione di prezzi di vendita ai distributori.
Non di rado, vengono effettuate verifiche anche su pratiche di dumping, possibili accordi di cartello, prezzi ingannevoli o “predatori”, e “discriminazione dei prezzi” che, in qualche caso, adombrano un retrogusto protezionistico. Esistono poi veri e propri mercati statalizzati o fortemente regolamentati (tabacchi, alcolici, ecc…), dove sostanzialmente scompaiono gli eventuali vantaggi competitivi e la partita si gioca su principi totalmente differenti.
Si è volutamente trascurato di trattare il “tranfer pricing”, in questo elaborato, essendo un concetto un po’ collaterale alla “galassia prezzo”, che verosimilmente verrà approfondito in altre occasioni.
Conclusioni
In buona sostanza, tanto per cambiare, è sempre bene muoversi preparati e studiare preventivamente, non limitandosi ad agire secondo le regole che magari abbiano pagato, fino ad oggi, per la nostra attività domestica, ma essere flessibili, talora sacrificare una parte di marginalità o accettare che il break-even point possa configurarsi relativamente lontano nel tempo.
Ciò detto, bisogna anche essere pronti ad accettare il fatto che laddove non esistano le condizioni per renderci competitivi, e con prospettive concrete di marginalità accettabile, almeno nel medio-lungo periodo, sia preferibile rinunciare, piuttosto che scegliere di sbattere la testa infinite volte, come una mosca sui vetri in estate, e a consuntivo dover fare i conti con danni economici significativi.
Saverio Pittureri
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Quando i rifiuti alle nostre offerte commerciali, fanno bene al nostro business internazionale
La rassegnazione al rifiuto
E’ lapalissiano che l’obiettivo prioritario dei nostri sforzi per strutturare un’attività di export interessante, sia quello di trovare clienti soddisfatti disposti ad acquistare con continuità. Fra le diverse strategie per raggiungere questo obiettivo, raramente viene data evidenza al risultato che può prodursi, profondendo qualche sforzo, nel lavorare sui “no”.
Se è vero, universalmente e trasversalmente, che non si possa piacere a tutti (anche al di fuori del contesto business…), è però auspicabile, nel business, cercare, con determinazione, di allargare la platea dei consensi, da un lato utilizzando ogni risorsa disponibile e, dall’altro, non sprecando le energie già investite. A tal proposito, le aziende approcciate, a prescindere dall’esito, ci costano un certo lavoro di selezione e promozione; fatica totalmente sprecata se ci accontentiamo di prendere atto dell’indisponibilità.
Il rifiuto della nostra proposta, da parte del potenziale cliente, statisticamente risulta un’eventualità largamente preponderante rispetto all’accettazione, ed è quindi normalmente percepita come naturale e inevitabile. Proprio detta ineluttabilità fa sì che buona parte delle imprese non ritenga di investire preziose energie sulle “bocciature”, e preferisca concentrarsi sul prossimo possibile cliente. Approccio comprensibile e rispettabile, che tuttavia priva l’azienda di fondamentali informazioni e opportunità.
Quando e perché?
Una prima domanda che ci dobbiamo porre, in relazione a nuovi potenziali clienti, riguarda la fase dell’approccio e/o della trattativa, in un determinato mercato, che venga più frequentemente bloccata dal diniego.
Se, per esempio, dovesse emergere che non si arrivi quasi mai a poter formulare un’offerta specifica, sarebbe da prendere in considerazione che la nostra comunicazione sia poco seducente, oppure trasferisca sensazioni di sfavore, sconvenienza, non competitività. Esaminando la nostra comunicazione dovremmo farlo a 360° nella forma, nelle modalità e nei contenuti, sia per quanto riguarda i contatti diretti con il potenziale cliente, che in relazione alla nostra comunicazione strutturale e istituzionale.
Cionondimeno, la causa prevalente dei fallimenti, potrebbe anche depositare in alcuni errori nella valutazione culturale e/o commerciale del mercato, quando, per qualche ragione, non risulti ricettivo rispetto alla nostra proposta, perlomeno così come formulata, oppure, talvolta, in una nostra scarsa capacità di profilazione dei soggetti ai quali rivolgersi, o magari nella sottovalutazione di concorrenti solidi e capaci, che abbiano in qualche modo saputo dettare regole e percezioni nel settore.
Qualora viceversa accada che ci sia data l’opportunità di formulare un’offerta, ma questa venga, sistematicamente o quasi, rigettata, è altamente probabile che le nostre condizioni di vendita non siano allettanti in quel contesto. La più ovvia motivazione peculiare potrebbe riguardare il prezzo, ma non solo e non necessariamente, vi possono essere grandi dissonanze anche per le modalità di pagamento, di garanzia, di consegna, di minimo d’ordine, di servizi accessori, ecc…
Solo per citare una delle cause più ricorrenti, molte aziende italiane, ostinatamente, non derogano per alcun motivo dal pagamento anticipato con i clienti esteri, modalità che ovviamente rende tutto più “facile”, non costringendo a studiare soluzioni alternative (comunque altamente tutelative, se ben congeniate), però, nella stragrande maggioranza dei casi, mortifica il fatturato in modo davvero significativo. Gli imprenditori se ne rendono conto, solitamente con stupore, solo quando finalmente accettano di sperimentare accordi diversi.
Reagire al silenzio
Come accennato, le cause dell’insuccesso, possono essere molteplici e, non di rado, concomitanti. Un’indagine di mercato approfondita (che sarebbe meglio attivare ex ante piuttosto che ex post), spesso potrebbe dare svariate risposte, ma in verità, non tutte e non sempre.
Uno strumento certamente più economico e, quantomeno altrettanto efficace nel merito, si sostanzia nel cercare di instaurare un minimo di rapporto con il potenziale cliente e, sulla scorta di detto rapporto, creare le condizioni per chiedere conto direttamente a lui, anziché tentare di indovinare.
Si tratta di un proposito tutt’altro banale, laddove il cliente non manifesti alcun interesse ad un accordo commerciale con la nostra azienda, ma per esperienza diretta, garantisco che in molti casi, è comunque possibile, se sussistano abilità relazionali, linguistiche e, sopra ogni cosa, capacità di interpretazione interculturale.
Naturalmente l’iniziativa di costruire un abbozzo di rapporto personale, al di là delle capacità soggettive, risulta molto più agevole quando il candidato cliente si incontri di persona, piuttosto che attraverso conversazioni a distanza. Questa è una delle innumerevoli ragioni, più volte richiamate nei miei interventi precedenti, che consigliano di pianificare periodiche missioni nei paesi target.
E’ poi intuibile che l’adozione di provvedimenti correttivi, di qualsivoglia natura, sul prodotto, sulla comunicazione, sui prezzi, ecc… che implichi investimenti e strategie imprenditoriali di lungo periodo, necessiti di essere corroborata da una sostanziale convergenza di riscontri in quella direzione, dal ricorso a fonti diversificate, e quando possibile, dall’assunzione di impegni almeno informali, in capo ad alcune controparti, per l’accensione di rapporti commerciali, una volta applicate le rettifiche opportune.
Conclusioni
Per quanto mi trovi d’accordo il concetto che il customer care si debba focalizzare prioritariamente sui clienti esistenti, producendo ogni sforzo per monitorarne il grado di soddisfazione e prevenire fughe verso i concorrenti, mi preme far notare che, quando possibile, valga la pena dedicare un certo tempo ed energia anche all’analisi dei “no”, che sono una fonte straordinaria di informazioni e opportunità di crescita in quel determinato mercato.
E’ peraltro abbastanza probabile, costruendo un dialogo con gli interlocutori riluttanti, di riuscire a recuperarne una parte, e trasformarli in clienti, una volta appianati gli ostacoli che ne avevano generato le resistenze. Come ogni altra attività di internazionalizzazione, anche questa deve però essere contestualizzata e inserita in una strategia complessiva e lungimirante, di medio-lungo periodo, al fine di raccogliere risultati soddisfacenti e duraturi.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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Fare business nella regione del MENA. Rapporti interculturali, economici e commerciali con il mondo arabo e gli altri Paesi dell’area – Parte III
Premesse
Affrontiamo oggi l’ultimo capitolo (per ora) della piccola dissertazione sulle opportunità di business nelle regione del MENA. In questo segmento conclusivo ci concentriamo sulla relazione interculturale, con le insite complessità interpretative e le dissonanze, ma anche talune chiavi di lettura contestualizzate e qualche suggerimento pratico per provare a costruire rapporti non conflittuali e possibilmente empatici.
Da secoli, i popoli del MENA risentono di una tendenziale percezione distorta. Il più delle volte ne proiettiamo un’immagine che li vede come bugiardi, lavativi, infidi, crudeli, retrogradi. Li cataloghiamo sbrigativamente dentro poche categorie prototipiche: “sceicchi” miracolati dal petrolio, “venditori di tappeti”, sacerdotesse della danza del ventre, cantatrici di zhagarit (l’urlo acuto che le vibrazioni della lingua trasformano in un trillo di gioia), migranti opportunisti, quando non terroristi, tenutari di harem o trafficanti di schiavi. Evidentemente iperbole, sulle quali mi permetto di ironizzare, ma fino a un certo punto…
E’ facile comprendere che si tratti del frutto di pigrizia mentale, e di stereotipi consolidati, ulteriormente esasperati, da diversi anni, da una narrazione strumentale, alla ricerca di un bersaglio confortevole. Una strategia piuttosto condivisa e premiante, che si nutre di un esplosivo coacervo di eventi drammatici, picchi di disperazione e collisioni culturali.
Ironicamente, fanno i conti con una matrice di disprezzo e diffidenza, non troppo diversa da quella all’origine dei pregiudizi sugli italiani, dai quali mi sono dovuto difendere, per molti anni, lavorando nei quattro angoli del mondo (e che perlopiù mi venivano confessati, schernendomi, solo molto tempo dopo i primi contatti, e solo una volta definitivamente dissipati dalla mia condotta radicalmente divergente da quel paradigma).
I fanatici integralisti nel mondo arabo naturalmente esistono, ma sono una irrisoria minoranza della quale si dolgono per primi tutti gli altri arabi, travolti in ogni senso da questa piaga.
Il grande contributo della cultura musulmana
Per tentare di scardinare alcuni preconcetti, giova ricordare quanto ampio e ramificato sia stato il contributo della cultura islamica allo sviluppo dell’umanità.
La storia del sapere nel mondo musulmano allinea pensatori di una versatilità e modernità sconvolgenti. La loro partecipazione al progresso delle conoscenze nelle scienze naturali, geografia, ingegneria, fisica, ecc.. è assolutamente fondamentale. Hanno inventato l’algebra, il sistema decimale e il concetto dello zero, sviluppato grandemente la medicina, l’alchimia (genitrice della moderna chimica) la geometria e l’astrologia, con gli annessi studi astronomici, e alcune scoperte sulla rifrazione della luce fondamentali per la fisica.
Da ricordare, fra le altre, vi sono anche l’introduzione dell’astrolabio e la determinazione dell’anno tropico in 365 giorni, 5 ore, 46 minuti e 24 secondi, l’identificazione di molte sostanze chimiche, la prima descrizione dei processi di sublimazione, riduzione, distillazione, gli studi sullo spazio e il moto dei corpi, l’intuizione della febbre come difesa del sistema immunitario, il riconoscimento del morbillo e vaiolo e varie altre malattie contagiose, e la prima descrizione del sistema circolatorio corporeo e del metabolismo. In occidente, la fama di medici quali Avicenna e Razī fu così duratura, che i loro lavori divennero libri di testo fino al XVIII° secolo, mentre di notorietà non minore fruirono gli studi di filosofi quali Averroè e Geber, considerato per secoli, anche in ambito cristiano, il più grande alchimista mai esistito.
Pochi poi sanno, ad esempio, che il mesopotamico Al-Jazari, può essere considerato, a buon diritto, uno dei più grandi scienziati e inventori di tutti i tempi, in breve un genio assoluto. Fra le sue creazioni più cospicue, ci furono l’albero a gomiti, la serratura a combinazione, il meccanismo del pistone alternato, l’orologio meccanico a contrappesi, il primo disegno registrato di un robot umanoide programmabile, una turbina a vapore e un motore a vapore funzionanti, uno spiedo autorotante, una pompa monoblocco a sei cilindri, una parziale pompa a vuoto, una sveglia meccanica, un orologio astronomico a molla, un orologio tascabile preciso al minuto, e forse tralascio qualcosa.
I luminari musulmani non furono da meno riguardo alle discipline umanistiche, introducendo in occidente la filosofia ellenistica, che diede un contributo formidabile alla formazione del pensiero dottrinale in Europa continentale, e non mancano scrittori, poeti e dotti, che hanno lasciato un’impronta molto significativa nella fioritura intellettuale dell’intera umanità. Gli arabi crearono biblioteche e strutture d’insegnamento pubbliche anche in Europa che, come nel caso di Cordova, costituirono di fatto le prime università del vecchio continente, alimentate dal sapere della cultura persiana antica, da quella indiana e da quella greca ed ebraica.
Anche al di fuori del mondo arabo, nel MENA, sussiste un’eredità di eccellenze. Ai persiani, ad esempio, dobbiamo, fra le altre, il servizio postale, le prime monete, i mulini a vento, la prima forma di animazione e persino il primo occhio artificiale. Agli antichi turchi, la banda musicale, le staffe dei cavalli, molte armi micidiali, lo yogurt, e molto altro.
Così vicini così lontani
Tutto ciò detto, il riverbero malevolo della discrepanza culturale ha radici profonde. Lowell Thomas, compagno d’avventure di Lawrence d’Arabia scrisse : “Noi misuriamo i liquidi e pesiamo i solidi. Gli arabi fanno il contrario. Noi mangiamo con coltelli, forchette e cucchiai, loro con le mani. Noi usiamo tavole e sedie, loro si accovacciano sul pavimento. Entrando in casa d’altri noi ci togliamo il cappello, loro le scarpe”
Aggiornando e integrando questo assunto, oggi potremmo facilmente aggiungere che ci scavalcano nelle code, interrompono con naturalezza una conversazione rilevante (anche rispondendo al cellulare), camminano tenendosi per mano fra uomini (un’eredità ancora presente anche in Sicilia) ma restano invece qualche passo avanti alla moglie, più coperta di un artificiere, si cospargono di profumi e colonie, ammettono la poligamia, e possono infliggere pene sanguinarie.
Villani, rozzi? A mio modo di vedere, nonostante quanto sopra, complessivamente no, hanno solo un diverso modo di vivere. Criticabile, per molti versi, bizzarro e poco leggibile per il nostro filtro di comprensione del mondo, ma soprattutto diverso, tanto diverso che, come ricordato molte volte, sovente genera negli occidentali sentimenti ostili e repulsivi.
In realtà, numeri alla mano, ai nostri giorni, la poligamia riguarda non più del 10% dei musulmani, e il fenomeno è diffuso soprattutto nelle aree rurali, tra i poveri delle periferie urbane e le comunità del deserto. A provocarlo, più che la tradizione, è il bisogno. La mortalità infantile è alta, più mogli assicurano una prole più numerosa, più braccia per il lavoro, più sostegno per la vecchiaia.
E’ invece realmente, e purtroppo sistematicamente, applicata la pena di morte. La triste classifica mondiale per il maggior numero di esecuzioni capitali (escludendo la Cina dove è segreto di stato), vede in cima Iran, Arabia Saudita, Egitto e Iraq, in classifica però allineano, fra gli altri, anche i civili USA, Giappone, Singapore e Tailandia. La pena di morte può essere inflitta per assassinio, traffico di droga, violenza sessuale, ma persino per apostasia. I colpevoli possono finire sulla forca o davanti a un plotone di esecuzione, per le donne è comune anche un colpo di pistola alla nuca, che permette di non scoprire il capo. In Arabia Saudita, i metodi più comuni sono ancora la decapitazione e la crocifissione.
Come già ricordato nei precedenti articoli, anche molti arabi “restituiscono la cortesia”, e non sono immuni da un filtro di pesanti condizionamenti e preconcetti nel giudicarci, sui quali, a mio parere, è non solo interessante ma anche formativo indagare. Talora nutrono persino una sorta di “complesso di superiorità” morale, considerandoci faceti, corrotti e inaffidabili. Salvo rari casi, saranno ovviamente ugualmente gentili verso di noi ma, nell’interesse della riuscita del business, è bene, nella relazione e nella conversazione, non dargli motivo per inspessire i suddetti paraocchi.
Come comportarsi negli incontri d’affari
Vado qui di seguito a proporre, non certo una guida esaustiva, ma qualche consiglio pratico relativo a situazioni ricorrenti, senza dimenticare che la soggettività resta imperativa e, di conseguenza, l’attenzione, la capacità di lettura delle circostanze peculiari e la moderazione, rimangono le nostre risorse migliori, e il binario sul quale, nel dubbio, è sempre raccomandabile orientarsi.
Ci si presenta abitualmente in modo completo, descrivendo chiaramente anche il proprio ruolo aziendale. Non esiste un equivalente di “signor”, alle volte viene preso a prestito il titolo nobiliare hashemita “Sayyed”. L’uso dei cognomi in genere ha una connotazione meno formale che in occidente. L’eventuale presenza, prima del secondo nome, del suffisso “bin”, significa “figlio di” o quando “bint” vuol dire “figlia di”. L’uso diffuso del solo primo nome, anche al primo incontro, non ci deve far dimenticare né i ruoli né la formalità della circostanza. Un amico o un conoscente che si stima, verrà molto probabilmente chiamato con il termine “Kunya” oppure “Abu” (padre di) seguito dal nome del figlio maggiore.
I saluti, sia di accoglienza che di commiato, tendono ad essere abbastanza cerimoniosi, non a caso il termine salamelecchi, venne coniato nel XV° secolo, proprio richiamando l’apparente ridondanza dei convenevoli negli incontri fra gli arabi. I titoli: “duktur” (dottore), frequentemente sostituito da “shaikh” (capo anche nel senso di ruolo tribale e seguito solo dal nome proprio, non dal cognome), “mohandas” (ingegnere) e “ustadh” (professore), vengono usati più o meno come in Europa. Qualora si abbia a che fare con un membro di una famiglia reale (non così raro nei Paesi arabi, dove possono ricoprire anche ruoli politici o diplomatici, e sono davvero molto numerosi), l’appellativo più appropriato è quello di “sumu almalek” (qualcosa di simile a “vostra altezza”). Se non ci viene risposto ad un saluto per più di due volte (e siamo certi l’interlocutore l’abbia sentito) significa che non siamo i benvenuti
Piccola cortesia molto gradita, può essere rappresentata dall’uso di alcune semplici parole in arabo, di facile apprendimento, quali: “salam-aleikum” e in risposta “aleikum-salam” (ovvero la pace sia con te) per salutare, o “shukran” (grazie) per ringraziare e “afwan” (prego). E’ estremamente diffusa nella conversazione corrente la locuzione “Inshallah” (se Dio vuole), ma suggerirei, da “infedele”, di utilizzarla con parsimonia e, nel caso, appropriatamente, poiché chiaramente va ad intercettare la sensibilità religiosa individuale, non sempre immediatamente decifrabile.
La settimana lavorativa è di 5 giorni, considerando che inizia di sabato e non di lunedì, e che la domenica è un giorno feriale. Le attività commerciali nei Paesi arabi, in genere aprono alle 9:00 del mattino, chiudono ( o sospendono l’attività) circa mezzora per le preghiere del mattino, poi si fermano per la pausa pomeridiana e riaprono dalle 17 alle 22 (in questo lasso di tempo chiudono per le preghiere del Maghrib e dell Isha).
Dobbiamo sempre considerare i tempi della preghiera (5 volte al giorno) per agevolare un buon svolgimento di qualsiasi incontro d’affari, e se riceviamo un ospite musulmano in Italia, è certamente apprezzato se siamo in grado di predisporre uno spazio adatto alle orazioni, mettendo anche a disposizione un bagno per le abluzioni rituali, e magari una bussola che possa identificare la direzione della mecca. Quasi sempre i musulmani sono rigorosi praticanti, e se nel nostro interlocutore è presente la zibiba, la protuberanza callosa in mezzo alla fronte, provocata dalla lunga abitudine alla preghiera, naturalmente si dissipa subito ogni dubbio.
Sempre nel caso che l’incontro si svolga nel nostro Paese, è arcinoto ma giova ripeterlo, che i musulmani, ma anche gli ebrei, non mangiano carne di maiale né consumano alcol. Se invece siamo ospiti, in alcuni Paesi del Golfo, è preferibile non rendere evidenti simboli religiosi cristiani (come catenine o braccialetti con la croce), né portare con sé immagini di nudo (anche il numero estivo di una banale rivista settimanale andrebbe esaminato preventivamente).
Usi e costumi…
Gli arabi attribuiscono una grande importanza all’ospitalità ed alla cortesia, e sono tradizionalmente generosi con gli ospiti e caritatevoli verso i poveri. Per meglio dire, la generosità è una delle virtù più ammirate nel mondo arabo, anche dove vi sia una scarsa conoscenza dell’interlocutore, pertanto un omaggio viene percepito come un segno di rispetto e di benevolenza, senza necessariamente sottendere richieste o pressioni specifiche legate alla discussione d’affari.
E’ percepito come piuttosto rude rifiutare un’offerta di cibo, bevande o altra gentilezza. Prima di un incontro d’affari, vige quasi sempre la cerimonia del caffè o del tè aromatizzati. Da una grande “dallah” di ottone viene versato caffè leggero al cardamomo, in appositi piccoli calici. L’incaricato al caffè continuerà a versare finché l’ospite non agiterà il suo calice vuoto e rovesciato, per indicare di avere ricevuto caffè a sufficienza, congedando con tale gesto l’uomo incaricato.
Se il nostro interlocutore arabo si presenta scalzo (e probabilmente è circondato da molti tappeti) è buona norma se ugualmente ci togliamo le scarpe e le lasciamo fuori dalla stanza. Quando si è seduti, è preferibile fare attenzione a non rivolgere la suola della scarpa in direzione di una persona, poiché essendo considerata, nella tradizione islamica, uno dei punti più spregevoli della topografica umana, potrebbe essere percepito come offensivo.
I biglietti da visita nel mondo arabo sono comuni, ma non indispensabili, nel caso dovrebbero essere scritti in arabo o almeno in arabo e inglese sui due lati. Per quanto riguarda cataloghi, listini prezzi e materiale promozionale, risultano molto incisivi se scritti unicamente in arabo piuttosto che in più lingue, per quanto, in molti Paesi l’inglese sia largamente praticato dalla stragrande maggioranza della popolazione, essendo la lingua con la quale si rivolgono alla numerosissima forza lavoro asiatica. Se anche il sito web della nostra azienda presenta, fra le opzioni, la traduzione in arabo, ed è “responsive” (usano in grande prevalenza la navigazione mobile), naturalmente ne ricaviamo un “plus” molto importante.
La trattativa commerciale
La segretaria o il segretario, salvo rari casi, non hanno il permesso di fissare gli appuntamenti per conto del proprio datore di lavoro. Per ragioni culturali, è consuetudine consolidata prendere appuntamenti per un momento della giornata e non per un’ora specifica. Senza generalizzare eccessivamente, rispetto al tempo esistono un sentire arabo e uno occidentale, molto distinti, di cui gli arabi sono decisamente più consapevoli di noi.
Ricordo, ad esempio, alcuni anni fa, un cliente marocchino, ottimo e affidabile da ogni punto di vista, che disattendeva puntualmente gli appuntamenti presi e ribaditi per settimane, a dispetto delle mie sistematiche, insistite quanto vane, richieste di rispetto degli accordi. Stazionavo, a volte anche più di un giorno di seguito, nel suo ufficio, per ore, e prima di andarmene, arreso alla sua latitanza, dalla figlia-segretaria, mi sentivo riferire, con ovvio disagio: “Bukra (domani), Inshallah”. Quando il cliente finalmente arrivava, carico di regali, e sinceramente felice di vedermi, mi trattava letteralmente come un fratello ed eravamo inseparabili, ma soprattutto comprava davvero tanto, tuttavia non ricordo di averlo mai sentito espressamente scusarsi per il ritardo…!
Questo singolare senso del tempo arabo, fa anche sì che l’andamento delle trattative possa attraversare due fasi a velocità totalmente diverse, ovvero parta con ritmi molto lenti e lunghe pause, una modalità estenuante e scoraggiante, agli occhi di un occidentale, dove non si percepisce alcun progresso, con molti ritorni a capo e inceppi, poi accada, con una certa ricorrenza, che vi siano accelerazioni improvvise e quasi si sia incalzati a decidere in tempi strettissimi. Questa evoluzione può naturalmente riguardare anche le trattative condotte a distanza.
E’ nota la propensione del mondo arabo per la negoziazione sui prezzi, e non è un caso che negli esercizi di qualsiasi genere, non vengano mai esposti. Esiste una vera e propria liturgia nella determinazione del corrispettivo, che ha importanti implicazioni culturali e psicologiche, e sottende un confronto dialettico talvolta raffinato e uno sfoggio di abilità commerciali. Questa fase pertanto, deve essere percepita come parte integrante della relazione, e affrontata con la necessaria leggerezza e preparazione, sapendo preventivamente (e adeguandosi…) che il prezzo proposto per quanto competitivo, non sarà mai quello definitivo. Per altro, una nostra rigidità su questo fronte, non di rado, viene avvertita come mancanza di rispetto e naturalmente non facilita la conclusione positiva della transazione.
Cechiamo infine di non essere insistenti o petulanti sui pagamenti, durante la trattativa, quanto piuttosto di tutelarci poi concretamente sul piano tecnico e contrattuale. Questo perché secondo l’Islam, il buon musulmano non può lasciare debiti che gli eviterebbero l’accesso al paradiso, e dal momento che vi scorrono fiumi di acqua limpida, latte e miele, tra giardini ombrosi e fioriti, e i beati vengono accolti dalle Uri, giovani stupende “dai grandi occhi scuri e preziose come rubini e coralli”, è comprensibile come il credente sia incentivato ad adempiere ai propri impegni finanziari, e il dubitarne platealmente metterebbe in discussione un principio di fede.
Paese che vai…
Nello “small talk”, che precede, interlude e segue la trattativa (e contribuisce a creare simpatia e fiducia, se siamo bravi), evidentemente non sono strettamente necessarie nozioni approfondite di storia del Paese o di storia e cultura dell’Islam, tuttavia è molto apprezzato se, durante gli scambi, emerge una qualche cognizione di causa da parte nostra, anche in virtù dei molti luoghi comuni, duri a morire, più volte richiamati in questo articolo. Non diversamente dagli italiani, la stragrande maggioranza degli arabi è appassionatissima di calcio (europeo), ne ho conosciuti di abbonati a squadre inglesi, pur vivendo nel Golfo!
Argomentare, anche con energia (senza giungere al litigio), è inaspettatamente benaccetto, e anzi percepito come espressione di personalità tanto che tendenzialmente ingenera stima. E’ possibile che vi venga richiesto di descrivere la vita o le abitudini del vostro Paese, indugiare su arte, storia e made in Italy (riconosciute universalmente), è la linea di condotta più semplice e meno azzardata. Se siete in disaccordo su questioni di politica o economia internazionale che vengano sollevate, non vi è nulla di grave, anzi, purché le vostre tesi non urtino la sensibilità del vostro ospite.
Non bisogna mai, in alcun caso, rischiare di mettere a repentaglio la dignità e l’autorità di una persona di fronte ad altri, anche quando abbiamo rimostranze importanti nei suoi confronti, soprattutto se siamo nella sua casa o nel suo ambiente di lavoro. Tale comportamento garbato sarà rivolto verosimilmente anche a noi, e tendenzialmente ci verrà detto che un certo affare va studiato più attentamente, quando non convince o va al di là delle possibilità dell’interlocutore. In quel caso non si innescherà alcun tiro alla fune sul prezzo, che definisce un segnale inequivocabile di interesse.
Indovina chi viene a cena…
Se i rapporti si strutturano sufficientemente, è frequente che la giornata in ufficio si possa concludere con un invito a cena. Le cene sono spesso abbastanza informali, e non di rado organizzate nella casa dell’ospitante. Sovente sono precedute dalla conversazione in un’ampia stanza che è solitamente prospicente all’ingresso, la “Dewaniya” (da cui deriva il nostro termine “divano”), attrezzata con divani, cuscini e pochi altri arredi, salvo eventuali tavolini per le bevande. Nella “Dewaniya”, quando si intrattengono gli uomini, non sono presenti donne. In alcuni Paesi, questo ambiente è presente anche in edifici pubblici, come luogo di trattative e persino di importanti decisioni politiche. Si mangia, solitamente con le mani, da un unico grande piatto di portata per tutti i commensali, che nuovamente sono esclusivamente uomini. Un eventuale ritrosia o rifiuto del cibo (almeno un assaggio di ogni portata) è un messaggio negativo piuttosto forte, che non si giustifica nemmeno con la disabitudine a certi alimenti.
Raramente saranno presenti quadri nell’abitazione, Il Corano non vieta esplicitamente la rappresentazione della figura umana o più in generale di esseri viventi, proibisce piuttosto l’idolatria, il divieto è invece inequivocabilmente presente nella Sunna, e poiché il creato è opera esclusiva di Dio, la sua rappresentazione ne risulta fatalmente impura. Dette immagini sono quindi tassativamente escluse nei luoghi dove si pratica la preghiera, ma poco popolari ovunque. Per contro, la liceità della rappresentazione di immagini di esseri inanimati, senza il Rūḥ di Dio, ovvero cose e vegetali, ha dato vita allo sviluppo dell’arte dell’arabesco e della calligrafia, sia nello spazio sacro (moschee) che nello spazio profano.
Personalmente ho indossato più di una volta il thawb (il tipico abito arabo) a queste cene. In un caso mi era stato regalato (confezionato da un sarto, su misura), e l’indossarlo rappresentava evidentemente un segnale di gratitudine e considerazione verso il donatore. Non consiglierei tuttavia di farlo indiscriminatamente, soprattutto con un grado di conoscenza dell’ospite limitato, e senza la necessaria disinvoltura, poiché potrebbe essere facilmente frainteso il significato dell’iniziativa.
Ho avuto anche la fortuna di essere invitato ad un matrimonio, durante il quale molti colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi verso il cielo, ho dormito in una tenda nel deserto, mangiato l’agnello cotto per tutto il giorno, in un buco nella sabbia, assistito a canti e danze antiche, inscenati in mio onore, bevuto il latte di cammello appena munto e sentito ululare gli sciacalli al tramonto. Non garantisco che l’attivare relazioni d’affari con partners arabi vi offrirà le stesse coinvolgenti esperienze di vita, ma non possiamo nemmeno escluderlo!
Nel nostro business nel MENA, avremo a che fare con manager o proprietarie d’azienda donne?
La condizione della donna è proprio uno dei temi più sensibili riguardo alla distanza culturale fra mondo occidentale e mondo arabo. Riassumendo grossolanamente, nel MENA, non è troppo difficile interagire con controparti femminili in Israele, è possibile in Nord Africa e Turchia, assai raro o addirittura improbabile nei Paesi del Golfo.
In verità, i diritti riconosciuti e le responsabilità delle donne, all’interno delle società di cultura prevalente musulmana, variano molto da Paese a Paese, in base a diverse interpretazioni della dottrina islamica e dei principi di laicità adottati. Detti diritti, evidentemente spaziano dallo status legale, abbigliamento, istruzione, facoltà concesse, accesso al mondo del lavoro, ecc… e, non a caso, prima della pandemia, il tasso medio di partecipazione alla forza lavoro sul totale della popolazione femminile, nella regione MENA, era solo del 28%, che è significativamente inferiore alla media globale, e ora è precipitato addirittura al 20%!
In sostanza, in alcuni stati, le donne hanno ormai ottenuto l’accesso ad attività e diritti, una volta destinati quasi esclusivamente agli uomini, mentre nei Paesi più tradizionalisti, ovvero in quelli che tendono all’applicazione a pieno titolo della sharīa, (dove gli Hadith, la Sunna, gli insegnamenti attribuiti al Profeta, che insieme alle regole del Corano costituiscono le fonti del diritto islamico), vige un diverso modello. In tali contesti, il “sentiero da seguire”, la legge divina viene decodificata in maniera molto rigorosa, e le donne non vivono una situazione egualitaria in termini di diritti e di libertà personali, sono piuttosto considerate, in qualche modo, subordinate all’uomo.
Donne e diritto islamico
Per fare qualche esempio, nei Paesi dove la condizione di genere è maggiormente penalizzante, la donna viene dichiarata uguale di fronte a Dio, ma la sua testimonianza in tribunale, vale la metà di quella di un uomo. Sempre per le fonti coraniche, nella spartizione dell’eredità le tocca una quota minore, il marito può ottenere il divorzio semplicemente ripetendo tre volte, in presenza di testimoni: “io ti ripudio”, la moglie, viceversa, deve rivolgersi ad un tribunale e solo in casi molto particolari, di acclarati maltrattamenti o indifferenza da parte del marito, può sperare di ottenere il provvedimento; i figli in ogni caso restano col padre.
La donna, finché rimane in famiglia, è sottoposta all’autorità del padre, successivamente, quando si sposa, passa sotto l’autorità del marito. Paradossalmente esclusa da questa tutela (wilāya) è la nubile non più giovane (anīs), che può in tutto e per tutto gestirsi senza dipendere dall’altrui beneplacito. Per la maggioranza delle donne, è quindi molto complesso rendersi autonome, o semplicemente condurre una vita sociale indipendente, così come frequentare persone al di fuori della famiglia e, evidentemente, dedicarsi ad attività professionali, sportive o ludiche.
I costumi vigenti e le lenta marcia verso l’emancipazione
All’uomo è raccomandato di essere gentile e giusto verso le mogli e di provvederne al mantenimento. La sura “della Luce”, il v. 31 prescrive che le credenti abbassino gli sguardi e “custodiscano le loro vergogne, non mostrino troppo le loro parti belle ad altri che agli uomini della famiglia, e non battano i piedi sì da mostrare le loro parti nascoste”.
Circa l’obbligo esplicito di portare il velo e coprire il volto, non c’è alcun versetto che lo definisca espressamente, e nemmeno il v. 59 della sura “delle Fazioni alleate” lo afferma, sebbene reciti: dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano dei loro mantelli. Può sembrare illogico, ma i Paesi arabi sono fra i mercati più remunerativi al mondo per la moda italiana, che viene indossata in casa o sotto l’abaya.
Sempre nei Paesi di cui sopra, le donne studiano in aule separate, nelle moschee pregano in una sezione invisibile, negli uffici non possono lavorare a contatto con i colleghi maschi e, al ristorante, dove non andranno mai sole, possono accedere alle sole aree per famiglie. Se viaggiano, devono essere accompagnate da un parente, preferibilmente maschio. In Arabia Saudita solo dal 2018 possono guidare l’auto ed assistere ad eventi sportivi.
L’introduzione del suffragio femminile, in Paesi a maggioranza musulmana (che non corrisponde all’ammissione all’elettorato passivo) e, non sempre universale, per i Paesi del Golfo, si colloca fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo (evidentemente laddove si svolgano elezioni popolari); ultima arrivata è l’Arabia Saudita nel 2015, mentre in Nord Africa tale diritto era già stato ampiamente acquisito in precedenza.
L’atteggiamento nei confronti delle donne, per non fare gaffe
Evidentemente rimane valido il principio generale di sapersi adattare, con flessibilità e buon senso, alle diverse situazioni, tuttavia in linea di massima, nei Paesi più restrittivi, è sconveniente rivolgersi ad una donna, anche solo per i saluti o i complimenti tipici, che si farebbero alla cucina o alla casa, in un contesto occidentale.
Si dovrebbe evitare anche di guardare una donna con insistenza e, a maggior ragione proporre una stretta di mano, salvo che non sia la signora a tenderci la mano per prima, e ovviamente astenendosi da qualsiasi altro contatto fisico più confidenziale. Occorre prestare qualche attenzione anche nella condivisione di spazi stretti accidentali, come ascensori, mezzi di trasporto, luoghi pubblici (laddove non siano già predisposte separazioni obbligate).
Ciò detto, mi è capitato di scambiare opinioni in tutta serenità con donne, in ambienti domestici o comunque “protetti”, anche in Paesi del Golfo, ma si è trattato di situazioni, nelle quali esisteva già fiducia e consuetudine con uomini di famiglia, e quasi sempre di persone abituate a viaggiare e interagire con occidentali anche al di fuori del proprio Paese.
Considerazioni contingenti
Questa fine del 2021 vede il MENA al centro di eventi di portata mondiale, in primo luogo per l’Expo di Dubai, ma anche per la Conferenza Rome Med, attualmente in svolgimento. Sul nuovo anno però si continuano a proiettare anche alcune ombre sinistre ben lungi dalla prospettiva di una soluzione stabile.
Per un verso, l’onda lunga pandemica, che genera uno scenario anomalo, a macchia di leopardo, e altamente sfidante, dall’altro le tensioni politiche vecchie e nuove, che coinvolgono i Paesi che appartengono al MENA, ma anche le potenze mondiali aspiranti a gestirne la regia, senza dimenticare le incertezze correlate alla transizione energetica, la crisi climatica, passando per la raggelante ferita dell’emigrazione, fino ad un’inflazione incontrollata. A queste sopraggiunte criticità, si sommano questioni incancrenite, come la diffusa polarizzazione e personalizzazione del potere, difficili da affrontare nel breve periodo, sia per le nazioni ricche che per quelle povere.
Va da sé che i summenzionati orientamenti, dettati dall’attualità, debbano essere attentamente valutati e amalgamati con le informazioni consolidate, prima di affrontare un progetto di business regionale, soprattutto con orizzonte breve.
Sull’impatto del covid19, la raccolta dei dati nella regione è stata imperfetta, inaffidabile e limitata, a causa di fattori quali test insufficienti, sistemi di raccolta dati inefficienti e mancanza di trasparenza. Le risposte dei governi sono state diverse, e spesso vincolate da fattori quali l’accesso al vaccino e la forza dei sistemi sanitari.
Per fare qualche esempio, mentre Israele è stato un Paese laboratorio per il resto del mondo, l’Iran inizialmente ha negato l’esistenza di incidenze del virus, prima di attuare un blocco inefficiente e ritardato; dal canto loro, i Paesi del Golfo hanno scelto di imporre rigidi “lockdown” e dure sanzioni in caso di violazioni delle normative sulla quarantena.
La Federazione internazionale delle società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa (IFRC) ha riportato sostanziali disparità nella distribuzione dei vaccini. Meno del 5% dei vaccini che sono stati somministrati nella regione ha raggiunto paesi che stanno affrontando “crisi umanitarie protratte”, e le economie più ricche hanno avuto più successo nel vaccinare i propri cittadini.
Le previsioni per il prossimo futuro
Tale disparità nella distribuzione dei vaccini avrà inevitabilmente un impatto diretto sul recupero economico e sociale dei diversi Paesi. Le donne sono state colpite in modo preferenziale e sproporzionato dalla pandemia nella regione MENA, poiché hanno affrontato “una maggiore esposizione al virus“, in quanto, da un lato, in prima linea nell’opera assistenziale, hanno agito come principali fornitrici di accudimento per i membri della famiglia, e dall’altro hanno avuto un accesso più difficile alle cure mediche.
Nel complesso, il grado di recupero delle economie MENA, nel 2022, varierà a seconda delle differenze nelle scelte politiche. Le leadership nei paesi più ricchi, con una minore dipendenza dal debito estero, che possono anche permettersi di offrire uno stimolo fiscale più forte, un alto tasso di vaccinazione, maggiore protezione contro shock futuri (compresi quelli già incipienti, legati al clima), avranno maggiori possibilità di riconquistare la fiducia del popolo, e fornire risultati di ripresa economica più rapidi rispetto a quelli delle nazioni più povere.
Il mondo intero attraversa un periodo di riassetto, e mentre l’economia globale cerca di riprendersi dagli effetti dei blocchi e mobilità ridotta durante la pandemia di Covid-19, deve già pensare alle soluzioni a medio e lungo termine per fare fronte ai prossimi ardui cimenti, già chiaramente delineati, fra i più importanti dei quali: la transizione energetica. E mentre è probabile che il trend a lungo termine della domanda globale di petrolio diminuisca nel prossimo decennio, l’ attuale compravendita mondiale di greggio corrisponde già ai livelli pre-Covid con oltre 100 milioni di barili al giorno.
L’accordo di cooperazione tra i maggiori produttori, denominato OPEC+, in vigore da dicembre 2016, continua a reggere, tuttavia c’è un divario crescente fra i membri firmatari, nella reattività della propria capacità estrattiva. Alcuni produttori, tra cui Russia e Nigeria, sono decisamente meno flessibili e meno in grado di aumentare lo sfruttamento di capacità inutilizzata. La rottura tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita nel luglio 2021, ha messo inesorabilmente in evidenza alcune delle incongruenze tra i principali attori, nelle gestione delle riserve e nelle strategie di esportazione, in un’orizzonte temporale che vede il mix energetico globale meno dipendente dal petrolio, nel medio-lungo periodo, ma ancora strettamente vincolato nel breve, con tutte le considerazioni strategiche e politiche che ne derivano.
Il Medio Oriente, per altro, sta diventando l’ennesimo teatro competitivo fra Cina e USA. La Cina fa molti affari nella regione, importando oltre il 40% del suo greggio dai produttori del Golfo, e ha identificato il MENA come un importante hub, nella “Belt and Road Initiative”. Allo stesso tempo, per altri versi, il Medio Oriente non rappresenta un fulcro fondamentale per la Cina, quantomeno rispetto a regioni più vicine a casa, come il Mar Cinese Meridionale o l’Asia Centrale e, in questa fase, il colosso asiatico deve concentrarsi prevalentemente sulle forti pressioni politiche ed economiche interne, e sulle relazioni con vari paesi ostili, alla sua periferia. Gli Stati Uniti, per contro, hanno importanti e storici alleati e partner economici regionali, ma i loro interessi nell’area MENA sono da tempo in declino, e Biden, per le annose e articolate controversie dell’area, ha tracciato una chiara linea di condotta, improntata più sull’influenza diplomatica che sulla presenza diretta.
Questo vuoto emergente, lasciato dagli Stati Uniti, ha da tempo innescato una corsa per il potere e l’influenza nel bacino del Mediterraneo e in Medio Oriente, che dovrebbe servire da campanello d’allarme affinché l’Unione europea svolga un ruolo più ampio nella distensione dell’attuale crisi. Per dirla in modo diverso, le tradizionali fonti di attrito tra Turchia, Grecia e Cipro, ora combaciano con un’altra serie di tensioni geopolitiche interconnesse e controversie energetiche nel Mediterraneo orientale, che vedono coinvolto, oltre alla Turchia, un gruppo di paesi tra cui Francia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
Il rompicapo politico
Pertanto, non solo è cresciuto il numero di Paesi coinvolti nella crisi , ma il contenuto della disputa si è anche ampliato, per includere nuove questioni, tra cui le recenti scoperte energetiche nel Mediterraneo orientale, e il sempre più esteso “imbroglio libico”, e tutto ciò sta accadendo in un momento in cui gli Stati Uniti, come detto, stanno ridimensionando la propria impronta regionale. Una recentissima de-escalation tra Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Israele, in verità, parrebbe delinearsi, e l’elemento più importante è rappresentato dall’arresto delle attività di perforazione ed esplorazione nelle acque contese. L’incertezza e la precarietà degli equilibri tuttavia restano molto elevate, e tutti richiedono che l’Europa sviluppi una visione e un impegno geopolitico più incisivi.
Durante il vertice ministeriale di settembre a Dushanbe, è stato annunciato che l’Iran avrebbe iniziato il processo per diventare un membro a pieno titolo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), guidata da Cina e Russia, un’adesione a cui l’Iran aspirava fin dal 2008. Questo accade, quando ai primi di dicembre, era atteso l’inizio di un negoziato per la ricerca di un rinnovato compromesso fra lo stesso Iran e gli USA, dopo quello sancito nel 2015, e disatteso dall’amministrazione Trump, che vedrebbe il presunto programma nucleare civile iraniano severamente limitato, in cambio della revoca delle sanzioni internazionali.
Ancora più sorprendentemente, nel maggio 2021, il Wall Street Journal ha riferito che la Cina stava costruendo una struttura militare negli Emirati Arabi Uniti. Con un accordo di cooperazione per la difesa, in vigore dal 1994, gli Emirati Arabi Uniti sono profondamente impegnati con Washington, negli affari politici e di sicurezza, e gli accordi di Abraham del 2020, sembrerebbero consolidare ulteriormente questo aspetto, così come l’accordo per la vendita degli F-35 agli stessi Emirati Arabi Uniti. Evidentemente le intese parallele fra EAU e le due superpotenze suonano abbastanza stridenti e, se da un lato sono la testimonianza tangibile di questo particolare momento storico di transizione, dall’altro rappresentano un viatico intricato e vagamente inquietante di contrappesi.
Anche la Russia non resta esclusa dalla partita, essendosi affermata, negli ultimi anni, come un intermediario solido e credibile per la sicurezza della regione, da un lato con energiche operazioni militari in Siria, dall’altro, sia in relazione allo scontro strisciante fra Iran e Israele, che alle mire egemoniche turche, nelle aree di confine sudorientale; sebbene la Turchia sembrerebbe ora avere intrapreso una strada di riconciliazione e relazioni politiche ed economiche normalizzate con i vicini, quantomeno rispetto all’isolamento sostanziale e “all’interventismo preventivo” della precedente stagione.
Conclusioni
A chiusura di questo percorso di (relativo) approfondimento sul MENA, caratterizzato da molti inevitabili limiti, e srotolato lungo tre articoli, in primo luogo ringrazio chi abbia voluto leggermi, e auspico possa aver trovato spunti e informazioni utili. Non fosse altro, mi auguro di aver stimolato qualche curiosità, che notoriamente è l’anticamera della conoscenza. Conoscenza, che non solo ci affranca dai luoghi comuni, ma che soprattutto rappresenta l’arma definitiva, troppo spesso sottovalutata, per ottenere risultati brillanti di business.
Rettifiche e integrazioni sono gradite soprattutto quando documentate, così come ogni genere di commento che stimoli il confronto fra professionisti con esperienze magari diverse.
Saverio Pittureri
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Fare business nella regione del MENA. Rapporti interculturali, economici e commerciali con il mondo arabo e gli altri Paesi dell’area – Parte II
Dove eravamo rimasti…
Sulla scorta del precedente articolo, dovremmo avere acquisito maggiore consapevolezza sulle peculiarità di questa regione, ma al tempo stesso anche su quanto possano essere influenti le eterogeneità fra i vari Paesi che la compongono.
A tal proposito, fra di essi, vi sono mercati che per caratteristiche marcatamente distintive, per specificità di business, consistenza economica e/o demografica, rapporti con l’Italia, certamente meriterebbero una trattazione autonoma (Turchia, Iran, Arabia Saudita, EAU, solo per citarne alcuni), non è questo l’obiettivo odierno, ma lo potremo considerare per il futuro.
Ciò detto, e con i limiti insiti nelle suddette premesse, proviamo qui di seguito a proporre una sintesi di informazioni e linee guida economiche, che possa risultare utile per l’approccio business nel MENA, quantomeno in senso generale.
Il profilo economico del MENA
La regione MENA, costituisce il più importante «serbatoio energetico» del mondo, ed è un’area di transito per buona parte delle merci spostate via mare, da oriente ad occidente e viceversa (i traffici commerciali «intra-MENA» rappresentano appena il 7-8% del movimento merci nella regione). Dal solo stretto di Hormuz (prospicente alle coste iraniane) transita il 40% del petrolio mondiale, per non parlare dell’importanza strategica del canale di Suez (di cui è previsto un sostanzioso ampiamento).
Benché dopo il 2010 si sia registrata una relativa stabilizzazione, all’attuale ritmo di crescita, nel giro di 5 anni, la popolazione complessiva del Maghreb, dovrebbe superare quella di Francia, Italia e Spagna messe insieme; quella dell’intero MENA l’ha invece già superata da tempo. L’elevato tasso di giovani, fra i più alti del mondo, costituisce un prezioso potenziale intellettuale e di forza lavoro e, questi stessi giovani, rispetto alle generazioni precedenti, mostrano una forte propensione all’acquisto di prodotti occidentali.
Il tasso di estrema povertà, convenzionalmente inteso per un reddito ≤ 1,25 $USA/die, riguarda il 4% delle popolazione, uno dei più bassi fra tutte le aree in via di sviluppo al mondo, ma viene, in qualche modo, controbilanciato da quello correlato alla povertà relativa (fra 2,43 e 2,70 $USA/die), che interessa fra il 30 e il 40% della popolazione, in vari Paesi del MENA, pur evidentemente con diverse variabili e disomogeneità generali e locali. In ogni caso, un costante miglioramento degli standard di vita è innegabile, relativamente ubiquitario, e porta con sé, fra le altre, una richiesta crescente di prodotti e servizi di alto livello qualitativo, più marcata nell’area del Golfo, ma in salita in tutta la regione.
Gli shock petroliferi degli anni Settanta, hanno stimolato una rapida crescita economica della maggior parte del MENA (fino a 60 anni fa, i Paesi produttori di greggio vivevano ancora essenzialmente di agricoltura, pesca e pastorizia). Le entrate derivanti dal petrolio, hanno generato un volano virtuoso che ha permesso la strutturazione di sistemi economici e finanziari moderni. Dai primi anni 2000, le economie dei Paesi MENA, nonostante le crisi globali, mantengono tassi di crescita media reale del PIL intorno al 4,0/4,5% all’anno.
I trend attuali
A dispetto della crescita sopra accennata, in alcuni Paesi la disoccupazione giovanile rimane a livelli preoccupanti, ed è chiaramente uno stimolo all’emigrazione (fenomeno comunque in progressiva riduzione), è però incoraggiante che nel giro di pochi anni, il tasso medio di disoccupazione del MENA, sia calato dal 15 al 11%, e stia tuttora confermando questo orientamento virtuoso. Certamente, ad oggi, questo indicatore costituisce ancora una piaga piuttosto impattante, nel valutarne la portata occorre tuttavia tenere in considerazione il problematico accesso al lavoro da parte delle donne, una condizione strutturale, in alcuni dei Paesi coinvolti, che non accompagna plasticamente la curva della domanda e dell’offerta.
La crescita, come detto, è sostenuta direttamente sia dai produttori di idrocarburi (Arabia Saudita, EAU, Iran, Kuwait, Algeria, Egitto, Libia, ecc…), come da quei Paesi che hanno ricevuto ingenti investimenti diretti intra ed extra-MENA, e/o che hanno sviluppato significativi flussi turistici e, in qualche caso, anche una certa consistenza industriale (Egitto, Giordania, Libano Marocco, Siria, Tunisia, Turchia,..), infine da quelli che si sono inventati, con molto ingegno, servizi finanziari e commerciali articolati (Emirati Arabi, Bahrein, Qatar).
L’area attira più investimenti dell’intero Mercosur, e dai suoi porti e canali, transita circa un quarto del commercio mondiale (oltre 200 navi al giorno per un totale di 15milioni di tonnellate di merci l’anno). Oltre il 40% del petrolio mondiale è attualmente estratto dai Paesi MENA, si è però ridotta sensibilmente negli ultimi 10 anni, la destinazione europea. L’Europa continua a dipendere per quasi i 2/3 del proprio fabbisogno energetico da Paesi terzi, ma per scelte politico-strategiche, attualmente, il vecchio continente si rifornisce prevalentemente dalla Russia.
ESPORTATORI DI PETROLIO
Una sfida non banale per i Paesi del MENA, si gioca sulla necessità di contrastare la scarsità di risorse idriche, che evidentemente impatta non solo, come ovvio, sulla vita quotidiana delle persone, ma anche sullo sviluppo delle attività economiche. Nonostante l’aggravamento procurato dal cambiamento climatico, va sottolineato, in positivo, il fatto che oltre l’80% della popolazione del MENA, abbia oramai accesso ad acqua potabile “portatile”, e che nella regione, per fare fronte a tale bisogno, siano state estesamente implementate costose tecnologie, quali gli impianti di desalinizzazione, che nei paesi GCC forniscono circa il 50% del fabbisogno totale.
Le previsioni e le opportunità future
I Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, EAU, Kuwait, Qatar e Oman), insieme a quelli del bacino Mediterraneo, sono per unanime pronostico dei tecnici, fra quelli che presentano le migliori prospettive di crescita nel mondo. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, il PIL pro capite di quest’area (i Paesi del Golfo già presentano valori fra i più alti al mondo), continuerà ad incrementare mediamente con tassi superiori al 12%, nei prossimi anni, pur con una distribuzione ancora piuttosto segmentata e una vistosa dissonanza fra i più ricchi e il resto della popolazione.
Nel suo insieme, la macro-area rappresenta ora intorno al 5% del PIL mondiale, che la maggioranza degli osservatori tendono a ritenere in ulteriore crescita, sia relativa che assoluta. La “finanza islamica” ha un valore potenziale di oltre 1.000 miliardi di $ USA l’anno, e verosimilmente muoverà, nei prossimi 3/5 anni, un ammontare di 3 trilioni di $ USA, nei Paesi occidentali, in buona parte attraverso i fondi sovrani (che ad esempio, dopo il 2009, hanno salvato alcune banche dal crack, in USA e nel resto del mondo). Si prevede che nei prossimi 10 anni, verrà raggiunta una quota intorno al 50% del risparmio totale afferente alla popolazione musulmana nel mondo, gestita da banche islamiche.
I sistemi finanziari di questi Paesi si sono dimostrati relativamente poco vulnerabili agli effetti della crisi finanziaria ed economica del decennio scorso, ovvero ne hanno risentito in misura minore rispetto sia alle economie sviluppate, sia a quelle dei Paesi in via di sviluppo. In termini numerici, il 2009, che prima del ciclone pandemico era stato il peggior anno per l’economia mondiale moderna (con un arretramento globale del PIL dello 0,6%), nel MENA aveva visto un incremento di PIL del 2,4%. Per il 2021 e 2022 il FMI prevede una crescita del PIL nel MENA intorno al 4,5%.
La resilienza di questi sistemi economici si è sostanziata sia laddove gli elevati prezzi del petrolio avevano permesso la costituzione di ampie riserve valutarie, sia, in altri casi, in conseguenza del relativo isolamento dei sistemi finanziari (ad esempio la limitata apertura verso strumenti strutturati come i “derivati”), che ne ha ridotto sensibilmente la contaminazione.
Si registra una notevole differenza fra i Paesi del Golfo, nei quali resta ampiamente diffuso l’istituto della «sponsorship», per consentire ad uno straniero di risiedere ed operare in loco, rispetto ai Paesi del Nord Africa, nei quali vige decisamente un maggior liberismo. Diversa è anche la possibilità di accesso agli appalti, che nel Golfo, per oltre l’80%, sono aperti alle sole società locali (o di capitale misto), e le produzioni made in GCC sono favorite per legge (anche quando il prezzo di offerte di produttori extra GCC sia inferiore!). Da ciò ne deriva quale sia l’importanza di una presenza stabile in qualche forma, o quantomeno di alleanze strutturate, in detti Paesi.
Non a caso, sono sempre più importanti e numerose le zone franche (spesso a tema), nelle quali, per le società estere, è possibile beneficiare di agevolazioni fiscali, importazioni di macchinari e materie prime in esenzione daziaria, e in alcuni Paesi anche la possibilità di facilitazioni operative. Le più note sono indubbiamente quelle negli EAU, che generano ben il 32% del PIL del Paese. Molto di recente, il gigante trascinante dell’area, l’Arabia Saudita, ha varato una nuova legge che incoraggia gli insediamenti produttivi esteri, sul proprio territorio, premiandoli con vantaggi negli appalti non dissimili da quelli appannaggio delle società locali.
Sono comunque in atto importanti evoluzioni giuridiche e, dall’inizio di quest’anno, anche in alcuni Paesi del Golfo (in particolare negli EAU, che hanno sempre un approccio pionieristico), è diventato possibile per un europeo, almeno in determinate condizioni, possedere interamente una società di diritto locale, non più solamente quando offshore e nelle aree speciali. Non ci aspettiamo rivoluzioni immediate nell’operatività concreta, ma si è aperta una via di importanza cruciale per ambo le parti.
Cosa è utile sapere per fare business
Altri riflessi di tale protezionismo, che come ricordato riguarda i Paesi del Golfo più che l’area nordafricana, si riscontrano nel fatto che ci sono forti limiti all’operatività di agenti di commercio (in genere solo persone fisiche o giuridiche locali). E’ estremamente semplice registrare un contratto di agenzia, viceversa può diventare molto oneroso e complicato scioglierlo, in mancanza di collaborazione della controparte. Una volta stipulato l’accordo, solo l’agente è autorizzato allo sdoganamento delle merci. All’agente sono riconosciuti molti diritti di esclusiva territoriale e temporale, ed occorrono patti parasociali perché il mandante possa tutelarsi adeguatamente.
Anche gli accordi con una società per l’importazione e la distribuzione, devono essere sugellati con estrema attenzione. Nei Paesi, ove a dispetto della legge applicabile sottoscritta dalle parti, prevalgano di regola la Sharia e il foro locale, possono emergere criticità riguardanti la messa in atto delle obbligazioni delle due parti, la cui interpretazione, da parte del giudice, spesso, tende ad avvantaggiare enormemente il soggetto arabo. Non ultima, l’eventuale risoluzione, che se non consensuale, può restare una potente arma di ritorsione nelle mani della controparte locale. Per inciso, il mancato riconoscimento delle sentenze fra l’Italia e vari Paesi della regione, consiglia di richiamare nel contratto eventuali convenzioni internazionali condivise, e di ricorrere all’arbitrato internazionale.
Vi possono essere grandi difficoltà ad ottenere informazioni su privati e aziende (non esistono corrispettivi di visure camerali), e la raccolta di dati, anche quando vengano incaricati affidabili professionisti in loco, o grandi società specializzate, è tendenzialmente superficiale e poco attendibile. Proprio il rigido e apparentemente insondabile ecosistema business, insieme al paradigma “idealistico” di facilitazione degli scambi, fin dal 1995 stimolò la cosiddetta Conferenza di Barcellona che, attraverso incontri annuali, delineava 3 obiettivi principali, di armonizzazione politica, culturale, ed economica (compresi i suddetti aspetti chiaroscuri giuridico-commerciali).
Dopo i primi promettenti incontri bilaterali, per l’istituzione di un’area di libero scambio Euro-mediterranea, il cui varo era teoricamente previsto per il 2010, per molte ragioni, l’iniziativa non è mai decollata (Algeria, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Palestina, Siria, Tunisia e Turchia erano i Paesi interessati), ad oggi, Tunisia, Marocco, Autorità Palestinese, Egitto, Algeria, Israele, Giordania hanno ultimato le procedure necessarie, ma evidentemente l’annoso conflitto israelo-palestinese rimane il principale freno alla piena attuazione di un accordo, che sarebbe per molti versi prodigioso per le nostre imprese.
Si è fatto cenno alle discrepanze fra la finanza islamica e quella occidentale. Alcune connotazioni salienti, che possono impattare sui nostri rapporti commerciali, riguardano il divieto per le banche di richiedere interessi sulle somme di denaro prestate, (ritenuti in qualsiasi entità speculazione e usura) allo stesso modo non gli è consentito esporre al rischio i clienti. Quindi tecnicamente sono vietate anche l’uso della leva finanziaria e della carta di credito. Pertanto, quando i nostri clienti locali manifestino una certa ritrosia alle nostre proposte o richieste che coinvolgano gli istituti di credito, può esserci, dietro le quinte, una di queste ragioni.
I fondi di investimento islamici, ad esempio, fissano un limite ed escludono le società che abbiano un rapporto superiore del 30% fra debiti e capitale sociale. Il punto d’incontro tra divieto di interessi e necessità di profitto, è il profit-loss sharing, il principio che prevede la condivisione del rischio d’impresa. In una banca islamica, i correntisti non ricevono interessi ma regali in natura, donazioni o condizioni privilegiate di accesso al credito. Al termine di un investimento, il profitto viene ripartito tra cliente e istituto secondo le condizioni pattuite, mentre se ci sono perdite a pagare è la banca. È possibile investire in bond, con un vincolo: le risorse raccolte devono essere investite nell’economia reale.
Può anche capitare che il cliente non riesca, anche volendo, ad aprire una lettera di credito, poiché vige il principio secondo il quale il buon musulmano non può mentire né assommare debiti, per cui la lettera di credito contrastando con questo principio fideistico, può succedere che venga catalogata come uno strumento fuorviante, non erogabile dalla banca.
Oltre il petrolio…
E’ molto chiara, a quasi tutti i governanti della regione, la necessità di svincolarsi dalla dipendenza dal petrolio, il cui picco della domanda è previsto intorno al 2030 (in seguito altre fonti più “pulite” dovrebbero gradualmente emergere), e i Paesi produttori dovranno riconfigurare i propri sistemi economici, con risorse diverse oggettivamente scarse, e saranno chiamati a percorrere una strada tecnologica e sostenibile, attirando investitori internazionali con strategie assertive e attraenti. Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, per quanto riguarda i Paesi del Golfo, parrebbero in questo momento le nazioni più lungimiranti in questa direzione.
Il 50% delle esportazioni totali, non petrolifere, di questi Paesi verso la UE, è rappresentato da prodotti tessili, seguono meccanica strumentale e metallurgia (è presente da parecchi anni un contoterzismo spinto, in particolare in Nord Africa). In questo senso è la Turchia a fare la parte del leone, ma anche Tunisia, Marocco ed Egitto cominciano ad assommare numeri non trascurabili.
L’Arabia Saudita è il più vasto mercato fra i Paesi del Golfo, e il suo PIL rappresenta il 55% del reddito regionale totale del Consiglio di Cooperazione del Golfo, e più del 25% del PIL di tutto il MENA (il 50% del quale di pertinenza governativa). Il Paese possiede un quinto delle riserve mondiali accertate di petrolio. Paradossalmente, come già accennato, il governo del Paese ha una visione decisamente lungimirante, ed è fra le nazioni che stanno maggiormente investendo nelle energie rinnovabili in tutto il pianeta. E’ dell’inizio di quest’anno l’annuncio della costruzione di “The Line”, la città a emissioni zero, progetto avveniristico e pilota, per 1 milione di abitanti. La stessa Arabia Saudita, insieme al Bahrein, si è unilateralmente impegnata per raggiungere un livello di emissioni zero in tutto il Paese, entro il 2060.
Sulla scorta della forza economica accumulata, Il governo saudita ha avviato un programma pluriennale di investimenti molto ambizioso (per una spesa pubblica stimata in 95 miliardi di Euro), l’ArabVision2030, che prevede significative migliorie in tutti i settori chiave della società (fra gli altri, 92 ospedali e 3200 scuole), la creazione di 1,3 milioni di posti di lavoro, e la costruzione ex-novo di 6 nuove grandi città, per le quali ha richiesto e ottenuto la presenza di imprese del Made in Italy. Anche al di fuori dei contesti macroeconomici, la propensione al consumo dei sauditi, di prodotti occidentali e italiani in particolare, è mediamente piuttosto elevata.
Fra le imponenti infrastrutture già finanziate e avviate, vi è anche la «ferrovia del Golfo», un’opera colossale, lunga oltre 2000km, che potrà segnare una nuova era logistica e di sviluppo economico, per la quale sono stati stanziati oltre 100 miliardi di $ USA. Collegherà la penisola arabica, da nord a sud e da est a ovest, la costa di Gedda, sul Mar Rosso, agli EAU. Le difficoltà tecniche per eseguire il progetto sono enormi, una duna alta 100 m. può spostarsi anche di 500 metri in un anno, e le temperature estive sono insostenibili… Un altro treno superveloce (380km/h) già collega Gedda a Mecca e Medina, e presto raggiungerà le altre principali città dell’Arabia Saudita. A Riyahd (che nel 2030 avrà oltre 8 milioni di abitanti), si sta costruendo la rete metropolitana più vasta del mondo. Sono molte le imprese italiane coinvolte nei suddetti progetti, per quanto il grosso della torta se lo sia accaparrato la Cina.
Il Qatar è il Paese con il maggior PIL pro capite al mondo, con 1,7 milioni di abitanti, per lo più immigrati, sotto il controllo di un giovane Emiro, che ne è il signore assoluto (non c’è alcun parlamento né evidentemente alcun suffragio), ma in qualche modo, controllando l’emittente internazionale Al Jazeera, è riuscito ad essere percepito come il paladino della democrazia dei Paesi mediorientali, soprattutto in funzione degli interessi commerciali occidentali. Il piccolo emirato è un investitore prodigioso, e di conseguenza un catalizzatore formidabile di iniziative internazionali (come i prossimi mondiali di calcio).
Nel settembre 2009 venne firmato un importante ed articolato trattato fra Italia e Libia, che prevedeva molti progetti di carattere industriale in comune, e la costruzione di imponenti infrastrutture per la gran Giamahiria, con conseguenti magnifiche opportunità per le imprese italiane. Dopo i noti eventi politici, l’attualità di detto trattato sarà da confermare nei fatti, quando si recupereranno pienamente le condizioni per il business.
Arabi ma non solo…
L’Iraq, pur ferito, è ora un Paese relativamente ricco, con risorse petrolifere ingenti e una giovane repubblica parlamentare, che sta sperimentando forme pressoché inedite di democrazia e stato di diritto, pur sempre con l’incombente spada di Damocle dei contrasti con l’Iran. Fra i due Paesi, i rapporti non si sono mai realmente sanati, dopo la guerra del 1980, successiva alla rivoluzione khomeinista del 1979, e la sottovalutazione da parte di Saddam Hussein della capacità di difesa del nuovo regime confinante, che accese le sue mire espansionistiche.
Per entrambi i Paesi, esiste il problema dei beni «dual use» (come per alcuni altri della regione), e per l’Iran anche severe restrizioni, che impongono determinate procedure per le transazioni commerciali, cionondimeno non vanno sottovalutate le grandi potenzialità di questo mercato.
Molto correlati all’Iraq, culturalmente ed economicamente, sono Siria e Libano (oltre al piccolo Kuwait e in qualche misura la Giordania) non a caso, esistono progetti di nazionalismo pan-siriano, mai del tutto sopiti, che nei confini “naturali” della “Grande Siria”, comprendono i Paesi summenzionati. Evidentemente la Siria, dopo 10 anni di guerra, vive una fase di restaurazione e ricostruzione non sempre pacifica, il suo spazio aereo rimane interdetto, e i commerci, benché possibili, sono decisamente laboriosi.
Il Libano, storico crocevia di 3 continenti, attraversa una crisi economica senza precedenti. Rattrista vedere il Paese dei cedri, multietnico, multireligioso, un tempo noto come la “Svizzera d’oriente”, per il suo liberalismo economico e culturale, la qualità della vita, e la sua vitalità finanziaria (eccellente sistema bancario), patria di commercianti fra i migliori al mondo, fin dal tempo dei fenici, dover fare fronte a tempi tanto cupi, e si spera che ne possa uscire quanto prima.
La Turchia, come ricordato, non da tutti considerata parte del MENA, certamente è ad ogni effetto un territorio di collegamento fra l’Europa e il Medioriente, di importanza strategica cruciale. Negli scorsi anni si era ventilato anche l’ingresso del Paese nell’Unione Europea, ostacolato da vari fattori, fra i quali la difesa dei diritti umani e della libertà d’espressione, ritenuti inadeguati agli standard comunitari. La Turchia è certamente una rilevante potenza economica, (non a caso ha preso parte al recente G20), con un tessuto industriale competitivo (e direttamente concorrenziale con quello italiano in vari settori), oltre 80 milioni di consumatori, e un ruolo cruciale nello scacchiere regionale; è ad esempio il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo, (oltre 4 milioni, buona parte dei quali siriani).
La deriva degli ultimi anni del governo Erdogan, e le frizioni con molte potenze internazionali, con riverberi non trascurabili sulle attività economiche, hanno via via reso meno favorevole il clima business. Recentemente però, sul piano regionale, la Turchia ha intensificato le aperture di dialogo con i suoi principali competitor mediorientali, nel tentativo di superare annose tensioni e ricucire gli strappi che, negli anni, l’hanno costretta in una situazione di sostanziale isolamento. Continua dunque lo slancio diplomatico che, indirettamente inaugurato dalla presidenza Biden, sembra aprire qualche spiraglio di distensione nel Mediterraneo allargato. Ciò detto, in termini assoluti, è da considerare un mercato di grande attrattiva, e un ecosistema industriale dove imbastire partnership produttive molto vantaggiose per le imprese italiane.
L’Oman considerato dal FMI uno dei Paesi più promettenti, per i tassi di crescita del prossimo quinquennio, può diventare una nuova frontiera per le PMI italiane. Il governo omanita inoltre, ha lanciato un piano nazionale di sviluppo, “OmanVision2040”, simile all’ArabVision2030 saudita, e non a caso, fra i due Paesi vi sono intense relazioni (così come con gli EAU). Detto piano prevede la realizzazione di progetti infrastrutturali, distretti industriali, opere civili varie, e nuove centrali di desalinizzazione.
In Yemen, Paese strabiliante per attrattive architettoniche, è in corso un conflitto a bassa intensità dal 2015, con la confinante Arabia Saudita. L’antefatto è costituito dalla guerra civile, in corso fin dall’inizio del secolo, fra le forze degli Huthi, (sciiti vicini al governo iraniano), che controllano la capitale Sana’a, e sono alleate con le falangi fedeli all’ex capo di stato Ali Abdullah Saleh, scontratesi con le milizie leali al governo del deposto presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi. Sullo sfondo, non sono mancati anche moti indipendentisti, da parte di gruppi organizzati dello Yemen meridionale. In un quadro di questo tipo, ovviamente, le possibilità di business sono attualmente assai limitate.
Grandi e piccoli attori…
Gli EAU, sono spesso la prima frontiera dei tentativi di contatto business, fra le imprese italiane e la regione del Golfo, la conseguenza più apprezzabile di questa consuetudine, è che da vari anni gli EAU siano il nostro principale mercato dell’area MENA, di cui siamo il decimo fornitore e, con oltre 41 miliardi, questa destinazione vale il 10% del nostro export complessivo. Gli EAU, sono anche, se non soprattutto, un mercato di smistamento per gli altri Paesi dell’area, e per molti mercati orientali più lontani.
In realtà gli Emirati sono 7, e hanno caratteristiche abbastanza discordi fra loro, per gli italiani il più noto è certamente l’Emirato di Dubai (con il quale molti tendono ad identificare l’intero Paese), che avendo terminato le riserve di petrolio fin dagli anni ’70, ha saputo reinventarsi con soluzioni estremamente intelligenti e funzionali, di terziario avanzato. Dubai è sede di importanti fiere, con un’ottima organizzazione logistica, un ambiente sociale internazionale ospitale e permissivo, eccellenti servizi professionali e finanziari.
Il Bahrein, letteralmente “la terra fra i due mari”, geologicamente si qualifica come un’isola al largo delle coste saudite, la cui popolazione di 1,7 milioni si concentra fondamentalmente nella città capitale di Manama. Il Paese, conosce da molti anni uno sviluppo impressionante, ed è attualmente al 13° posto mondiale per PIL procapite, soprattutto grazie al rapporto con l’importante vicino Saudita, al quale fornisce servizi e facilitazioni. E’ pratica comune, ad esempio, per gli occidentali fissarvi incontri con aziende saudite, essendo molto più semplice ottenere il visto e vigendo regole decisamente meno restrittive nella quotidianità (io stesso, vi sono stato almeno una ventina di volte, prevalentemente per questa ragione).
Senza mancare di rispetto alla sua sovranità nazionale, il Bahrain, viene percepito un po’ come un “protettorato” Saudita e, per certi versi, sta all’Arabia Saudita, come Montecarlo sta alla Francia. E’ anche fisicamente collegato all’Arabia, da quasi 40 anni, mediante un ponte lungo 25km, che il giovedì sera, alla vigilia del fine settimana arabo, si riempie di una colonna infinita di auto, alla ricerca di svago e maggiore tolleranza, certamente possibili a Manama.
Uno sguardo sul Nord Africa…
L’Egitto, con 102 milioni di abitanti, è lo stato più popoloso dell’intero bacino del Mediterraneo, basterebbe già questo dato a renderlo un mercato altamente appetibile. Nella sola città de Il Cairo, si contano oltre 15 milioni di persone, più dell’intera popolazione di molti Paesi europei. A oltre un anno dallo scoppio della pandemia di Covid-19, l’Egitto appare impegnato ad arginare le gravi conseguenze dell’emergenza, che hanno non solo travolto un’economia già in affanno, ma anche concorso ad acutizzare le preesistenti disfunzioni strutturali a livello sociale e politico (ove si continua ad osservare un piglio piuttosto autoritario).
La pandemia, infatti, ha rappresentato un test fondamentale per l’economia egiziana che si apprestava, nel marzo 2020, a consolidare un programma di riforme avviato, grazie al prestito concordato nel 2016, con il Fondo monetario internazionale (Fmi), che aveva permesso al Paese di puntare su una auspicata ripresa economica, non accompagnata però, per il momento, da coerenti riforme né investimenti per le politiche sociali e del lavoro, avendo il governo preferito destinare la maggioranza della spesa pubblica verso mega progetti infrastrutturali. Evidentemente, a seguito della vicenda di Giulio Regeni, da alcuni anni, i rapporti fra il nostro Paese e l’Egitto sono piuttosto tesi, e non è facile per le imprese italiane partecipare a detti progetti.
La Tunisia si colloca al 6° posto, come macroeconomia, nel mondo arabo, e al 40° posto a livello mondiale su 133 Paesi. Le istituzioni governative restano il punto di forza del Paese, con un alto livello di sicurezza, ottime infrastrutture e sistema educativo di buon livello. L’Italia è uno dei maggiori investitori, e su 3000 imprese partecipate o estere, 7/800 sono italiane (altre francesi o inglesi). Il Paese è in grande cambiamento, ed è presto per dire come sarà il futuro, ma ci sono segnali per coltivare un certo ottimismo.
Della Libia si è già accennato più sopra. Algeria e Marocco, invece, due ex-colonie francesi, hanno un rapporto storico e consolidato con i Paesi europei, compresa l’Italia. L’Algeria è geograficamente il più ampio Paese africano, e conta ben 50 milioni di abitanti. Purtroppo le elezioni del 2020 sono state afflitte da un astensionismo superiore al 70%, e dall’ennesimo stallo nei risultati. Il sistema politico-militare “Pouvoir”, infatti, che più che una casta rappresenta una struttura “genetica” del potere algerino, è considerato fortemente corrotto e interessato soltanto al mantenimento del proprio status quo, malgrado il tracollo economico che il paese oggi si trova ad affrontare, aggravato ulteriormente, a partire dal 2020, dal contesto pandemico, non si intravedono azioni che preludano ad un miglioramento delle condizioni.
Il Marocco beneficia del governo illuminato di re Mohammed VI, ed è, con ragione, considerato uno dei Paesi più accoglienti e aperti del mondo musulmano. I rapporti sono ottimi sia con i Paesi europei che con gli altri membri della Lega Araba, tanto che il partenariato nel Paese, viene utilizzato da alcune imprese europee, come antenna per la diffusione nel resto del Nord Africa, nei Paesi dell’Africa subsahariana e talora persino nei Paesi del Golfo. Rimangono certamente disuguaglianze all’interno del territorio nazionale, per arginare le quali, le autorità si sono spese per varare progressive riforme, ma il Paese conosce da anni una fase di grande espansione e, negli ultimi anni, è migliorato costantemente nelle classifiche internazionali di “Doing Business”.
I legami fra Italia e MENA
I rapporti fra Italia e Paesi del sud del Mediterraneo sono storicamente molto intensi, già nei primi decenni del secolo scorso, città come Tunisi ed Alessandria avevano comunità italiane vitali ed attivissime (Ungaretti e Marinetti, fra gli altri, nacquero ad Alessandria), le imprese italiane esportatrici nel bacino del Mediterraneo sono circa 60.000, in aumento costante, negli ultimi anni.
Si è già fatto cenno, nei paragrafi precedenti, delle opportunità istituzionali in Libia e Arabia Saudita, tuttavia gli IDE italiani verso l’Area mediterranea rimangono ancora molto limitati, sebbene continui ad aumentare il peso del fatturato prodotto dalle nostre aziende in questi Paesi (Simest ha approvato un migliaio di progetti, distribuiti in tutta l’area del MENA, fra progetti di investimento ed incentivi alle imprese, frazionati in vari settori).
Per un vero salto di qualità, l’Italia dovrebbe passare da una cultura dell’esportazione ad una cultura degli investimenti, ma già oggi, i Paesi MENA rappresentano il terzo acquirente di merci italiane dopo Germania e Francia. L’interscambio commerciale, ha più che triplicato i valori fra il 2000 ed il 2020, dai 40 miliardi di partenza ai quasi 140 (non lontano da 1/4 dell’intero export italiano di beni e servizi).
Per l’esportatore italiano, questi Paesi possono rappresentare sia mercati di sbocco che piattaforme per raggiungere più mercati limitrofi. i grandi gruppi industriali italiani sono già presenti in quasi tutti i Paesi dell’area, le PMI invece in modo ancora limitato, ovviamente perché una strutturazione sul posto, concretamente non è un’operazione così semplice.
Le ragioni sono da ricercarsi nelle più volte menzionate incomprensioni culturali, ma anche nelle complessità organizzative, in un clima di business non ovunque favorevole, nella presenza di barriere tariffarie e non, e di procedure doganali e tassazioni bizantine e altalenanti, oltre a norme tecniche, sanitarie ed ambientali poco comprensibili e mutevoli. Tutti questi fattori assommati, rappresentano un freno oggettivo che non trova, per altro, ammortizzatori salvifici nella latitanza sostanziale del nostro sistema Paese.
Una delle strategie “surrogate” di insediamento strutturale, più diffuse e compatibili con le leggi locali, può prevedere la stipula di accordi con un partner produttivo in loco, basati sul trasferimento di know-how, definendo un prezzo di trasferimento che tenga conto dell’intero contesto del progetto. A ciò, talvolta si può magari legare l’utilizzo dei canali di vendita del partner stesso, per commercializzare altri prodotti, non oggetto della collaborazione contrattuale industriale.
Occorre muoversi con cautela, perché non sono rari, purtroppo, i tentativi di truffa. Dalla richiesta di forti anticipi motivati come performance bond per appalti, o regalie atte ad «ungere gli ingranaggi», al continuo rimarcare presunti poteri e connessioni del socio locale, in grado di «aprire tutte le porte», per indurre a formalizzare accordi contrattuali o incalzare il partner italiano a firmare documenti in lingua araba, senza dargli tempo di tradurre e riflettere. Stante quanto sopra, si comprende perché si possano trovare, nei contratti di società italiane esperte, clausole che riguardino il divieto di elargizione di omaggi o incentivi di qualsiasi natura, e a qualsiasi titolo, a rappresentanti delle autorità del Paese.
Il rapporto con Israele
Storicamente gli ebrei furono un importante tramite fra mondo islamico e cristiano latino, è ben documentata, ad esempio, l’azione intermediatrice svolta dagli ebrei spagnoli che, sfruttando la benevolenza dei governi islamici, si avvalsero della loro possibilità di aggirare la norma coranica che vietava il cosiddetto “commercio di denaro” ai musulmani e, in definitiva, di lucrare sulle plusvalenze.
L’apporto ebraico, non fu tuttavia solo di tipo economico-finanziario, bensì, in misura tutt’altro che trascurabile, anche scientifico e artistico e soprattutto letterario. A causa dei divieti islamici che impedivano agli ebrei determinate professioni (soldato, giudice e proprietario terriero), gli israeliti furono indirettamente costretti a occuparsi, oltre che di commercio, anche di tutte le cosiddette professioni “liberali” (nel senso di libere), tra cui quelle di medico, farmacista, studioso e traduttore, trovando benevola e conveniente accoglienza nella società islamica, giungendo a occupare, non di rado, importanti funzioni burocratico-amministrative (anche ai massimi livelli) nella macchina governativa islamica.
Questa convivenza mutualmente conveniente e relativamente indulgente, si è protratta per molti secoli. Paradossalmente, l’antisemitismo vero e proprio, specialmente a partire dal sedicesimo secolo, è stato molto più presente presso gli europei, dove gli ebrei erano confinati in veri e propri ghetti e sovente pesantemente discriminati. Nel MENA la situazione è precipitata dopo il 1948, con la costituzione dello stato di Israele; a seguito di detto riassetto, non è stato più possibile pressoché alcun genere di intesa stabile né convivenza pacifica.
Dalla fine del 2020, si è aperto un nuovo spiraglio incoraggiante, poiché tramite “gli accordi di Abramo” gli EAU, il Bahrain, Sudan, Marocco e Oman, hanno annunciato di accettare una progressiva “normalizzazione” dei rapporti con Israele. E’ tuttavia verosimile, che il processo di pace e il riconoscimento di Israele da parte di tutti (o quasi) i Paesi arabi, possa compiersi pienamente solo quando si sarà in qualche modo definitivamente risolta la questione israelo-palestinese, verosimilmente attraverso la formalizzazione, universalmente riconosciuta, anche dell’esistenza di uno stato sovrano Palestinese.
Anche nell’operatività business, la suddetta situazione riverbera, con incompatibilità conclamate che, in qualche modo, vanno ammortizzate. Ovvero quando già si intrattengano rapporti con aziende israeliane è frequente che si instauri un rifiuto categorico a negoziare da parte di molte aziende arabe e viceversa. La soluzione per le aziende italiane spesso deposita nel creare brand ad hoc, offerti solo all’una o all’altra parte. Va prestata qualche attenzione anche agli eventuali visti apposti sul passaporto, che possono pregiudicare l’ingresso nel territorio della fazione avversa (per questo ed altri veti incrociati internazionali, io ho avuto fino a 3 diversi passaporti, in passato, che ritiravo, di volta in volta, al bisogno, dal deposito obbligato in Questura).
Nel terzo e ultimo articolo, affronteremo alcuni accorgimenti culturali e comportamentali, alcuni noti e altri forse meno, per rapportarsi da un punto di vista umano e relazionale, con i partner del MENA.
Saverio Pittureri
Easy Trade
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